Tipicità, patrimonialità, interessi del testatore
Tipicità, patrimonialità, interessi del testatore(1)
di Vincenzo Barba
Ordinario di Diritto privato, Università di Roma La Sapienza

Il testamento nel codice civile del 1865. I due problemi interpretativi: se un testamento possa contenere disposizioni non patrimoniali; se sia valido un testamento recante soltanto disposizioni non patrimoniali

La gestazione della norma di cui all’art. 587 c.c. è, certamente, tra le piú complesse del secondo libro del codice civile, al punto che essa è una delle poche disposizioni di legge che muta, significativamente, non solo dal Progetto preliminare al Progetto definitivo di codice civile e da quest’ultimo al testo del 1939, entrato in vigore il 21 aprile del 1940, ma anche nel momento in cui l’ultimo è stato coordinato con gli altri libri del codice civile, ossia con l’approvazione del codice del 1942(2).
Non soltanto perché la nozione di testamento sollevava un problema di fondamento filosofico-razionale(3) in ordine al diritto di testare(4), nonché un problema di fondamento tecnico, dovendosi spiegare l’idoneità di un atto giuridico a produrre effetti quando l’autore di quella volontà era mancato, quando, cioè, quella volontà non era piú(5). Ma, soprattutto, perché il legislatore aveva in animo di risolvere due problemi avvertiti dalla letteratura e dalla giurisprudenza nella vigenza del vecchio codice(6): se un testamento potesse contenere disposizioni di carattere non patrimoniale e se queste ultime potessero costituire l’unico oggetto del testamento, ossia se fosse valido un testamento con il quale il soggetto regolasse profili non patrimoniali della propria successione, senza disporre dei propri beni.
L’art. 759 del codice civile previgente(7), limitandosi a definire il testamento come «un atto revocabile, col quale taluno, secondo le regole stabilite dalla legge, dispone per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse a favore di una o piú persone», aveva, di fatto, riconosciuto all’atto una funzione esclusivamente attributivo-patrimoniale(8).
Ciò, tuttavia, non aveva impedito alla dottrina di rispondere positivamente alla prima questione, sostenendo che il testamento potesse contenere anche disposizioni di contenuto non patrimoniale.
Del resto, altre disposizioni di legge, come, a esempio, gli artt. 199, 235, 242, 726, 917 c.c. prev., nello stabilire che potevano essere contenute in atto notarile o in testamento sia la determinazione di legittimare o riconoscere un figlio naturale, sia la prescrizione alla madre superstite delle condizioni sull’educazione dei figli e sull’amministrazione dei loro beni, sia la designazione di un tutore, sia la decisione di riabilitare un indegno, sia la determinazione di revocare il testamento, dimostravano e confermavano la possibilità che il testamento potesse contenere disposizioni testamentarie non aventi contenuto patrimoniale.
Era fermo, però, il convincimento che il testamento fosse soltanto l’atto di ultima volontà con il quale il soggetto dispone di tutti o parte dei propri beni, sicché, cosí rispondendo negativamente alla seconda questione, si escludeva l’efficacia di una disposizione non patrimoniale nel caso in cui essa avesse costituito il contenuto esclusivo dell’atto testamentario.
In questa direzione si era orientata anche una parte della nostra giurisprudenza e, in particolare, il Tribunale di Venezia, che con la sentenza del 1 novembre 1923(9), aveva negato che si potesse considerare testamento, e, dunque, che fosse valido ed efficace, quell’atto che, pur rivestendo la forma del testamento olografo, non contenesse alcuna disposizione di contenuto patrimoniale-attributivo, ma, soltanto, disposizioni di carattere non patrimoniale.
Vigendo il vecchio Codice e l’impostazione culturale del diritto di cui quello era espressione, la nostra dottrina, ancora fortemente intrisa di volontarismo, era impegnata piú nel tentativo di spiegare il fondamento tecnico della successione testamentaria, che non a occuparsi del suo contenuto non patrimoniale. Peraltro, in quel contesto, la regolamentazione di situazioni giuridiche esistenziali era un fenomeno, obbiettivamente, limitato e, soprattutto, era spesso eluso attraverso argomenti vòlti a ridurre disposizioni a contenuto, palesemente, non patrimoniale entro i confini di quelle patrimoniali. Si diceva, a esempio, che la disposizione testamentaria sui funerali o sulla sepoltura si sarebbe dovuta, comunque, considerare una disposizione a contenuto patrimoniale, perché finiva con l’imporre all’erede o al legatario l’obbligo di pagare le spese del funerale, o della sepoltura. Ancóra, che la disposizione testamentaria di revocazione del testamento era da considerare patrimoniale, dacché il suo effetto consisteva nell’attribuire i beni agli eredi nominati con l’eventuale testamento anteriore ovvero agli eredi individuati dalla legge.
Attraverso questo escamotage, ferma l’idea che il testamento era un atto a contenuto esclusivamente patrimoniale-attributivo, si negava che disposizioni a contenuto non patrimoniale potessero considerarsi contenuto del testamento e, dunque, che fossero valide ed efficaci nel caso in cui avessero costituito il contenuto esclusivo dell’atto avente la forma testamentaria(10).

Dal progetto preliminare al testo dell’art. 587 c.c. Il superamento dei due problemi interpretativi

La difficoltà di ricondurre tutte le c.dd. ultime volontà nei confini delle disposizioni patrimoniali e l’esigenza di attribuire validità a un atto testamentario non contenente disposizioni di carattere attributivo-patrimoniali, ossia i due problemi interpretativi che si agitavano attorno alla lettura dell’art. 759 c.c. prev., spiegano le ragioni del travaglio del nostro legislatore rispetto alla nuova norma sulla nozione di testamento.
La formulazione adottata nell’art. 140 del progetto preliminare del 1936 era, sicuramente, quella che, meglio di tutte le successive, avrebbe risolto il problema, dacché stabiliva che «il testamento è un atto revocabile, con cui taluno dichiara la sua ultima volontà, da valere dopo la morte, sia mediante disposizioni riguardanti tutte o parte delle proprie sostanze, sia mediante disposizioni non patrimoniali che abbiano carattere giuridico».
Formula ampia, che non riduceva il testamento al contenuto patrimoniale, sebbene fosse testualmente precisato, come non manca di rilevare Ludovico Barassi(11)nella relazione accompagnatoria al testo, che le disposizioni non aventi contenuto patrimoniale dovevano, tuttavia, avere carattere giuridico. Precisazione reputata necessaria allo scopo di evitare, pur trattandosi di delucidazione pleonastica, che una «interpretazione troppo lata» potesse finire per indurre taluno a reputare contenuto del testamento anche disposizioni di carattere «puramente morale o affettivo».
L’ampiezza della definizione che compare nel progetto preliminare del 1936 è, significativamente, ridimensionata nel progetto definitivo, il quale, nell’art. 130, definisce il testamento «un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse» aggiungendo - al secondo comma - che «le disposizioni di carattere non patrimoniale, che possono essere contenute nel testamento, conservano la loro efficacia anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale».
Una scelta, dunque, radicalmente diversa da quella precedente, con la quale si ribadisce, come emerge chiaramente nella Relazione che accompagna questo testo, che si era reputato piú conveniente «fissare innanzi tutto … la nozione tradizionale di testamento e aggiungere, poi, in comma separato, la norma sull’efficacia delle diposizioni non patrimoniali». Ciò allo scopo di non frangere il concetto tradizionale di testamento, come atto di regolamentazione di profili prettamente attributivo-patrimoniali e, nondimeno, di consentire, nei casi previsti dalla legge, che il testamento potesse contenere anche disposizioni di carattere non patrimoniale.
Questa formula, tuttavia, non aveva creato consensi unanimi.
Gli studiosi e i giuristi coinvolti nella predisposizione del nuovo codice, pur concordi «nel ritenere che il testamento possa contenere anche disposizioni di carattere giuridico non aventi contenuto patrimoniale e che queste possano avere efficacia in mancanza di quelle patrimoniali»(12), consideravano intimamente contraddittorio il testo dell’art. 130 del progetto definitivo. Si diceva, infatti, che esso recava un’intrinseca antinomia, «tra la prima parte, in cui si assume come carattere fisionomico del testamento il suo contenuto patrimoniale e la seconda parte che ammette la figura del testamento anche se non vi è contenuto patrimoniale».
Il tentativo di mantenere ferma l’impostazione già assunta con il progetto definitivo di codice, ma di superare quell’apparente contraddizione, viene sperimentato(13)con la stesura del libro del codice civile «Delle successioni per causa di morte e delle donazioni», approvato con R.D. del 26 ottobre 1939, entrato in vigore il 21 aprile 1940, il quale, all’art. 133, offre questa definizione: «il testamento è un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse. - Le disposizioni di carattere non patrimoniale, che la legge consente siano contenute in un testamento, hanno efficacia anche se nell’atto mancano disposizioni di carattere patrimoniale».
Il testo, che pure aveva l’aspirazione di superare la contraddizione del precedente, riceve critiche severe da autorevole dottrina(14), che lo considera non soltanto contraddittorio, almeno quanto il precedente, ma, addirittura, capace di snaturare e alterare il concetto stesso di testamento, dacché secondo la formulazione in esso contenuta «è testamento anche l’atto in cui non si contiene alcuna disposizione in ordine al patrimonio del testatore»(15), a nulla valendo, per superare questa antinomia, le considerazioni svolte nella Relazione di accompagnamento(16).
Non è un caso che i primi commentatori di questa disposizione di legge hanno insistito sul carattere esclusivamente patrimoniale del testamento, precisando che le disposizioni di carattere non patrimoniale «non confluiscono sulla validità del testamento»(17). Hanno negato, cioè, che la regolamentazione di interessi non patrimoniali costituisca contenuto del testamento, postulando che la causa di quest’ultimo coincida, fondamentalmente, con la disposizione dei propri beni per dopo la morte.
L’attaccamento della dottrina tradizionale al concetto di testamento quale atto attributivo-patrimoniale e il rischio che la formulazione linguistica dell’art. 133 c.c. potesse consentire non soltanto di affermare che le disposizioni non aventi contenuto patrimoniale potessero essere contenute in un testamento, ma che esse ne potessero anche costituirne unico oggetto, senza che l’atto perdesse il suo carattere sostanziale, hanno di fatto suggerito un’ulteriore modifica.
Per questa ragione, nel momento in cui, con l’approvazione degli altri libri del codice, si trattava di effettuare il coordinamento del libro «Delle successioni per causa di morte e delle donazioni», già approvato nel 1939, si rimaneggiò, ulteriormente, il testo. Il quale assume la conformazione che, oggi, conosciamo, mercé la sostituzione dell’ultima parte del secondo comma del vecchio art. 133, nella parte in cui prevedeva che le disposizioni di contenuto non patrimoniale «hanno efficacia anche se nell’atto mancano disposizioni di carattere patrimoniale», con la formula attuale: «hanno efficacia, se contenute in un atto che ha la forma del testamento, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale».
L’introduzione dell’incidentale «se contenute in un atto che ha la forma del testamento» era stata pensata per superare la contraddizione, risultando utile a precisare che il testamento è, sostanzialmente, un atto avente un contenuto attributivo-patrimoniale; che il testamento può contenere disposizioni non aventi contenuto patrimoniale e che l’efficacia di quest’ultime rimane ferma anche nel caso in cui le stesse costituiscano l’oggetto esclusivo di un testamento o, piú esattamente, di un atto avente la forma testamentaria, ma non la natura.
Il risultato complessivo è, dunque, chiaro.
Ancora sentito il problema del fondamento filosofico-razionale del diritto di testare e del fondamento tecnico del succedere(18), si è voluto rispondere positivamente alla prima questione che si poneva quando vigeva il vecchio codice del 1865, ossia se un testamento potesse contenere disposizioni non aventi contenuto patrimoniale, e positivamente anche alla seconda, ovvero se queste ultime dovessero considerarsi efficaci, quand’anche il testamento non contenesse disposizioni a contenuto patrimoniale. Si mantiene, ferma, però, l’idea che il testamento è un atto patrimoniale-attributivo, con la conseguenza che le disposizioni non patrimoniali, che possono essere rese nel testamento, hanno solo la forma dell’atto testamentario, senza che da questo dato estrinseco si possa o debba, di necessità, inferire la loro natura testamentaria.

Due nuovi problemi interpretativi: se si possano dare disposizioni non patrimoniali oltre i casi espressamente ammessi dalla legge

Nel trionfo dell’idea che il testamento è un atto a contenuto patrimoniale-attributivo, si aprono, però, due nuovi problemi, ben piú importanti: se disposizioni a contenuto non patrimoniale possano essere contenute in un testamento soltanto nei casi ammessi dalla legge, escludendo, cosí, che si possano inserire nel testamento disposizioni non patrimoniali, quando la legge non lo preveda, espressamente; se le disposizioni non patrimoniali possano considerarsi testamentarie in senso proprio, ovvero atti che del testamento hanno solo la forma, come se quello fosse un mero contenitore destinato, unicamente, a ospitarle, ovvero anche la sostanza.
Non v’ha dubbio che la proposizione incidentale introdotta nell’art. 587, comma 2, c.c., ha inteso significare la negazione del loro carattere testamentario e, dunque, la loro idoneità a valere quale atti di autoregolamentazione della propria successione.
Si trattava, del resto, di un’impostazione coerente all’idea di successione a causa di morte che al tempo si considerava dominante, ossia l’idea che il c.d. diritto successorio o ereditario fosse esclusivamente deputato a regolamentare i profili economico-patrimoniali del soggetto e, dunque, che il testamento, quale atto di autonomia privata funzionale alla regolazione della propria successione, fosse un atto esclusivamente deputato alla istituzione di eredi e legatari.
La nuova formulazione dell’art. 587 c.c., la quale nasceva per risolvere quelli che nel vigore del precedente codice civile erano due problemi avvertiti dalla scienza e dalla prassi, ha finito con il risolverli, creandone due, ancóra, piú complessi: se si potessero dare anche disposizioni non patrimoniali diverse da quelle ammesse dalla legge e se esse costituissero oggetto di testamento. Confermando, dunque, che non si può dare una disposizione di legge capace di risolvere i problemi applicativi e che tanto è maggiore il grado di dettaglio di una regola o di prossimità semantica della stessa, tanto maggiore è il rischio che essa diventi incapace di offrire risposte coerenti ai molteplici casi, esigendo al giurista l’ineliminabile compito di individuare la disciplina del caso concreto nella complessità del sistema ordinamentale, alla luce dei suoi princípi. Confermando che le norme principio e le clausole generali restano un ineliminabile e irrinunziabile strumento normativo di adeguamento del sistema. Rispetto al primo problema, nonostante un’inziale lettura restrittiva offerta dalla nostra letteratura(19), e qualche ostilità che continua a permanere, alla fine ha prevalso l’orientamento volto a ipotizzare che nel testamento possano essere contenute disposizioni di carattere non patrimoniale, oltre i casi previsti dalla legge (come a es. disposizioni che riguardano il trattamento e la destinazione del cadavere, i funerali, il tempo, il luogo e il modo della sepoltura, la pubblicazione o non pubblicazione, o la distruzione di lettere o manoscritti, la sorte di ricordi di famiglia). Del resto si è osservato che un’interpretazione restrittiva(20), sarebbe incoerente, vieppiù se si consideri che, da tempo, la giurisprudenza ha ammesso la possibilità che tali interessi post mortem non patrimoniali possano essere regolati mercé contratti di mandato post mortem exequendum(21).
Si diceva, piuttosto, che la formulazione adottata nel testo dell’art. 587 c.c. sconterebbe una sorta di dimenticanza da parte della Commissione(22). La quale, pur essendo consapevole del problema, ha offerto una soluzione letterale contraria alla stessa intenzione manifestata da quella Commissione nel corso dei suoi lavori e in occasione della Relazione definitiva.
Inoltre, si poneva in dubbio, sollevandosi, ancóra, il problema del fondamento tecnico del succedere, quali dovessero essere gli strumenti tecnici, mercé i quali gli interessi non patrimoniali potevano essere, concretamente, realizzati. Si diceva, infatti, che mentre il fondamento tecnico del succedere in un diritto, si poteva spiegare in ragione della delazione, senza necessità di dover ipotizzare un rapporto giuridico tra de cuius e avente causa, diversamente, la realizzazione d’interessi diversi, da quelli che avrebbero determinato un mero trasferimento di un diritto, avrebbero dovuto implicare la costituzione di un rapporto giuridico corrente, peraltro, tra eredi e legatari. Secondo questa logica, gli unici strumenti tecnici mercé i quali tali interessi si sarebbero potuti realizzare, erano il modo(23)o la condizione, con intesa, che la scelta doveva essere esplicita e non ricavabile in via interpretativa e che, in ogni caso, il modo non avrebbe potuto assorbire l’intero patrimonio.
Riprendendo due casi dibattuti, si diceva, a esempio, che la volontà che il proprio animale fosse mantenuto nello stesso modo usato dal testatore, avrebbe richiesto un modo, o una condizione risolutiva a carico dell’erede o del legatario, in difetto della quale non si sarebbe, altrimenti, potuto ipotizzare l’esistenza di un onere tacitamente imposto all’erede legittimo, o testamentario(24); che la volontà che tutti i propri beni fossero venduti e con il ricavato eretto un monumento alla memoria del defunto(25), non poteva trovare attuazione, perché implicava l’esclusione dell’erede legittimo, o testamentario. Precisandosi, dunque, che, ove pure il testamento contenesse disposizioni di ordine morale, come l’invito ad abbracciare un tale stato, o l’esortazione a compiere un certo atto, reputato giusto, qualora esse non fossero costruite in termini di modo o di condizione e non collegate a una disposizione di carattere patrimoniale, si sarebbe trattato si mere raccomandazioni, ossia d’indicazioni, giuridicamente non vincolanti, rimesse alla coscienza di coloro a cui sono destinate(26).

Segue: se le disposizioni testamentarie non patrimoniali costituiscano contenuto sostanziale del testamento

Piú problematica, certamente, la seconda questione, rispetto alla quale, a fronte del tendenziale orientamento volto a escludere che le disposizioni a contenuto non patrimoniale possano considerarsi capaci di costituire contenuto del testamento, al quale si riserva, dunque, la funzione di disporre dei propri beni per dopo la morte, le uniche aperture hanno, nondimeno, finito con il distinguere il concetto di testamento, ipotizzando che si dovesse discorrere di testamento in senso stretto e in senso ampio(27), o in altra variante, di testamento in senso sostanziale e in senso formale(28), o, ancóra, di testamento in senso negoziale o in senso documentale(29).
Postulando, in altri termini, di là delle formulazioni che, a vòlta a vòlta, sono state utilizzate, che il contenuto del testamento è soltanto quello dispositivo dei beni, mentre le disposizioni di carattere non patrimoniale non fanno parte del contenuto del testamento e, dunque, non sono, in senso tecnico, disposizioni testamentarie.
Soluzione che, svolta allo scopo di giustificare la diversità di disciplina tra le due specie di disposizioni, manca di considerare che questa diversità non dipende dalla natura giuridica della dichiarazione, bensí dall’interesse che ciascuna di esse è diretta a tutelare.
In altri termini si è cercato, anche in considerazione di ciò che risulta nella Relazione a S.M il Re, di dire che la disciplina c.d. sostanziale del testamento trova applicazione soltanto al contenuto patrimoniale del testamento, ossia a quella parte di contenuto che qualifica l’atto testamentario, inteso come atto di attribuzione dei beni; diversamente essa non trova applicazione alle disposizioni non aventi contenuto patrimoniale, le quali non costituiscono contenuto del testamento vero e proprio, ma negozi giuridici diversi che vengono, meramente, ospitati nel testamento.
A queste disposizioni, pertanto, dovrebbero applicarsi soltanto la disciplina sulle forme e le formalità del testamento, ossia quelle norme che attengono alla modalità emissiva della dichiarazione.
In questo senso, la regola della revocabilità, cosí come quella sulla capacità, poiché riguardano la disciplina sostanziale e non quella formale dell’atto, dovrebbero applicarsi soltanto alle disposizioni aventi contenuto patrimoniale e non anche a quelle disposizioni che ne sono prive.
Questo argomentare, se da un lato, riesce a giustificare, perché la regola sulla revocabilità della dichiarazione non trovi applicazione al riconoscimento del figlio naturale, non spiega, però, perché altre disposizioni non patrimoniali, come a esempio, quelle inerenti la sorte del proprio cadavere, debbono considerarsi revocabili e, dunque, soggette a una regola del c.d. testamento sostanziale.
Il difficile nodo non credo che possa trovare un’utile risposta in questo modo di ragionare astratto, il quale vorrebbe ipostatizzare la categoria delle disposizioni a contenuto patrimoniale, distinguendola da quelle prive di tale carattere, come se si trattasse di due categorie dogmatiche diverse, ciascuna dotata di una propria disciplina. Occorre abbandonare un’impostazione di questo tipo e valutare l’interesse che le singole disposizioni tutelano.
L’applicazione di una disciplina, o, più esattamente, l’ordinamento del caso concreto, soprattutto in materia testamentaria, non può legarsi a una valutazione puramente astratta, che si misuri sulla sola riconducibilità della disposizione entro quelle di tipo patrimoniale o non patrimoniale, ma deve valutare l’interesse che la singola disposizione testamentaria è vòlta a realizzare(30). Se si muova da questa prospettiva ne viene, senza necessità di dover ipotizzare categorie e forzature di quelle, che l’irrevocabilità del riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio è regola, che non dipende dalla natura patrimoniale o non patrimoniale della dichiarazione e, dunque, dalla sua riducibilità a contenuto proprio del testamento o ad atto espresso in mera forma testamentaria, bensí dall’interesse effettivamente tutelato dalla norma, dalla sua incidenza su uno status familiare e, a tutto concedere, dalla sua discussa riconducibilità ad atto giuridico in senso stretto, piuttosto che ad atto di autonomia privata.

Il c.d. contenuto tipico e atipico del testamento. La teoria degli atti di ultima volontà diversi dal testamento

La teoria patrimoniale del testamento e l’idea che si debba distinguere tra disposizioni testamentarie aventi contenuto patrimoniale, alle quali si applica sia la disciplina sostanziale sia quella formale del testamento, e disposizioni aventi contenuto non patrimoniale, alle quali si applica soltanto la disciplina formale del testamento, viene ampiamente sviluppata da Giorgio Giampiccolo(31), che a tal scopo adopera le fortunatissime espressioni di contenuto tipico e atipico del testamento.
Era molto forte nella pagina del Maestro l’idea patrimoniale del testamento: tale è soltanto l’atto di ultima volontà che ha contenuto non soltanto patrimoniale, ma anche attributivo, sicché il c.d. contenuto tipico del testamento coincide, sostanzialmente, con l’istituzione di erede, l’istituzione di legato e, ovviamente, tutte quelle disposizioni complementari o accessorie a quelle(32).
Il c.d. contenuto atipico del testamento chiama, invece, a raccolta tutti quegli atti non direttamente attributivi, che possono essere contenuti nel testamento.
Tale espressione non serviva per dire, come si potrebbe pensare e come oggi si è giunti ad affermare(33), movendo da un concetto di successione coerente con l’attuale sistema ordinamentale, che il testamento è un atto con il quale il soggetto può regolare tutti i propri interessi post mortem, ma, all’esatto contrario, per dire che era testamento, in senso proprio, soltanto quello avente un contenuto attributivo, e, dunque, il testamento dispositivo della delazione. È servita, cioè, per negare che il contenuto atipico indicasse il testamento in senso proprio; per ribadire, dunque, che si tratta di atti diversi dal testamento e autonomi; atti di ultima volontà, ossia atti unilaterali e unipersonali, sempre revocabili, con il quale il soggetto può regolamentare taluni interessi post mortem(34).
Da questa intuizione di Giampiccolo, correggendone, ovviamente, la portata, credo che un discorso moderno e contemporaneo sul diritto delle successioni debba prendere le mosse.
L’ordinamento italiano conosce, da tempo, atti di ultima volontà diversi dal testamento.
Già nel codice civile v’è traccia di atti di ultima volontà, non necessariamente testamentari, idonei a ordinare profili successori della persona. Basti ricordare la scelta del tutore o dell’amministratore di sostegno del proprio figlio, per il tempo successivo alla morte del genitore compiuta per atto pubblico o per scrittura privata autenticata (artt. 348, comma 1, e 408, comma 1, c.c.), la dichiarazione con cui si può escludere una persona dall’ufficio tutelare (art. 350, comma 1, n. 2 c.c.), nonché la stessa dispensa dalla collazione (art. 737 c.c.)(35), nonché il problema dei diritti della personalità(36). Ancora, la legge sul diritto d’autore (artt. 24, comma 3; 93, comma 4; 96, comma 2), la legge sulla c.d. donazione di organi (L. 1° aprile 1999, n. 91, art. 4), e la legge sulla cremazione e dispersione delle ceneri (L. 30 marzo 2001, n. 130), prevedono che il soggetto possa regolare i propri interessi per dopo la morte anche con un atto che non ha natura testamentaria.
In questa direzione, se si escludono le disposizioni patrimoniali attributive e, dunque, le istituzioni di erede e dei legati, che risultano riservate al solo testamento(37), non v’ha dubbio che tutti gli altri interessi post mortem della persona, anche di carattere patrimoniale, possano essere regolati, oltre che con l’atto testamentario, anche mercé l’atto di ultima volontà.
È la stessa legge a chiarire che taluni interessi esistenziali post mortem della persona non reclamano un testamento, essendo sufficiente un atto di ultima volontà. Con intesa, che non si tratta di due categorie esattamente sovrapponibili e che tra l’uno e l’altro esiste uno iato importante sul piano formale.
L’atto di ultima volontà non è soggetto alle forme e alle formalità prescritte per il testamento, con la precisazione che ove pure, fosse prescritto un requisito di forma, o ove pure, in relazione alla funzione del singolo atto, si dovesse reputare che si tratti di atto formale, sarebbe, pur sempre, un requisito di forma meno rigoroso di quello proprio del testamento olografo.
Cosí, un testo a stampa, sottoscritto dal suo autore, mentre sarebbe un invalido testamento olografo e, dunque, un atto con il quale il soggetto non potrebbe validamente istituire un erede o un legatario, sarebbe un valido atto di ultima volontà, quando contenesse prescrizioni in merito al soggetto al quale competano le scelte sul diritto di pubblicare le opere inedite del defunto o sulla sorte di epistolari e carte di famiglia, e ancora, quando contenesse prescrizioni sulle modalità funerarie, sulla cremazione, sulla dispersione delle ceneri.
In questo senso, occorrerebbe riscoprire, accanto al testamento, anche l’atto di ultima volontà, inteso come atto unilaterale unipersonale sempre revocabile, dacché, come già aveva detto Giampiccolo, a esso ciascuno può affidare il c.d. contenuto atipico del testamento. Sicché rispetto a questo contenuto, non v’ha dubbio che il soggetto abbia la libertà di disporre sia con testamento, sia con atto di ultima volontà.
Il ripensamento dell’atto di ultima volontà e la consapevolezza che esso, in quanto atto espressione dell’autonomia privata, attraverso il quale si realizza la dignità della persona(38), è suscettibile, con il limite delle istituzioni di erede e dei legati, di tutti i contenuti che risultino leciti e meritevoli, potrebbero conferire nuove potenzialità al diritto successorio. Del resto il suo riconoscimento, anche a livello costituzionale, può cogliersi non soltanto negli artt. 2 e 41 Cost., quanto anche nell’art. 118, comma 4, Cost. Il quale nell’affermare che all’atto di autonomia privata è consentita, secondo il principio di sussidiarietà(39), l’attuazione d’interessi generali, conferma la sua idoneità a realizzare anche interessi individuali. Con intesa che proprio la capacità di realizzare interessi generali costituisce un’importante frontiera, la quale attende, ancóra, di essere pienamente esplorata.
Riconosciuta l’importanza dell’atto di ultima volontà, quale strumento di estrinsecazione del potere e della libertà di disporre, occorrerebbe assumere adeguata contezza della sua estensione e, anche in conformità al principio di economia delle dichiarazioni(40), avvertire che molti atti, spesso considerati clausole di contratti, o porzioni del contenuto di un contratto, sono, in verità, meri atti di ultima volontà, con tutte le conseguenze, in termini di efficacia e di revocabilità che ciò importa. Cosí, soltanto per trarre un esempio, dovrebbe dirsi per la dispensa dalla collazione(41), o per la dispensa dall’imputazione, le quali, ove pure fossero contenute nel contratto di donazione, o documentate in atto separato, pur costruito in termini di liberalità contrattuale, tra vivi, non dovrebbero reputarsi, salvo che dall’interpretazione dell’atto non debba trarsi una conclusione necessariamente opposta, atti aventi natura contrattuale e, più in generale atti tra vivi, bensí atti di ultima volontà. Non diversamente, potrebbe dirsi, nel caso di contratto a favore del terzo, le cui prestazioni debbono eseguirsi dopo la morte dello stipulante, a proposito della dichiarazione di nomina, della sua modifica e della sua revoca(42).
In questa prospettiva assume coerenza anche l’idea che il contratto e il negozio unilaterale tra vivi, ai quali ogni contenuto sembra doversi concedere, non possano (rectius: debbano) mai risolversi (costituendo, dunque, un limite assoluto alla loro capacità di regolamentazione) in una disposizione della delazione, ossia in attribuzioni patrimoniali inerenti la propria successione, o il proprio succedere, perché le prime restano affidate all’atto di ultima volontà e al testamento, e le seconde agli strumenti unilaterali dell’accettazione e della rinunzia all’eredità, senza che ciò possa importare inadeguatezza del nostro diritto delle successioni a causa di morte a realizzare una coerente e adeguata pianificazione successoria.
Se, davvero, esiste un ostacolo alla pianificazione ereditaria, esso non dipende dall’impossibilità di disporre contrattualmente della delazione inerente la propria successione o il proprio succedere, ma dall’eccesiva rigidità della disciplina di tutela dei legittimari, la quale andrebbe ripensata, almeno in termini di significativa riduzione delle quote di patrimonio di riserva, mercé una diminuzione di esse almeno della metà, nonché mercé la previsione di una diseredazione del legittimario connessa alla violazione dei doveri di solidarietà nei confronti del de cuius, rimessa a una valutazione del caso concreto e senza una tipizzazione in una fattispecie specifica e circoscritta, la quale sarebbe incapace di cogliere le esigenze e gli interessi che essa dovrebbe soddisfare.
Sotto un diverso profilo, occorrerebbe sapere cogliere con maggiore apertura le modificazioni legislative già realizzate nel diritto successorio, intendendo, anche al di là del testo linguistico delle medesime, spesso privo del rigore e della tecnicità, che caratterizza il nostro secondo libro del codice civile, gli interessi che sono in grado di soddisfare. E, in questo senso, penso, almeno, al patto di famiglia, alla disciplina sull’opposizione alla donazione e sull’azione di restituzione, al vincolo di destinazione per gli interessi meritevoli di tutela.

Superamento della distinzione tra disposizioni testamentarie tipiche e atipiche

Assunta consapevolezza che le disposizioni, di cui all’art. 587, comma 2, c.c., sono disposizioni testamentarie vere e proprie e che la loro ammissibilità non può essere subordinata ai soli casi espressamente previsti dalla legge, il concetto di contenuto tipico e atipico del testamento(43)ha finito con l’assumere un significato diverso da quello originario.
La maggior parte degli studi successivi, pur avendo contribuito a rendere questa espressione assolutamente ineliminabile nella definizione del testamento, ha ridimensionato e azzerato l’apporto culturale che tale distinzione avrebbe dovuto trascinare in termini di teoria dell’atto di ultima volontà. I concetti di contenuto tipico e atipico del testamento, i quali erano stati posti con la precisa finalità di spiegare, nel concreto, l’esigenza di offrire un contributo alla teoria dell’atto di ultima volontà, principiano a essere adoperati con significati che, a mano a mano, si distaccano dalla rigida distinzione tra disposizioni testamentarie aventi contenuto patrimoniale e no, e cominciano a essere assunti, quasi inconsapevolmente, con significati prossimi a quelli nei quali gli aggettivi “tipico” e “atipico” vengono ammessi in materia contrattuale(44).
Con il singolare risultato di considerare ammissibili disposizioni testamentarie c.d. atipiche nei limiti in cui le medesime risultano meritevoli di tutela(45)ex art. 1322 c.c., spingendo, addirittura, questo discorso fino alle disposizioni a titolo particolare(46).
Va, in primo luogo, sgomberato il campo dall’idea che si possa proficuamente discorrere di legati atipici, dacché la disposizione testamentaria a titolo particolare, indipendentemente dal suo contenuto e, dunque, dal suo effetto reale o obbligatorio e indipendentemente dalla circostanza che la vicenda di rapporto realizzata abbia, o no, una specifica disciplina, è, pur sempre, un modello di chiamata(47)espressamente regolato. Sicché discorrere di atipicità del legato, serve soltanto per dire che si tratta di legato il cui rapporto è privo di una disciplina particolare, ma che oltre a tal profilo descrittivo è incapace di apportare un utile risultato. I legati espressamente disciplinati non possono essere considerati tipi di legato, ma specie di legati, e, in logica conseguenza, i legati non aventi un contenuto specificatamente regolato dalla legge non sono legati atipici, ma legati privi di una disciplina del loro rapporto(48). In altri termini, la tipicità non è del contenuto del legato, ma del legato come modello di chiamata. Con la conseguenza che, approvatane l’ammissibilità, non si pone, indipendentemente dal suo contenuto e dal suo avere per oggetto, o per effetto la costituzione, modifica o estinzione di un qualsivoglia rapporto giuridico(49), un problema di ammissibilità di quella delazione. Non si pone, cioè, rispetto al legato non espressamente regolato l’esigenza di dover verificare l’ammissibilità di quella forma di chiamata, perché essa è stata, una volta e per tutte, reputata ammissibile dal legislatore nell’art. 588 c.c.
Svolta questa precisazione, è chiaro che ipotizzare che la distinzione tra diposizioni testamentarie tipiche e atipiche serva per assoggettare solo le ultime al controllo di meritevolezza è inaccettabile. Costituisce un’acquisizione consolidata, sulla quale non avrebbe senso, neppure, tornare, che ogni atto di autonomia privata debba essere sottoposto a un concreto controllo di conformità all’ordine pubblico costituzionale(50), ossia a un controllo di meritevolezza, il quale trova fondamento, non già e non soltanto nella norma di cui all’art. 1322, comma 2, c.c., bensí nel sistema ordinamentale nel suo complesso e, in particolare, nelle norme di cui agli artt. 2, 3, 41, 118, Cost.; con intesa che tale controllo riguarda la concreta funzione dell’atto(51).
Tale giudizio, che deve esprimersi alla luce dei princípi fondamentali dell’ordinamento, consente di verificare che l’esercizio dell’autonomia privata sia conforme alle norme del nostro sistema, garantendo che l’atto di autonomia privata risponda a una funzione giuridicamente e socialmente utile e sia, cioè, idoneo all’attuazione dei valori fondamentali(52).
Il controllo di c.d. meritevolezza, inteso come controllo di conformità all’ordine pubblico costituzionale italo-europeo riguarda, allora, qualunque atto di autonomia privata, indipendentemente dal suo essere riducibile al contratto tipico o atipico, all’atto tra vivi o all’atto di ultima volontà, a una disposizione testamentaria, avente un contenuto espressamente regolato o no.
Sotto un diverso profilo, ipotizzare che la distinzione tra disposizioni testamentarie tipiche e atipiche abbia una finalità disciplinare è conclusione che non può essere condivisa, dacché è noto che la disciplina non può dipendere dalla sola sussunzione del fatto entro una fattispecie, occorrendo, sempre, una valutazione attenta al singolo caso, che sappia individuare il suo ordinamento concreto, prescindendo da schematizzazioni che rischiano, soltanto, di offrire una disciplina inadeguata(53).
La distinzione tra disposizioni testamentarie tipiche e atipiche, dunque, di là della sua valenza descrittiva, non ha un valore pratico-applicativo(54)e, anzi, essa è alla base di quel pregiudizio che ha fortemente limitato le potenzialità del testamento come atto di disposizione e che ha tarpato le ali al tentativo di assegnare centralità all’atto di ultima volontà. Per questo meriterebbe di essere superata per dare, nuovo slancio al diritto successorio.
Disposizioni testamentarie aventi un contenuto c.d. tipico e un contenuto c.d. atipico, atti di ultima volontà e contratti regolativi di interessi post mortem, trovano unità nell’esigenza che gli uni, come gli altri, siano sottoposti al controllo di meritevolezza, volto ad accertare che l’atto di autonomia risponda a una funzione giuridicamente e socialmente utile.
Sulla base di queste premesse è indispensabile rileggere il diritto ereditario. Avendo mente, pur nel necessario bilanciamento dei princípi e mai trascurando le particolarità del singolo caso concreto, che il riconoscimento dell’autonomia privata ha un ruolo centrale e importantissimo, perché costituisce un valore fondante del nostro sistema.
Letture dell’autonomia testamentaria, ancóra oggi non infrequenti, nella giurisprudenza e nella letteratura, che, vogliano considerare l’interesse familiare, quale espressione del principio di solidarietà, sempre prevalente su tutti gli altri non possono piú essere condivise.
Nel metodo, perché il bilanciamento dei princípi deve essere sempre fatto rispetto al singolo caso concreto, senza possibilità di poter consentire, ammettere o giustificare, almeno rispetto a princípi fondamentali, graduazioni o valutazioni comparative idonee a valere a prescindere dagli interessi coinvolti nel singolo caso concreto.
Nel merito, perché mortificano, ingiustificatamente, l’autonomia testamentaria, senza coglierne le sue straordinarie potenzialità; soprattutto, perché non sono capaci di attuare la legalità costituzionale. La quale impone ben piú difficile operazione culturale e ben altro bilanciamento di princípi. Modernizzare il diritto successorio non significa dover abdicare a favore del contratto, ma scoprire, a mano a mano, nell’interpretazione di ciascuna norma del diritto successorio, il valore dell’autonomia privata e le potenzialità dell’atto di ultima volontà. E, cosí, può rileggersi la norma sul divieto dei patti successori(55), le norme sulla capacità e sull’indegnità a succedere, il problema della diseredazione del legittimario, i problemi sull’accettazione e la rinunzia, le norme sui diritti riservati al coniuge, le norme sul contenuto del testamento, le norme sui vizi della volontà e sugli elementi accidentali delle disposizioni testamentarie, le norme sull’azione di restituzione, le norme regolanti il contenuto di taluni legati.
Probabilmente il diritto ereditario, piú degli altri settori del diritto civile, è quello che ancóra attende i maggiori sforzi; ma quello che, da questo punto di vista, si presta a offrire risultati che decenni or sono erano inattesi.
Certamente è il settore del diritto nel quale l’ansia riformista del legislatore è meno effervescente; ma sul quale un’interpretazione assiologica e a fini applicativi, ancóra poco sperimentata, può lasciare molto ben sperare per consentire una ragionevole e adeguata pianificazione ereditaria.

Il caso di Facebook: il potere dell’utente di scegliere se il proprio account debba essere cancellato o reso commemorativo. La nomina del c.d. contatto erede

La rilevanza che l’atto di ultima volontà diverso dal testamento ha nel nostro ordinamento e quella che esso è, a mano a mano, destinato ad acquisire nel corso degli anni, si avverte se solo si consideri, da ultimo, la scelta compiuta dal piú importante social network mondiale.
Ora è poco che Facebook ha individuato nuove regole da valere per il tempo successivo alla morte, specificando in che modo esse possano essere, immediatamente e direttamente, compiute dal titolare di un account(56).
L’utente, in qualunque momento, può scegliere la sorte del proprio account(57), per il tempo successivo alla propria morte, stabilendo se esso e tutti i suoi contenuti debbano essere eliminati in modo permanente, ovvero se esso debba essere reso commemorativo, in modo da permettere ad amici e parenti di raccogliere e condividere i ricordi della persona tolta ai vivi(58).
In tale ultimo caso, accanto al nome della persona sul suo profilo sarà visualizzata l’espressione “in ricordo di”, i contenuti condivisi dalla persona (foto e post) continuano a essere in rete e sono visibili al pubblico con cui sono stati condivisi, mentre gli account non vengono piú visualizzati in spazi pubblici come i suggerimenti delle “persone che potresti conoscere”, “le inserzioni” o i “promemoria dei compleanni”.
Viene precisato, inoltre, che, in nessun caso, possono essere fornite, ai parenti le credenziali per l’accesso all’account di persona mancata ai vivi; che in presenza di una precisa volontà dell’utente volta alla eliminazione dell’account non è possibile che i parenti chiedano che quell’account venga reso commemorativo(59); che i parenti della persona mancata ai vivi, in assenza di una scelta immediatamente e direttamente compiuta dal soggetto, possono chiedere che l’account venga reso commemorativo, oppure che venga eliminato.
L’utente che abbia scelto di rendere il proprio account commemorativo ha anche la possibilità di nominare il c.d. “contatto erede”. Il quale è, cosí, definito: «un contatto erede è una persona che scegli per gestire il tuo account se viene reso commemorativo. Una volta reso commemorativo l’account, il contatto erede potrà eseguire attività come: - scrivere un post fissato in alto nel tuo profilo (ad es. per condividere un messaggio finale a nome tuo o fornire informazioni su un evento commemorativo); - rispondere alle nuove richieste di amicizia (ad es. vecchi amici o parenti che non erano ancóra iscritti a Facebook); - aggiornare l’immagine del profilo e di copertina»(60). All’utente, infine, è lasciata la possibilità di decidere se il contatto erede nominato possa, o no, scaricare una copia dei contenuti che l’utente aveva condiviso sul social. Il contatto erede non può, in ogni caso, rimuovere o modificare i contenuti già esistenti, leggere messaggi privati che l’utente abbia inviato a propri contatti, rimuovere gli amici. Infine, Facebook precisa che: «potremmo aggiungere altre funzioni per i contatti eredi in futuro»(61).
Non v’ha dubbio che la nomina di un contatto erede, cosí come la decisione di eliminare il proprio account o di renderlo commemorativo, successivamente alla propria morte, sono da considerare veri e propri atti di ultima volontà, per effetto dei quali il titolare sceglie, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, le sorti del proprio patrimonio digitale esistente su quella piattaforma. Con intesa che il patrimonio digitale esistente su Facebook reclama e impone un’attenta riflessione, dacché si tratta di uno strumento che identifica la persona e rispetto al quale l’orizzonte dei problemi che esso solleva non credo possa essere affrontato secondo la logica propria del modello proprietario, con la quale storicamente è intesa la categoria delle cose e dei beni, bensí secondo una prospettiva e una logica tipicamente personalistica.
La nomina del contatto erede ha, anche, il grande vantaggio che non consente al contatto erede nominato di conoscere le credenziali di accesso alla propria pagina, prima della morte. Dacché sarà lo stesso gestore del servizio che, alla notizia della morte del titolare dell’account, provvederà a fornire al contatto erede nuove credenziali di accesso, diverse da quelle originarie del titolare.
Ciò implica due straordinari vantaggi: le credenziali diventano note soltanto alla persona interessata dopo la sua morte; le credenziali, essendo diverse da quelle originarie, consentono al contatto erede di accedere a taluni contenuti soltanto, escludendo l’accesso ad altri.
Il primo è, senz’altro, un vantaggio particolarmente significativo che, allo stato non si sarebbe, altrimenti, potuto realizzare né con lo strumento del testamento, né con il mandato post mortem exequendum.
Ove la scelta fosse stata fatta per testamento, le credenziali di accesso sarebbero divenute note a tutti gli eredi, al notaio che lo pubblica e a chiunque abbia tiolo o interesse di conoscere il testamento.
Dunque, avrebbero avuto una diffusione molto piú ampia di quella che il titolare avrebbe voluto.
Per contro, se la scelta fosse avvenuta tramite contratto (ossia un contratto successorio non patrimoniale, valido in quanto non contrario al divieto di cui all’art. 458 c.c.(62)), il nominato avrebbe avuto immediata notizia delle credenziali di accesso e, dunque, notizia di quel dato in un tempo anteriore all’apertura della successione, con tutte le conseguenze sfavorevoli connesse a una tale situazione.
Non meno rilevante è anche il secondo vantaggio. Sia nel caso di nomina testamentaria, sia nel caso di nomina per contratto il possesso delle credenziali di accesso originarie, avrebbe consentito al nominato di accedere a tutte le informazioni contenute nella pagina dell’utente (i.e. anche alla corrispondenza privata intercorsa con propri amici), senza le opportune limitazioni che la nomina di un contatto erede, invece, prevede.
Viene, espressamente, chiarito che il contatto erede non può, in ogni caso, accedere all’account originario, «rimuovere o modificare post, foto e altri contenuti condivisi sul tuo diario; leggere i messaggi che hai inviato agli altri amici; rimuovere i tuoi amici»(63). Per contro, il contatto erede può «scrivere un post fissato in alto nel tuo profilo (ad es. per condividere un messaggio finale a nome tuo o fornire informazioni su un evento commemorativo); rispondere alle nuove richieste di amicizia (ad es. vecchi amici o parenti che non erano ancora iscritti a Facebook); aggiornare l’immagine del profilo e di copertina»(64). Resta invece, affidato alla scelta dell’utente se il contatto erede possa «scaricare» una copia dei contenuti che l’utente mancato ai vivi aveva condiviso su Facebook, restando aperta, come detto, la possibilità che il social possa in futuro implementare le funzioni del contatto erede.
La nomina o scelta del contatto erede, cosí come la scelta di eliminare il proprio account, può essere, in qualunque momento revocata o modificata, garantendo, dunque, il ripensamento (rectius: la revocabilità della disposizione) fino all’ultimo istante di vita.
Non pienamente condivisibile, invece, che il social abbia deciso che il compimento di questi atti possa essere fatta soltanto dall’utente che abbia compiuto il diciottesimo anno di età(65). Considerando la natura personale dell’atto, sarebbe stato auspicabile che tali atti fossero consentiti al soggetto naturalmente capace, indipendentemente dalla raggiunta maggiore età. Ma il tema, come è ovvio, ha una vocazione piú ampia e implica un discorso, piú generale, sulla capacità chiesta per il compimento dell’atto di ultima volontà, vieppiú quando questo abbia a oggetto la sistemazione di interessi non patrimoniali e, ancor di piú quei profili personali che si legano all’identità e all’identificazione del soggetto.
È da attendersi che la recente innovazione portata da Facebook, sarà sperimentata anche dagli altri social network, sicché la successione nel patrimonio digitale è, probabile e auspicabile, che nel giro di un lustro, possa essere integralmente regolata in modo analogo, ossia attraverso un atto di ultima volontà, non formale.

Il legato di remissione del debito e la disposizione testamentaria di rinunzia al credito

Considerazioni molto significative idonee a confermare le linee che mi sono proposto di tracciare, circa l’importanza dell’atto di ultima volontà diverso dal testamento, circa la non riducibilità delle disposizioni testamentarie patrimoniali nelle sole istituzioni di eredi, legati e disposizioni modali e, soprattutto, circa l’esigenza di superare la distinzione tra disposizioni testamentarie tipiche e atipiche, nella consapevolezza che la disciplina del caso concreto non può ricavarsi operando una mera sussunzione, bensí attraverso una valutazione attenta degli interessi concreti, bilanciando i princípi in concorso, si traggono intersecando la disciplina delle disposizioni testamentarie con quella dell’estinzione del rapporto obbligatorio.
La norma di cui all’art. 658 c.c., nella parte in cui disciplina il legato di liberazione da un debito, offre ampi spazi alla ipotesi remissoria; a un legato, cioè, il cui contenuto consiste nella dichiarazione di voler liberare il debitore e il cui effetto è l’immediata estinzione dell’obbligazione.
Le affinità del legato di liberazione dal debito con la remissione sono evidenti, ma non sempre condivise, al punto che mentre secondo la dottrina maggioritaria si tratta di figure omologhe, che reclamano, dunque, una disciplina comune(66), secondo altra parte della dottrina sarebbero differenti per la necessaria natura liberale della seconda e l’eventuale natura liberale del primo(67).
In tema credo che l’una e l’altra prospettiva non siano pienamente condivisibili e scontino il rischio che in conformità a una valutazione puramente astratta delle strutture, che non abbia riguardo alla funzione(68)concretamente svolta dagli atti e che non consideri il rapporto giuridico nella sua complessità, privilegiandone il profilo della cooperazione, piuttosto che quello della contrapposizione, conduca a risultati non sempre attendibili. Sebbene la remissione del debito sia considerata dalla maggioranza della dottrina un negozio unilaterale, non può trascurarsi che si possono dare numerosi casi, nei quali, in relazione all’interesse del debitore, la struttura unilaterale non potrebbe reputarsi sufficiente, sicché dovrebbe assumersene la sua struttura bilaterale. E anzi, secondo una prospettiva il rapporto sarebbe addirittura ribaltato, perché la remissione dovrebbe, tendenzialmente, reputarsi un contratto, regredendo ad atto unilaterale nel solo caso in cui, nel singolo rapporto, il debitore non abbia interessi meritevoli al mantenimento in vita del rapporto obbligatorio e quest’ultimo sta in essere in ragione dell’esclusivo interesse del creditore. Del resto, che la remissione del debito sia un atto sempre liberale è, certamente, revocabile in dubbio, dacché l’unico carattere essenziale alla remissione è soltanto quello della gratuità, sicché sotto questo profilo non è detto che il negozio di remissione e la disposizione testamentaria siano, tra loro incompatibili. Anzi sarebbero perfettamente omogenei, perché entrambi sarebbero pur sempre atti gratuiti, talvolta anche liberali.
A muovere da queste considerazioni, appare ovvio, allora, che la norma di cui all’art. 658 c.c., nella parte in cui regola il c.d. legato di liberazione del debito, disciplina un’ipotesi, funzionalmente, corrispondente alla disciplina della remissione del debito, confermando, ancóra una volta, che non è possibile individuare la struttura di un atto prescindendo dalla sua funzione e dalla valutazione del concreto rapporto interessato dalla vicenda e che una vicenda di rapporto giuridico che, nella circolazione inter vivos, può, tendenzialmente, reclamare una struttura bilaterale, può essere realizzata anche con un atto di ultima volontà e, dunque, con un atto essenzialmente unilaterale.
Non credo, dunque, si possa revocare in dubbio che il legato di liberazione del debito, di cui all’art. 658 c.c., realizzi una vicenda omologa alla remissione del debito e che, non soltanto alla citata disposizione normativa, bensí anche alle norme sulla remissione del debito e, piú in generale alla disciplina sull’obbligazione, è indispensabile far riferimento, per individuare l’ordinamento del singolo caso(69).
Il legato di liberazione del debito può, in concreto, essere reso con le formule più variegate: il testatore potrebbe ordinare all’erede di non esigere il credito, o dichiarare che il debitore sia liberato, o, ancóra, dichiarare che il debito sia già stato pagato. In tale ultimo caso, un’attenta dottrina avverte della possibilità che la disposizione valga come quietanza e non già come legato di liberazione dal debito(70). Sebbene secondo la dottrina maggioritaria il testatore possa, indifferentemente, usare le espressioni rinunziare al credito oppure liberare il debitore, e sebbene non vi abbia dubbio che, indipendentemente dalle espressioni utilizzate, occorre, sempre, interpretare la concreta disposizione testamentaria, allo scopo di verificare quale sia stata l’intenzione del testatore, non v’ha dubbio che l’ipotesi della disposizione testamentaria di liberazione dal debito debba, comunque, essere distinta da quella di rinunzia al credito. Perché si tratta d’ipotesi, come ha insegnato la migliore dottrina(71), non soltanto strutturalmente, ma anche funzionalmente molto diverse, tra loro(72).
La remissione del debito produce come effetto, immediato e diretto, l’estinzione del rapporto obbligatorio, e, dunque, un effetto che incide sia sulla sfera giuridica del creditore sia del debitore, ragione per la quale, nella circolazione inter vivos, la struttura deve considerarsi, tendenzialmente, contrattuale. Viceversa, la rinunzia al credito incide esclusivamente sulla sfera giuridica del rinunziante e importa la sola dismissione del diritto di credito, pur potendosi dare dei casi nei quali, per effetto della dismissione del credito, si possa dare, quale conseguenza mediata e indiretta, anche l’estinzione dell’obbligazione. L’unità minima effettuale dei due atti è molto diversa: nella prima è l’estinzione del rapporto obbligatorio; nella seconda la mera dismissione del diritto di credito.
Peraltro, non è neppure vero che remissione del debito e rinunzia al credito possano, sempre, potenzialmente coesistere, sicché appartenga alla sola decisione del creditore se compiere l’una o l’altra, dacché si possono dare casi in cui un soggetto può sia rinunziare al credito, sia rimettere il debito, ma anche casi nei quali un credito è soltanto rinunziabile, ma non remissibile, casi in un cui un debito è rimettibile, ma non rinunziabile e casi nei quali un credito non è né rinunziabile, né remissibile. Ovviamente, nell’ipotesi in cui rispetto a un rapporto obbligatorio sia consentito al titolare del credito sia di rinunziare, sia di rimettere il debito, compete all’interprete stabilire, in relazione al singolo caso concreto, agli interessi perseguiti dal soggetto e al regolamento offerto, se ricorra l’una o l’altra ipotesi.
Nel caso in cui il testatore fosse concreditore solidale, ben potrebbe con una propria disposizione testamentaria sia fare un legato di liberazione dal debito, ossia un legato con il quale intende liberare, pro quota, il proprio debitore dall’obbligo, con la conseguenza che l’altro concreditore potrebbe pretendere dal debitore soltanto l’adempimento della quota dell’obbligazione di sua competenza, sia fare una disposizione testamentaria di rinunzia al credito, che abbia come unico effetto la dismissione del diritto e non l’estinzione del rapporto obbligatorio, con la conseguenza che l’obbligazione non si estinguerebbe e che l’altro condebitore potrebbe chiedere al debitore l’adempimento dell’intero. Ovviamente stabilire se, in un caso come questo, il testatore abbia concretamente voluto fare un vero e proprio legato di liberazione di debito, oppure una disposizione testamentaria di rinunzia al credito, è compito dell’interprete, avendo riguardo non tanto alle espressioni adoperate, ma all’assetto d’interessi, al concreto rapporto e al regolamento dettato dal testatore. Con l’avvertenza che l’una e l’altra disposizione sarebbero affatto diverse. Perché mentre il c.d. legato di remissione del debito deve considerarsi un legato vero e proprio, sicché è necessario che il legatario abbia la possibilità di rifiutarlo, dacché lo strumento del rifiuto diventa il mezzo tecnico con il quale il debitore conserva un potere di reazione, nell’ipotesi in cui abbia interesse a che l’obbligazione non si estingua, diversamente la disposizione testamentaria di rinunzia al credito non dovrebbe reputarsi suscettibile di rifiuto da parte del beneficiario. Non perché si tratti di un legato che sfugge alla disciplina sua propria, ma perché, tecnicamente, dovrebbe escludersi che detta disposizione metta capo a un vero e proprio legato.
Considerando che per stabilire chi sia onorato del legato deve aversi esclusivo riguardo al rapporto generato immediatamente e direttamente dal legato e non anche, a coloro che conseguano vantaggi condicionis implendae causa capiens(73), in tale disposizione testamentaria difetterebbe il beneficiario. Il debitore non conseguirebbe, infatti, un reale vantaggio, dal momento che la dismissione del credito da parte del concreditore in solido non lo libera dalla sua obbligazione, ma soltanto gli impedisce di adempire per l’intero all’indirizzo di quel concreditore solidale. Neppure è possibile dire che il beneficiario sia l’altro creditore solidale, dal momento che il vantaggio che consegue quest’ultimo non è una conseguenza immediata e diretta della disposizione testamentaria, che ha il solo effetto di dismettere il diritto di credito, bensí un effetto mediato e riflesso della stessa.
A ben ragionare, pertanto, mentre la disposizione testamentaria di liberazione del debito è, certamente, riducibile alla categoria del legato, con la conseguenza che deve trovare applicazione quella disciplina, la disposizione testamentaria di rinunzia al credito, non potrebbe tecnicamente considerarsi un legato, bensí una mera disposizione testamentaria regolativa di un interesse post mortem del de cuius, non riducibile, né entro lo schema dell’istituzione di erede, né entro quello del legato. Dimostrando, ulteriormente, che le disposizioni testamentarie non necessariamente debbono essere ridotte entro l’una o l’altra categoria e che si possono, senz’altro, dare disposizioni testamentarie, pur regolative di interessi, anche patrimoniali, del de cuius e nondimeno non riducibili entro quella bipartizione segnata dall’art. 588 c.c. Sotto questo profilo, quindi, la disposizione testamentaria di rinunzia al credito merita di essere considerata una disposizione di straordinario interesse, dal momento che essa non soltanto consente di confermare la necessità che l’individuazione dell’ordinamento del caso concreto muova da una valutazione complessiva del sistema ordinamentale, senza possibilità di parcellizzare in settori, deducendone la loro incomunicabilità, o non interferenza, ma, soprattutto, dimostra quanto sia inadeguata l’idea che volesse distinguere tra disposizioni testamentarie tipiche e atipiche e, vieppiú, l’idea che il contenuto tipico del testamento si debba, di necessità, esprimere attraverso le forme dell’istituzione di erede oppure di legatario.


(1) Lo scritto, con l’aggiunta delle note bibliografiche essenziali, riproduce la relazione detta il 18 marzo 2016 al Convegno su «L’evoluzione del sistema successorio tra autonomia del testatore e tutele dei legittimari» organizzato dalla Fondazione italiana del Notariato. Rappresenta una prima e sintetica elaborazione di una ricerca piú ampia che sto conducendo su contenuto del testamento e atto di ultima volontà.

(2) Sul punto, si veda la ricostruzione proposta da N. DI MAURO, Le disposizioni testamentarie modificative ed estintive del rapporto obbligatorio, Milano, 2005, p. 28-47.

(3) A. BRUNETTI, «Il diritto di testare secondo la teoria integrale del diritto privato», in Giur. it., 1924, IV, c. 162 e ss., secondo il quale lo ius testandi «costituisce quella condizione, la quale, allorché si verifica l’evento della morte, fa sorgere nello Stato il dovere di distribuire in un determinato modo i beni che furono già di proprietà del disponente». In altri termini, il diritto di testare non è diritto di trasmettere i beni, bensí diritto di compiere un atto (il testamento), il quale fa sorgere nello Stato il dovere di distribuire i beni che furono del disponente in conformità alle sue volontà. Tale spiegazione del fondamento filosofico-razionale non convinse, tuttavia, A. BUTERA, Il codice civile italiano commentato secondo l’ordine degli articoli. Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, Torino, 1940, p. 225, secondo il quale si tratta di una mera «fraseologia descrittiva» della successione testamentaria.

(4) V. POLACCO, Delle successioni, vol. I, Lezioni tenute nella R. Università di Roma negli anni accademici 1922-1923, 1923- 1924, Roma, 1928, p. 137e ss.

(5) Secondo la teoria teologica, la quale faceva capo a Leibnitz, si replicava affermando che la volontà non cessa di essere con la morte del soggetto, perché l’uomo esiste spiritualmente; secondo la teoria contrattualistica, la quale faceva capo a Grozio e aveva ottenuto il consenso di Kant, si diceva che anche nel testamento si può rintracciare un accordo tra il testatore che dispone e il successore che accetta. Per un’attenta e ampia esposizione, si veda F. FILOMUSI GUELFI, Successione (diritto di successione) Introduzione, in Dig. it., XII, parte III, Torino, 1889-1897, p. 1 e ss. La tesi contrattuale, com’è noto, è stata sostenuta anche da E. CIMBALI, Il testamento è contratto?, in Filangieri, 1884, I, p. 265 e ss.

(6) Altro e diverso era il problema sulla natura e funzione del testamento. È nota la tesi di R. NICOLÒ, La vocazione ereditaria diretta e indiretta, Messina, 1934, p. 16 e ss., secondo cui il testamento era, soltanto, il presupposto di fatto di un’attribuzione che aveva fonte esclusivamente legale. In senso contrario, D. RUBINO, La fattispecie e gli effetti giuridici preliminari, Milano, 1939, p. 73 ss.; M. ANDREOLI, «La vocazione ereditaria», in Studi senesi, 54 (1940) , p. 197 e ss. e 256 e ss.; F. SANTORO-PASSARELLI, «Vocazione legale e vocazione testamentaria», in Riv. dir. civ., 1942, p. 196 e ss.

(7) Il testamento aveva, comunque assunto un significato molto diverso da quello che tale atto aveva nel diritto romano, nel quale serviva all’istituzione di erede, intesa come designazione della persona chiamata a subentrare al posto del defunto, per continuarne l’attività giuridica.

(8) Non è un caso che V. POLACCO, op. cit., p. 193 e ss., nella sezione III intitolata “Contenuto del testamento”, apra con un paragrafo dedicato alla “testimentificazione passiva”, introducendo il tema con queste parole: «in favore di chi si può disporre? In altri termini: chi è capace di ricevere per testamento?» e che l’A., a p. 138 e ss., apprezzi la definizione offerta dal codice civile perché essa, diversamente da quella proposta nelle fonti romane da Modestino, pone in rilievo «che l’atto deve contenere disposizioni patrimoniali».

(9) La sentenza è citata da A. CICU, Il testamento, 2ª ed., Milano, 1951, p. 9.

(10) Contra, A. CICU, Le successioni. Parte generale - Successione legittima e dei legittimari - Testamento, Milano, 1947, p. 283; ID., Il testamento, cit., p. 6 e ss.

(11) Vale la pena di precisare che nonostante queste affermazioni, svolte in occasione della presentazione del progetto preliminare, L. BARASSI, Le successioni per causa di morte, 1a ed., Milano, 1941, p. 254 e ss., precisa, nel suo volume che il testamento può contenere istituzioni di erede, legati e «può, con o senza disposizioni patrimoniali, contenere altre disposizioni di vario genere».

(12) Cosí si legge nella Relazione sui lavori della Commissione Parlamentare, n. 2.

(13) Cosí si legge nella Relazione ministeriale a S. M. il Re Imperatore, n. 61: «ad ampia discussione ha dato luogo in seno alla Commissione delle Assemblee legislative la definizione del testamento, contenuta nell’art. 130 del progetto definitivo. La Commissione è stata concorde nel ritenere che nel testamento possano essere contenute disposizioni di carattere giuridico non aventi natura patrimoniale e che esse possano avere efficacia anche in mancanza di quelle a contenuto patrimoniale. Senonché la formula del progetto ministeriale non è stata ritenuta soddisfacente, sia perché le disposizioni non patrimoniali, considerate distintamente dalle patrimoniali, assumerebbero rispetto a queste ultime una posizione sussidiaria e sia perché sussisterebbe una certa contraddizione tra la prima parte del testo, in cui si pone come carattere essenziale del testamento il suo contenuto patrimoniale, e la seconda parte, che ammette, la figura del testamento anche se manca il contenuto patrimoniale. L’attento riesame della questione mi ha indotto a conservare il criterio del progetto definitivo. Non mi è sembrato conveniente porre sullo stesso piano le disposizioni patrimoniali e quelle non patrimoniali. Il testamento nella sua nozione tradizionale e nella sua funzione pratica è l’atto con cui si provvede alla destinazione dei beni post mortem. Esso può contenere disposizioni non patrimoniali, ma ciò indubbiamente costituisce una mera accidentalità, a prescindere dal fatto che sono poche le dichiarazioni di volontà non patrimoniali che la legge consente siano contenute nel testamento. La diversa importanza delle due specie di disposizioni non è priva di conseguenze giuridiche, poiché diverso è il regime a cui sono sottoposte le disposizioni patrimoniali rispetto a quelle non patrimoniali. Per le prime si applica tutta la disciplina del testamento e dal lato formale e dal lato sostanziale; per le seconde, invece, si esige bensì la forma testamentaria, ma in quanto alla loro intrinseca validità ed efficacia devono osservarsi le norme sostanziali proprie dei singoli negozi, le quali possono divergere da quelle dettate dalla legge, per disciplinare il contenuto patrimoniale del testamento. Ora, una parificazione delle due specie di disposizioni oscurerebbe questa diversità di regime giuridico, che occorre invece mettere in evidenza. Né d’altra parte mi è sembrata di grave peso la critica di contraddittorietà mossa al testo ministeriale. La regola del secondo comma non annulla quella del primo, ma costituisce della stessa solo una attenuazione, giustificata dalla esigenza pratica di riconoscere giuridica efficacia a talune disposizioni non patrimoniali, rivestite della forma testamentaria, anche se l’atto manchi di contenuto patrimoniale. Ho avuto cura, ad ogni modo, di far risultare più chiaramente dalla formula del secondo comma dell’art. 133 che hanno efficacia soltanto quei negozi che la legge consente di compiere nella forma testamentaria. In tal modo, il campo d’applicazione della norma resta nettamente delimitato».

(14) W. D’AVANZO, Delle successioni, t. II, Parte speciale, Firenze, 1941, p. 923 e ss.

(15) W. D’AVANZO, op. ult. cit., p. 924 e ss.

(16) W. D’AVANZO, op. ult. cit., p. 925, «né può riconoscersi decisiva rilevanza alla spiegazione che della norma, che giustamente può dirsi contraddittoria, ha ritenuto di dare al Guardasigilli nella sua relazione al re Imperatore; dire che il 1° e il 2° comma dell’art. 133 si conciliano perfettamente poiché questo non annulla quello, ma costituisce dello stesso solo un’attenuazione, giustificata dall’esigenza pratica di riconoscere giuridica efficacia a talune disposizioni non patrimoniali, rivestite della forma testamentaria, anche se l’atto manchi di contenuto patrimoniale, significa non aver considerato che con il cpv. in esame, si è inteso risolvere positivamente la questione se poteva qualificarsi testamento l’atto che avesse racchiuso solo dichiarazioni di contenuto non patrimoniale, tuttoché rilevanti per l’ordinamento giuridico; questa è la sostanza delle cose di fronte alla quale si attenua di efficacia l’osservazione del Guardasigilli».

(17) In questo senso, A. BUTERA, op. cit., p. 222 e ss., «il secondo comma dell’art. 133 rende manifesto che le disposizioni non patrimoniali sono indipendenti da quelle patrimoniali e però non confluiscono sulla validità del testamento. Il testamento rimane valido anche quando manchi la disposizione dei beni».

(18) In questo senso, le intense pagine di A. CICU, Le successioni, cit., p. 280 e ss., nelle quali l’A chiarisce che il problema del fondamento filosofico-razionale del diritto di testare - che, in verità, è un problema di fondamento politico - è tema di cui l’ordinamento si deve occupare. Il diritto di testare, da intendere come diritto di disporre dei propri beni per dopo la propria morte, al pari del potere di disporre dei propri beni in vita, è un potere inerente al diritto di proprietà. Quanto invece al fondamento tecnico della successione, ossia sul tema del quale sia la fonte degli effetti giuridici della successione, di là della disputa tra quanti ritengono che essa sia nel testamento e quanti nella volontà dello Stato, fungendo il testamento da mera condizione, l’A. precisa, con viva modernità, che il problema debba essere spiegato in relazione alla diversa efficacia degli atti tra vivi e degli atti di ultima volontà. Nei primi l’effetto si produce, ancorché il medesimo possa essere differito a un tempo successivo alla morte di uno dei suoi autori, in quanto il negozio ha, immediatamente, creato un rapporto giuridico, che persiste quando l’effetto si realizza. Viceversa, quando il testamento è perfezionato, non produce alcun effetto, sicché si pone il problema di spiegare come si possa verificare l’effetto dopo la morte del testatore, ossia come si possa costituire un rapporto giuridico. Secondo C. GANGI, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. I, 2a ed., Milano, 1952, p. 17, il quale non si pone il problema dell’inidoneità dell’atto di ultima volontà a costituire un rapporto giuridico prima della morte del suo autore, è sufficiente che l’autore dell’atto sia vivente al tempo del suo perfezionamento: «non vi è quindi nulla di eccezionale nel fatto che la volontà testamentaria produce i suoi effetti dopo la morte del testatore, posto che questa volontà sia stata validamente manifestata prima della morte». Diversamente, secondo A. CICU, op. loc. ult. cit., il problema si risolve, sol se si abbondoni l’idea che il rapporto giuridico si debba costituire tra due persone. «Nella successione testamentaria l’effetto è dovuto ai due distinti negozi unilaterali, testamento e accettazione, senza che si costituisca un rapporto tra testatore e chiamato. La singolarità della successione testamentaria è nel fatto che essa, a differenza della rinunzia, attua un trasferimento. Il mezzo tecnico per operarla è dato dalla delazione: per essa al momento della morte il bene è posto a disposizione del chiamato; con l’effetto retroattivo dell’accettazione al momento della morte la legge ricollega l’acquisto allo istante stesso in cui cessa la titolarità del precedente soggetto. Tutto ciò non è di ostacolo ad ammettere che il trasferimento si operi per volontà del testatore». L’idea è testualmente ripresa nel lavoro successivo sul testamento, A. CICU, Il testamento, cit., p. 2 e ss.

(19) In questo senso, F.S. AZZARITI, G. MARTINEZ, GIU. AZZARITI, Successioni per causa di morte e donazione, 6a ed., Padova, 1973, p. 399 e ss., (ma nello stesso senso, anche nella 5a ed.) i quali considerano, addirittura un «assurdo» ipotizzare che le disposizioni di contenuto non patrimoniale possano essere contenute nel testamento quando la legge, espressamente, non preveda questa possibilità. Gli autori, anzi, insistono nel rilevare che detta regola vale sia nel caso in cui il testamento abbia anche un contenuto patrimoniale, sia nel caso in cui esso difetti. «Laddove, invece, si tratti di negozi non patrimoniali che la legge, nel dettarne la disciplina, non stabilisca potersi compiere nella forma testamentaria, esse non acquistano mai efficacia giuridica, tanto se nel testamento che le contenga non vi siano disposizioni patrimoniali (ipotesi del capoverso), tanto se il testamento abbia invece contenuto patrimoniale. Il principio, adunque, è unico, e la menzione della validità delle disposizioni non patrimoniali fatta soltanto nel cpv. dell’art. 587 mira unicamente a risolvere la dibattuta questione sull’efficacia giuridica di simili disposizioni anche quando il testamento non contenga alcuna disposizione di beni, e non significa già che esse siano in ogni caso giuridicamente efficaci quando il testamento abbia un contenuto economico, anche se la legge non conte di compierle nella forma testamentaria». La tesi si legge, con le medesime parole, anche in GIU. AZZARITI, Successioni (diritto civile): Successione testamentaria, in Noviss. Dig. it., XVIII, Torino, 1971, p. 821 e ss.

(20) C. GANGI, op. cit., p. 30 e ss., «si deve ritenere che anche queste disposizioni [quelle non patrimoniali, non specificamente previste dalla legge] hanno efficacia, se contenute in un atto che la forma di testamento, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale, ossia che anche esse possono formare l’unico contenuto del testamento inteso questo in senso formale … le disposizioni anzidette infatti possono certamente essere fatte, quantunque ciò non risulti da espresse disposizioni di legge, oltre che con un mandato ad una o piú determinate persone da eseguirsi naturalmente dopo la morte del mandante …, anche, come piú il piú spesso accade, mediante testamento».

(21) Cosí, A. CICU, Le successioni, cit., p. 285; C. GANGI, op. cit., p. 34.

(22) A. CICU, Le successioni, cit., p. 285; ID., Il testamento, 2ª ed., cit., p. 8 e ss., «ma vi sono disposizioni di carattere non patrimoniale di cui la legge non si occupa, non dice quindi che possano essere contenute in un testamento: ad es. la volontà con cui si dispone dei propri funerali, della sepoltura, della cremazione ecc. La Relazione al Re evidentemente non le ha avute presenti, poiché altrimenti non avrebbe potuto dire che non rientrano nella nozione tradizionale e funzione pratica del testamento … Ci par certo che a questa conseguenza non pervenire il legislatore: e che l’art. 587 nei suoi due commi debba esser cosí interpretato: il testamento è normalmente atto di disposizione dei beni; ma le forme prescritte per esso vanno osservate anche se si manifesta una ultima volontà di carattere non patrimoniale Era superfluo aggiungere … che la disposizione dovesse esser “di carattere giuridico” dato che il diritto non può occuparsi che di materia giuridica».

(23) La questione porta a conseguenze quasi paradossali in quegli autori per i quali non si possano dare nel testamento disposizioni non patrimoniali oltre i casi ammessi dalla legge. F. S. AZZARITI, G. MARTINEZ, GIU. AZZARITI, Successioni, cit., p. 410 e GIU. AZZARITI, Successioni (diritto civile), cit., p. 822, portando a compimento la tesi che, si trovano ad affermare che le disposizioni che il testatore faccia sul proprio cadavere sono prive di effetti giuridici e creano mere obbligazioni naturali, «ove non si concretino in un modus». Gli autori, tuttavia non negano che questa soluzione che, nella loro prospettiva è l’unica rispettosa dell’art. 587 c.c., importa conseguenze difficilmente accettabili. «Se alcuno degli eredi, pur essendo largamente beneficiato, non intenda eseguire una disposizione di tal genere [una disposizione sulla sepoltura che non abbia la forma del modus] contenuta nel testamento, gli altri eredi non hanno azione contro di lui per costringerlo a concorrere alla relativa spesa. Questa, ci sembra sia l’unica soluzione che sulla base dell’art. 587 può adottarsi in una ipotesi somigliante: essa però conduce a risultati manifestamente immorali». Si avverte, dunque, il disagio culturale degli studiosi, il quale avrebbe dovuto, a mio credere, sollecitare un’interpretazione estensiva o l’adesione a un’interpretazione estensiva, già ampiamente e fortemente sostenuta da altri autori. Il caso dimostra, inequivocabilmente, che una valutazione giuridica che non tenga conto degli interessi e che rimane legata al mero dato letterale della disposizione, attraverso un metodo formalistico, conduce a risultati irragionevoli e incoerenti. Deve, dunque, sollecitare la riflessione sulla responsabilità del giurista.

(24) A. CICU, Le successioni, cit., p. 287; ID., Il testamento, 2ª ed., cit., p. 12, secondo cui questa soluzione non si sarebbe neppure potuta argomentare dall’art. 629 c.c., non soltanto perché essa richiama l’art. 648 c.c., ma soprattutto perché quella norma, come pure quella per i lasciti a favore dei poveri tutelano un interesse sociale.

(25) Il riferimento è al noto caso nel quale si doveva decidere sulla validità del testamento di una famosa chiromante, avente il seguente tenore: «voglio che alla mia morte tutti i miei beni siano venduti ed il ricavo destinato alla erezione di un monumento al Verano che mi tramandi alla posterità».

(26) C. GIANNATTASIO, Delle successioni. Successioni testamentarie (art. 587-712), in Comm. del cod. civ., a cura di magistrati e docenti, Torino, s.d., ma 1968, p. 5.

(27) Cosí, A. CICU, Le successioni, cit., p. 286, «la legge conosce un concetto ampio e uno ristretto di testamento. Nel concetto ristretto è testamento quello che è definito nel primo comma dell’art. 587. Nel concetto piú ampio è testamento ogni atto di ultima volontà, abbia o no ripercussione sui beni». Inoltre Cicu, afferma che non avrebbe senso parlare di testamento in senso formale e in senso sostanziale, come pure sembra adombrato dalla Relazione al codice, in quanto testamento vuol dire atto di ultima volontà ed è, quindi, questa sostanziale volontà che lo distingue da tutti gli altri atti. Nel successivo volume sul testamento, Cicu, anche in considerazione della contestazione che Gangi aveva mosso alla sua idea, contesta, a sua volta la proposta formulata dall’ultimo. A. CICU, Il testamento, cit., p. 10, «a questa distinzione altri ha contrapposto quella di testamento in senso sostanziale e testamento in senso formale: quest’ultimo avrebbe soltanto la forma del testamento, non la sostanza; e riguarderebbe quelle sole disposizioni “che la legge consente siano contenute nel testamento”. … A noi pare che parlare di testamento in senso puramente formale non abbia senso: testamento vuol dire atto di ultima volontà; ed è quindi questa sostanziale volontà che lo distingue da ogni altro atto».

(28) Cosí, C. GANGI, op. cit., p. 31, il quale contesta la stessa idea di Cicu, affermando che il codice fa proprio il concetto tradizionale di testamento, ossia come atto di disposizione dei beni. «L’atto che ha la forma di un testamento quindi può essere o un testamento in senso materiale o sostanziale, ed esso è tale quando contiene disposizioni di beni, o esclusivamente o insieme con altre disposizioni di natura non patrimoniale, le quali prese a sé, isolatamente, non costituirebbero un testamento; ovvero un testamento in senso puramente formale, ed esso è tale quando non contiene disposizioni di beni ma soltanto disposizioni di altra natura, che la legge consente di fare anche nella forma del testamento».

(29) Cosí, M. ALLARA, La revocazione delle disposizioni testamentarie, Torino, 1950-1951, p. 207 e ss., «ci sia consentito di rilevare la scarsa tecnicità dei concetti e la superficialità dei compilatori del nuovo codice. Non è vero, in primo luogo, che il nuovo codice abbia introdotto una nuova concezione del testamento. La parola “testamento” ha, in primo luogo, il preciso significato che risulta dal primo comma dell’art. 587 c.c. …; in secondo luogo e come è noto, la parola “testamento” viene riferita al documento testamentario. In altre parole il termine “testamento” va inteso in senso negoziale ed in senso documentale e ciò si verifica sia nei riguardi del codice abrogato sia nei riguardi del codice nuovo; il secondo comma dell’art. 587 del nuovo codice non ci dà una seconda concezione di testamento, come negozio che contiene delle disposizioni di carattere non patrimoniale; il capoverso dell’art. 587 c.c. non sancisce affatto che l’atto contenete disposizioni non patrimoniali assume la qualifica di testamento, ma si limita a stabilire una semplice uguaglianza di forme tra atti sostanzialmente diversi”. Successivamente, nel lavoro del 1957, l’A. porta a compimento questa ricostruzione. M. ALLARA, Principi di diritto testamentario, Torino, 1957, p. 27 e ss. e 102 e ss., precisa che il testamento è «un negozio patrimoniale a causa di morte», definizione nella quale il carattere della negozialità costituisce la nota generica, mentre i caratteri della efficacia post mortem e della patrimonialità le note specifiche. In conseguenza deve assumersi che le disposizioni di cui al capoverso dell’art. 587 c.c. non sono disposizioni testamentarie vere e proprie, anche se il legislatore ha stabilito per la loro validità un formalismo uguale a quello prescritto per il testamento. Secondo questa chiave di lettura, l’art. 587, comma 2, c.c. non ha importato un allargamento del concetto di testamento, bensí un allargamento del concetto di negozio a causa di morte. Entro questa categoria si comprendono «le due sottocategorie del negozio a causa di morte patrimoniale e del negozio a causa di morte non patrimoniale».

(30) P. PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, 3a ed., Napoli, 2006, p. 369 e ss., 604, 618 e ss., 613, 855. Nell’introduzione, a p. XI, si legge: che l’interpretazione «a fini applicativi consente di presentare, nonostante la pluralità delle fonti e dei poteri normativi, l’ordinamento giuridico come unitario anche se complesso, quale risultato dell’insieme delle applicazioni; in un approccio sistematico vòlto a valutare l’impatto del fatto singolo nel sistema degli interessi e dei valori giuridicamente rilevanti, sapendo cogliere tra essi quelli prevalenti e sapendo realizzare gli opportuni bilanciamenti alla luce del principio di ragionevolezza insito nel sistema».

(31) G. GIAMPICCOLO, Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell’atto di ultima volontà, Milano, 1954, p. 37 e ss.; ID., Atto «mortis causa», in Enc. dir., IV, Milano, 1959, p. 232 e ss.

(32) L’idea che le disposizioni di contenuto non patrimoniale contenute nel testamento non fossero da considerare disposizioni aventi natura testamentaria aveva indotto la dottrina a distinguere tra testamento in senso stretto e in senso ampio (A. CICU, Le successioni, cit., p. 286), oppure tra testamento in senso sostanziale e in senso formale (C. GANGI, op. cit., p. 31), oppure testamento in senso negoziale o in senso documentale (M. ALLARA, La revocazione delle disposizioni testamentarie, cit., p. 207 e ss.; ID., Principi di diritto testamentario, cit., p. 27 e ss. e 102 e ss.).

(33) Cfr., almeno, G. BONILINI, Autonomia testamentaria e legato. I legati così detti atipici, Milano, 1990, p. 11 e ss., 48 e ss.; ID., Testamento, in Dig. IV, sez. civ., XVII, Torino, 1999, p. 338 e ss.

(34) G. GIAMPICCOLO, Il contenuto …, cit., p. 326 e ss., «le dichiarazioni di diverso contenuto [dalla istituzione di erede o di legatario] che in forma testamentaria possono compiersi, ne sussista o non l’unità formale con eventuali disposizioni di beni, non costituiscono testamento. Quando non si tratta di atti non negoziali, a cui risulta già incompatibile la nozione stessa di atto di ultima volontà (anche se compatibile sia, a qualche specie, quella di (mero) atto mortis causa) si tratta di negozi che o non sono a causa di morte ovvero sono al piú negozi di ultima volontà a sé stanti, che rispondono alle regole generali della categoria a cui appartengono (atto di ultima volontà), ma non a quelle piú particolari del testamento. E se pure a tutte queste dichiarazioni atipiche, anche quando non siano mortis causa, un effetto post mortem normalmente consegue, ciò dipende unicamente dalla particolare fattispecie emissiva che il soggetto assegna alla dichiarazione col presceglierne la forma testamentaria; ma da tale profilo l’atto (a rilevanza giuridica esterna) post mortem costituisce una categoria dommatica distinta cosí dall’atto sotto modalità di morte come dall’atto mortis causa».

(35) Da ultimo, V. BARBA, «La dispensa dalla collazione», in Dir. succ. fam., 2016, p. 1 e ss.

(36) In tema, le convincenti considerazioni di G. RESTA, Persona e successioni, in ID., Dignità, persone, mercati, Torino, 2014, p. 123 e ss.

(37) Credo che la funzione della norma di cui all’art. 587 c.c. non sia di limitare il contenuto del testamento alle sole disposizioni patrimoniali-attributive, ossia la istituzione di erede e il legato, allo scopo di escludere dal contenuto testamentario tutte le altre; ma all’esatto contrario di costituire una vera e propria riserva a favore del testamento di queste disposizioni. In altri termini, la norma di cui all’art. 587 c.c., in connessione con quella di cui all’art. 588 c.c., servirebbe per affermare che le istituzioni di erede e i legati possono essere contenute non in qualunque atto di ultima volontà, ma soltanto nel testamento.

(38) Da ultimo, V. BARBA, «I nuovi confini del diritto delle successioni», in Dir. succ. fam., 2015, p. 333 e ss.; ID., «Il diritto delle successioni tra solidarietà e sussidiarietà», in Rass. dir. civ., 2016, p. 345 e ss.

(39) Sul principio di sussidiarietà, di recente, il volume a cura di M. NUZZO, Il principio di sussidiarietà nel diritto privato, Torino, 2014.

(40) Sul punto, per tutti, P. PERLINGIERI, Autonomia privata e diritti di credito, in ID., Il diritto dei contratti fra persona e mercato, Napoli, 2003, p. 23 e ss.; ID., In tema di tipicità e atipicità dei contratti, in ID., Il diritto dei contratti fra persona e mercato, cit., p. 391 ss., spec. p. 402; ID., Dei modi di estinzione dell’obbligazione diversi dall’adempimento, in Comm. c.c. Scialoja Branca, Bologna - Roma, 1975, p. 20 e ss.; ID., Il fenomeno dell’estinzione nelle obbligazioni, Napoli, 1995, p. 22 e ss.; ID., Remissione del debito e rinunzia al credito, Napoli, 1968, 161 e ss.

(41) V. nota 35.

(42) V. BARBA, I patti successori e il divieto di disposizione della delazione. Tra storia e funzioni, Napoli, 2015, p. 116 e ss.

(43) Sulla distinzione tra teorie liberiste e patrimonialistiche, v. N. DI MAURO, «Contenuto e funzione del testamento», in Fam. pers. succ., 2006, p. 354 e ss. e, piú ampiamente, ID., Le disposizioni testamentarie modificative ed estintive del rapporto obbligatorio, Milano, 2005, p. 47 e ss.

(44) Sulla critica del metodo che propone di individuare la disciplina del contratto in base al tipo, già, ampiamente, P. PERLINGIERI, In tema di tipicità e atipicità nei contratti, in ID., Il diritto dei contratti fra persona e mercato. Problemi del diritto civile, Napoli, 2003, p. 391 e ss. Piú di recente, le condivisibili considerazioni G. PERLINGIERI, «La scelta della disciplina applicabile ai c.dd. “vitalizi impropri”. Riflessioni in tema di aleatorietà della rendita vitalizia e di tipicità e atipicità nei contratti», in Rass. dir. civ., 2015, p. 545.

(45) Cosí, per tutti, G. CRISCUOLI, Le obbligazioni testamentarie, 2a ed., Milano, 1980, p. 159.

(46) Vale, tuttavia, la pena di segnalare che il concetto di atipicità, in questo significato, da taluni è stato impiegato anche per designare le disposizioni aventi carattere patrimoniale, ma funzione non attributiva o istitutiva di erede (In questo senso, anche Trib. Genova, 17 luglio 2009, in Leggi d’Italia, secondo cui si considera testamento atipico « il documento che, pur privo di contenuto dispositivo e/o testamentario, è diretto unicamente a precisare di avere già provveduto alla ripartizione dell’attivo ereditario»). Nella prospettiva secondo la quale il verbo “disporre”, di cui all’art. 587 c.c. si sarebbe dovuto intendere, in connessione con quanto stabilito dall’art. 588 c.c., come sinonimo di “attribuire” (v. L. MENGONI, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, in Tratt. dir. civ. comm. Cicu e Messineo, continuato da Mengoni, vol. XLIII, 1, 5a ed., Milano, 1993, p. 23, secondo cui la nozione di disposizione testamentaria, ex artt. 587 3 588 c.c. «implica una decisione attuale sulla sorte dei beni nella forma di una dichiarazione negoziale il cui oggetto include essenzialmente la designazione della persona o delle persone alle quali i beni sono destinati»), non v’ha dubbio che tutte le disposizioni testamentarie aventi carattere patrimoniale, ma funzione non attributiva, si sarebbero dovute classificare come atipiche. L’idea che la formula verbale “disporre” impiegata nell’art. 587 c.c., debba essere intesa nel senso di “attribuzione” è, tuttavia, da considerare oggi minoritaria e ampiamente superata. A tal riguardo, si segnala che la anche Cassazione, decidendo un caso in tema di diseredazione (Cass., 25 maggio 2012, n. 8352, in Fam. pers. succ., 2012, con nota di V. BARBA, «La disposizione testamentaria di diseredazione», in Fam. pers. succ., 2012), aderendo alla migliore dottrina (già, seppur con riguardo al solo profilo patrimoniale, M. BIN, La diseredazione, Torino, 1966, p. 239), ha avvertito che il verbo “disporre” deve intendersi come sinonimo di “regolare” (G. BONILINI, Testamento, cit., p. 341 e ss e già D. BARBERO, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, II, Obbligazioni e contratti. Successioni per causa di morte, 2a ed., Torino, 1949, p. 917 e ss.). In particolare, si legge nella richiamata sentenza «le varie ipotesi in cui l’attività dispositiva possa manifestarsi sono tutelate dall’ordinamento purché non contrastino con il limite dell’ordine pubblico: ogni disposizione patrimoniale di ultima volontà, anche se non ‘‘attributiva’’ e anche se non prevista nominatim dalla legge, può dunque costituire un valido contenuto del negozio testamentario, solo se rispondente al requisito di liceità e meritevolezza di tutela, e se rispettosa dei diritti dei legittimari». Di là del riferimento alla tutela dei legittimari, e al rilievo che questa sentenza sembra, dunque, aderire all’idea che il diritto delle successioni debba trovare il proprio orizzonte prevalente di riferimento nel principio di solidarietà familiare, piú che in quello di autonomia, vale la pena di osservare che manifesta una interessante apertura. Sebbene non si può trascurare che tale apertura sembra limitata soltanto al contenuto patrimoniale e non anche al contenuto non patrimoniale.

(47) Secondo G. BONILINI, Autonomia testamentaria e legato, cit., p. 55, deve censurarsi l’idea che volesse considerare le norme previste agli artt. 651-661 c.c. capaci di descrivere una varietà tipologica del legato. «È esso, invero, un “tipo” delle tassative disposizioni testamentarie patrimoniali attributive, che può affiancarsi al sub ingresso, nella massa, di un erede; è costante il suo valore tipologico; trova nella legge anche la disciplina spicciola di alcune delle sue specie».

(48) G. BONILINI, Autonomia testamentaria e legato, cit., p. 57.

(49) Salve, ovviamente, le ipotesi in cui la legge escluda, espressamente, che una certa vicenda di un certo rapporto giuridico, possa essere realizzata tramite una disposizione testamentaria. È il caso dell’art. 2821 c.c., il quale esclude che una disposizione testamentaria possa, immediatamente e direttamente, costituire un’ipoteca.

(50) G. PERLINGIERI, «Il controllo di “meritevolezza” degli atti di destinazione ex art. 2645-ter c.c.», in Il foro nap., 2014, p. 59, nota 58, chiarisce che, da un punto di vista terminologico, si potrebbe anche sovrapporre il controllo di meritevolezza a quello di liceità, purché l’ultimo sia inteso come controllo di conformità all’ordine costituzionale. «Se si dovesse accettare tale prospettiva, salvo alcune ipotesi particolari (si pensi all’elusione fiscale, dove l’atto è da considerare lecito ma non meritevole; sul punto v. G. PERLINGIERI, Profili civilistici dell’abuso tributario, l’inopponibilità delle condotte elusive, Napoli, 2012, p. 9, 70, 73, 93) e salvo i casi dell’atto futile o impossibile (ma in tali casi sembra preferibile discorrere di mancanza di causa)o, come più avanti si vedrà, del contratto non meritevole, ex art. 2645-ter c.c., la mera liceità coinciderà spesso con la meritevolezza. L’importante è la consapevolezza da parte dell’interprete che il controllo del regolamento contrattuale non si deve mai limitare alle fonti primarie ma deve essere esteso alle norme di grado superiore, con buona pace anche del falso c.d. principio di “non interferenza” tra regole di comportamento e regole di validità».

(51) Sarebbe impensabile, a meno di non rendere totalmente irrazionale l’intero ordinamento giuridico, che un sistema nel quale la produzione legislativa debba, sotto pena di invalidità, essere contenutisticamente coerente, conforme e attuativa dei principi fondamentali, massime racchiusi nella Carta costituzionale, l’atto di autonomia privata non sia assoggettato al medesimo vincolo e controllo.

(52) P. PERLINGIERI, «Applicazione e controllo nell’interpretazione giuridica», in Riv. dir. civ., 2010, I, p. 317 e ss. V., anche, C.M. BIANCA, Diritto civile. 3. Il contratto, Milano, 1998, p. 432; G. PERLINGIERI, Negozio illecito e negozio illegale. Una incerta distinzione sul piano degli effetti, Napoli, 2003; S. POLIDORI, «Illiceità della funzione negoziale e reato», in Rass. dir. civ., 2012, p. 510; R. QUADRI, Rendita vitalizia e tipicità del contratto, Napoli, 2012.

(53) Per tutti, P. PERLINGIERI, «Produzione scientifica e realtà pratica: una frattura da evitare», in Riv. dir. comm., 1969, I, p. 455, e in ID., Scuole tendenze e metodi. Problemi del diritto civile, Napoli, 1989, p. 3 e ss.; ID., «Interpretazione e qualificazione: profili dell’individuazione normativa», in Dir. giur., 1975, p. 826 e ss.; ID., Il diritto civile nella legalità costituzionale, secondo il sistema italo-comunitario delle fonti (1983) , 3° ed., Napoli, 2006, p. 341 e ss.; ID., «L’interpretazione della legge come sistematica ed assiologia. Il brocardo in claris non fit interpretatio, il ruolo dell’art. 12 disp. prel. c.c. e la nuova scuola dell’esegesi», in Rass. dir. civ., 1985, p. 990 e in ID., Scuole tendenze e metodi, cit., p. 275; ID., Diritto comunitario e legalità costituzionale. Per un sistema italo- comunitario delle fonti, Napoli, 1992; ID., «Valori normativi e loro gerarchia. Una precisazione dovuta a Natalino Irti», in Rass. dir. civ., 1999, p. 802 e ss.; ID., «Complessità e unitarietà dell’ordinamento giuridico vigente», in Rass. dir. civ., 2005, p. 188 e ss.; ID., «Applicazione e controllo nell’interpretazione giuridica», in Riv. dir. civ., 2010, I, p. 317; ID., Interpretazione e legalità costituzionale, Napoli, 2012. Un’esaustiva ed efficace ricostruzione, con ampi riferimenti di dottrina e giurisprudenza, sull’evoluzione del diritto civil-costituzionale, si deve a M. PENNASILICO, «Legalità costituzionale e diritto civile», in Rass. dir. civ., 2011, p. 840 e ss.

(54) Cosí, G. PERLINGIERI, La disposizione testamentaria di arbitrato, in La giustizia arbitrale, a cura di V. Putortì, Napoli, 2015, p. 141 e ss.; nonché, piú approfonditamente, ID., «La disposizione testamentaria di arbitrato. Riflessioni in tema di tipicità e atipicità nel testamento», in Rass. dir. civ., 2016, in corso di pubblicazione.

(55) Cosí, V. BARBA, I patti successori …, cit., p. 171 e ss.

(56) Informazioni reperibili, al momento in cui questo lavoro è confezionato, sul sito: https://www.facebook.com/ help/1506822589577997/.

(57) Sulla successione nel patrimonio digitale, almeno, G. RESTA, La “morte digitale, in ID., Dignità, persone, mercati, cit., p. 375 ss.; S. DE PLANO, La successione a causa di morte nel patrimonio digitale, in Internet e diritto civile, a cura di C. Perlingieri e L. Ruggieri, Napoli, 2015, p. 427 e ss. V., anche, M. CINQUE, «La successione nel “patrimonio digitale”: prime considerazioni», in Nuova giur. civ. comm., 2012, p. 645 ss.; D. CORAPI, «Successione. La trasmissione ereditaria delle c.d. “nuove proprietà”», in Fam., pers. succ., 2011, p. 379 e ss.; A. ZOPPINI, «Le “nuove proprietà” nella trasmissione ereditaria della ricchezza (note a margine della teoria dei beni)», in Riv. dir. civ., 2000, p. 185 e ss.; M. MARTINO, Le “nuove proprietà”, in Tratt. dir. succ. don., diretto da G. Bonilini, vol. I, Milano, 2009, p. 355 e ss.; L. LORENZO, «Il legato di password», in Not., 2014, p. 147 e ss.; U. BECHINI, «Password, credenziali e successione mortis causa», Studio n. 6-2007/IG approvato dalla Commissione Studi di Informatica Giuridica del Consiglio Nazionale del Notariato l’11 maggio 2007 (è leggibile in http://ca.notariato.it/approfondimenti/6-07- IG.pdf). Sul c.d. contatto erede di Facebook, già V. BARBA, «Il diritto delle successioni tra solidarietà e sussidiarietà», cit., p. 347, nt. 6.

(58) V. nota 56.

(59) Si legge sul sito, offrendo ai familiari ai quali è inibito, in presenza di una scelta dell’utente di eliminare il proprio account, questo suggerimento: «se desideri creare un altro spazio per consentire alle persone su Facebook di condividere ricordi sul tuo caro, ti consigliamo di creare un gruppo».

(60) V. nota 56.

(61) V. nota 56.

(62) Sul tema, V. BARBA, I patti successori …, cit., passim.

(63) Informazioni reperibili, al momento in cui questo lavoro è confezionato, sul sito: https://www.facebook.com/help/1568013990080948.

(64) V. nota 63.

(65) V. nota 56.

(66) F. S. AZZARITI, G. MARTINEZ , GIU. AZZARITI, Successioni per causa di morte e donazione, Successioni per causa di morte e donazione, Padova, 1973, VI ed., p. 529; F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1957, p. 517; A. GIORDANO MONDELLO, voce Legato, dir. civ., in Enc. giur., Milano, p. 764.

(67) G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, II, Milano, 2015, p. 669; C. ROMANO, I Legati, in Diritto delle successioni, a cura di R. Calvo e G. Perlingieri, Napoli, 2008, p. 1077.

(68) In tema, le attuali considerazioni di L. CARIOTA FERRARA, «Mandato “post mortem” e disposizione sulla sepoltura», in Foro lomb., 1934, c. 754, «concludendo si può affermare che il diritto di disporre della propria sepoltura è evidentemente personale, e, come tale, sottratto sempre all’influenza della volontà dell’erede, il negozio, o, in genere, il mezzo con cui lo si esercita è indifferente, e, per la particolare natura dell’oggetto, non può che rimanere anch’esso fuori dei rapporti giuridici costituenti il compendio ereditario, i quali soltanto sono destinati a passare all’erede, ad averlo cioè come nuovo soggetto, arbitro e signore, com’era il de cuius».

(69) N. DI MAURO, Le disposizioni modificative …, cit., p. 828 e ss.; N. DI MAURO, Le disposizioni testamentarie, cit., p. 366 e ss.

(70) C. LOSANA, Le successioni testamentarie secondo il Codice civile italiano, Torino, 1884, p. 301 e ss.

(71) P. PERLINGIERI, Il fenomeno …, cit., p. 89; ID., Dei modi di estinzione …, cit., p. 213 e ss., spec. p. 235- 238. In senso contrario E. TILOCCA, La remissione del debito, Padova, 1955; ID., voce Remissione del debito, in Noviss. Dig. it., vol. XV, Torino, 1968, p. 389-421; G. BENEDETTI, Dal contratto al negozio unilaterale, Milano, 1969, p. 211.

(72) Per qualche ulteriore spunto applicativo, v. V. BARBA, La rinunzia all’eredità, Milano, 2008, p. 254 e ss.

(73) G. BONILINI, I legati, cit., p. 64; G. BONILINI, Il legato, cit., p. 433.

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