I legati atipici quale strumento di realizzazione di interessi non attributivi del testatore
I legati atipici quale strumento di realizzazione di interessi non attributivi del testatore
di Carmine Romano
Notaio in Napoli

Considerazioni introduttive

Oggetto di queste riflessioni è un’analisi del ruolo che la disposizione a titolo di legato ha assunto nella realizzazione di interessi del testatore diversi dalla semplice attribuzione di proprie sostanze. Emerge prepotentemente, sullo sfondo, il tema dei possibili contenuti della scheda testamentaria e del complessivo disegno funzionale del negozio di ultima volontà.
Giova rilevare come, in materia, a far tempo dagli anni Novanta, nel comune sentire di studiosi e operatori pratici cambia la percezione di ciò che debba intendersi per “testamento in senso sostanziale”, ribaltandosi, sul piano assiologico, i tradizionali e angusti ambiti del regolamento successorio. Dal testamento quale esclusivo strumento di attribuzione di sostanze si passa ad un più ampio riconoscimento, sul piano funzionale, del negozio di ultima volontà, in grado di comporre e disciplinare interessi di varia natura per il tempo in cui l’autore del negozio avrà cessato di vivere. La disposizione a titolo di legato, per la sua versatilità, si rivela quanto mai idonea ad intercettare e regolare interessi non attributivi del testatore, dando nuova attualità al regolamento successorio di fonte testamentaria. Se, infatti, l’elaborazione dottrinale, a partire dagli anni Ottanta, si interrogava sugli strumenti alternativi al testamento, la vivacità degli studi recenti sembra aver riscattato il diritto successorio da anni di “stagnante” individuazione di principi generali, rendendo l’analisi quanto mai stimolante nell’individuare fin dove la vicenda effettuale della disposizione testamentaria possa spingersi.

Il legato di specie quale espressione della funzione attributiva del testamento

L’interpretazione dell’impianto normativo del Codice del ’42 appare, invero, fortemente orientata dalla definizione offerta dall’art. 587 c.c., a norma del quale il testamento è «atto revocabile con cui taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere di tutte le proprie sostanze o di parte di esse»; il successivo articolo 588 c.c. traduce il “profilo causale generico” della disposizione patrimoniale in strumenti concreti, l’istituzione di erede ed il legato. Le disposizioni appena richiamate vengono interpretate dalla dottrina tradizionale come precisa scelta legislativa in ordine ai significati ed alla funzione stessa della scheda testamentaria, cui viene affidato il compito di programmare l’attribuzione di sostanze per il tempo successivo alla morte del titolare dei beni. Nell’orientamento tradizionale, pertanto, funzione attributiva del testamento e tipicità delle disposizioni attraverso cui tale funzione si realizza, rappresentano principi intimamente connessi. Difatti, l’affermazione della portata esclusivamente attributiva del testamento, costituendo l’istituzione di erede ed il legato le forme attraverso cui tale attribuzione si realizza nel quadro di una successione a titolo universale o particolare, conduce alla conclusione della tipicità delle disposizioni testamentarie(1), in stridente contrasto con l’ampia autonomia riconosciuta ai privati in ambito contrattuale. È possibile leggere, in saggi dell’epoca, che «con le disposizioni testamentarie il de cuius può solo trasferire a causa di morte il suo patrimonio. Tale trasferimento può attuarsi mediante gli unici due tipi di disposizioni testamentarie previste dalla legge: istituzione di erede e legato»(2) e che «il concetto dell’articolo 587 c.c. implica una decisione attuale sulla sorte dei propri beni nella forma di una dichiarazione negoziale ... questa connotazione è confermata dall’articolo 588, il quale, sebbene non preveda tutti i tipi di disposizione testamentaria patrimoniale, ma soltanto le due figure normali, tuttavia ne definisce il genere nei termini del concetto di attribuzione patrimoniale»(3).
La conseguenza di siffatta impostazione è il riconoscimento di una vicenda effettuale piuttosto ridotta alla disposizione testamentaria: l’attribuzione di sostanze può avvenire a titolo universale o attraverso legati di specie; essendo questa la “minima unità effettuale” del programma mortis causa, le altre disposizioni hanno una portata meramente accessoria e secondaria: è il caso delle disposizioni divisionali, del modus testamentario, ma anche di legati diversi da quello di specie che, pur previsti dal legislatore, sembrano realizzare interessi residuali, ancillari rispetto allo schema-base del programma di ultima volontà. Le disposizioni in oggetto, infatti, nell’interpretazione corrente presuppongono pur sempre la trasmissione di sostanze del de cuius, ed hanno perciò il più limitato compito di completare un programma negoziale mortis causa che trova nella attribuzione di sostanze ereditarie il suo momento saliente. Da qui, l’accessorietà e, sovente, l’accidentalità di simili disposizioni, la cui cittadinanza giuridica - nell’ambito della scheda testamentaria - presuppone, quale prius logico, la presenza di una istituzione di erede o di un legato.
L’approccio ricostruttivo testè delinato ha immediate conseguenze sulla configurazione dei possibili contenuti del legato. Se, invero, nell’istituzione di erede si realizza una trasmissione di sostanze a titolo universale, il legato appare duttile strumento di attribuzione di singoli diritti: benché il legislatore del ’42 riconosca e disciplini possibili contenuti obbligatori dei legati, il legato di specie sembra collocarsi a pieno titolo nella ricostruzione del testamento quale programma attributivo del testatore.
Quanto al versante giurisprudenziale, in un risalente intervento in materia di diseredazione(4), la Corte di Cassazione afferma che «il contenuto tipico del testamento è dato dalla disposizione patrimoniale positiva che, come precisa il successivo art. 588, può essere costituita esclusivamente o dalla istituzione di erede (disposizione a titolo universale) o dal legato (disposizione a titolo particolare). ... La volontà del testatore è sì libera e sovrana, ma essa può essere espressa solo attraverso il testamento, attraverso cioè quello strumento tecnico e tipico anche quanto al contenuto, nel senso che il testatore può provvedere sì liberamente alle proprie sostanze per il tempo in cui avrà cessato di esistere, ma attraverso lo strumento della disposizione patrimoniale positiva, la istituzione di erede o il legato»(5).
La possibilità che il testatore preveda nella scheda testamentaria disposizioni di altro tipo (quali le disposizioni in materia di divisione, la riabilitazione dell’indegno, la disposizione modale o i principi in forza dei quali ripatire le passività) non mette in crisi gli assunti testé formulati.
Invero, un decisivo contributo alla tesi della funzione esclusivamente attributiva del testamento viene storicamente offerto dalla particolare configurazione dei rapporti tra successione legittima e successione testamentaria, essendosi diffuso, negli ambienti dottrinali citati in precedenza, il convincimento in ordine alla preminenza della vocazione intestata su quella testamentaria(6). In particolare, all’indomani dell’entrata in vigore del Codice del ’42 si rinviene il fondamento della successione legittima nei doveri morali e sociali dell’individuo nei confronti della propria famiglia. Ne consegue che, sul piano dei valori, la vocatio ab intestato ha preminenza rispetto alla disposizione testamentaria, e ciò in quanto al superiore interesse alla tutela della famiglia deve essere ascritto un ruolo prioritario rispetto alla tutela della volontà del testatore. L’ art. 457 comma 2 c.c., a norma del quale «non si fa luogo alla successione legittima se non quando manchi, in tutto o in parte, quella testamentaria» viene interpretato nel senso che la vocatio ex lege, istituzionalmente volta al perseguimento di un fine di interesse di rilevanza generale, sia la regola, mentre il testamento - a fondamento del quale militavano istanze strettamente individuali - costituisca l’eccezione alla regolamentazione legislativa del fenomeno successorio(7), i cui ambiti sono di conseguenza rigorosamente predeterminati.
In questo contesto storico - giuridico si assiste al diffondersi di un vero e proprio «pregiudizio antitestamentario»(8) che conduce al progressivo abbandono del principio del favor testamenti, imponendo una interpretazione quanto mai restrittiva della scheda testamentaria, sì da ridurre le possibilità di disapplicazione delle regole legali(9).
Intuibili sono le ripercussioni sulla tematica dei possibili contenuti della scheda testamentaria. Affermare la prevalenza, sul piano dei valori normativi, della vocatio ex lege significa riconoscere al de cuius un’unica possibilità per derogare e “vincere” la regolamentazione legale del fenomeno successorio: attribuire in diverso modo le sostanze ereditarie.
Il profilo funzionale della disposizione testamentaria appare, dunque, fortemente ridimensionato. La ricostruzione della causa testamentaria in termini puramente attributivi costituisce scelta “ideologica” che orienta fortemente la prospettiva di analisi di numerosi istituti di fonte testamentaria, come una “lente” che deforma la percezione dell’intero sistema successorio.

Il testamento quale negozio “causalmente complesso”: le nuove ricostruzioni del profilo causale

Con il passare degli anni si assiste, tuttavia, ad un progressivo mutamento delle tesi sul rapporto di valore tra i due modelli di vocazione e ad una diversa interpretazione dell’ art. 457 c.c. In particolare, l’assunto, per il quale la successione legittima troverebbe il proprio fondamento in superiori ragioni sociali di tutela dell’organismo familiare, viene smentito sia dalla considerazione dei valori costituzionali sia da una interpretazione sistematica del libro II c.c.
In primo luogo, si nota come la tesi in parola tragga origine da una inesatta valutazione dell’istituto della famiglia. Se davvero la successione legittima avesse fondamento nell’esigenza di tutela di questa, quale istituto di rilevanza sociale, sarebbe intuitivo concludere che il legislatore, nel prevedere le diverse classi di successibili ab intestato, abbia dato rilevanza ad una nozione estremamente ampia di famiglia, tale da ricomprendere addirittura i parenti di sesto grado.
Tale dato, tuttavia, si pone in stridente contrasto con la disposizione dell’art. 29 della Costituzione, che configura la famiglia quale “società naturale fondata sul matrimonio”, il che rafforza il convincimento secondo cui, al di fuori di questo ristretto ambito, parlare di istituto di importanza sociale non è corretto, né sociologicamente né giuridicamente. Sovente, i successibili ex lege, per lontananza di parentela, sono addirittura sconosciuti al de cuius, e comunque non condividono con lui alcun legame di solidarietà.
Alla considerazione che precede va aggiunto un ulteriore motivo di perplessità, tratto dall’analisi del sistema successorio delineato dal legislatore. Invero, è nelle norme sulla tutela dei legittimari che l’interesse successorio dei membri della famiglia (nell’accezione ristretta di cui si è detto) assurge a principio di ordine pubblico, limitando perciò il potere dispositivo del de cuius(10). Nel sistema legislativo, dunque, la tutela dei più stretti congiunti è realizzata non già attraverso le norme sulla successione ab intestato, bensì “riservando” loro una frazione del patrimonio relitto.
La inattendibilità dell’opinione testè espressa, in ordine al fondamento della vocazione legittima ed ai rapporti tra la stessa e la vocazione testamentaria, è dimostrata da un’ulteriore considerazione. Se la ratio delle disposizioni dettate dagli artt. 565 e ss. c.c. fosse quella prospettata dalla richiamata dottrina, risulterebbe davvero difficile conciliare tale assunto con la libertà riconosciuta al de cuius di indirizzare in altro modo la vocazione, ossia la “chiamata” ereditaria, gratificando soggetti estranei al nucleo familiare. La derogabilità delle disposizioni in materia di vocazione intestata depone, pertanto, contro la tradizionale ricostruzione dei valori sottesi ad essa.
In forza dei rilievi svolti, la dottrina ritiene di dover ravvisare il fondamento della successione legittima nella necessità sociale che, alla morte di una persona, una successione vi sia, evitando che le sostanze ereditarie divengano res derelictae. Il legislatore individua i successibili ex lege nei parenti del de cuius facendo riferimento al normale mondo degli affetti di quest’ultimo, sulla base di una valutazione tipica improntata ad un giudizio di normalità, derivante dalla considerazione dell’ id quod plerumque accidit, ossia di quali successibili siano solitamente chiamati(11).
Superato l’assunto del fondamento pubblicistico-familiare dalla vocazione intestata, è stato agevole abbandonare altresì il “dogma” della prevalenza della stessa sulla vocazione testamentaria, e dunque della tassativa predeterminazione dei margini di operatività dell’autonomia del testatore.
La rimeditazione dei rapporti tra le forme di vocazione, privando la disposizione testamentaria del carattere di eccezionalità, stimola l’analisi verso un approfondimento della tematica della funzione del testamento e dei suoi possibili contenuti, riconsiderando la valenza della stessa norma definitoria dell’articolo 587 c.c., per il quale il testamento è atto con cui taluno “dispone” delle proprie sostanze per il tempo in cui avrà cessato di vivere.
Invero, proprio un’interpretazione letterale di tale ultima norma - quale quella offerta dall’orientamento tradizionale - genera numerose perplessità. Se, infatti, per disposizione patrimoniale deve intendersi la produzione, a favore di un soggetto, di un vantaggio suscettibile di valutazione economica (consistente nell’ acquisto di un diritto, nella liberazione da un obbligo, nella rimozione di un limite, etc.)(12), con l’ulteriore precisazione che detto vantaggio debba essere riconducibile in via diretta, e non mediata, all’atto di autonomia, ebbene tale risultato non viene necessariamente raggiunto nell’heredìs institutio e nel legato, ossia nelle due disposizioni cui, secondo la richiamata dottrina, il legislatore ha tipicamente assegnato il ruolo di realizzare le attribuzioni testamentarie. Si pensi, quali esempi paradigmatici, al caso di damnosa hereditas ovvero all’ipotesi di legato gravato da un peso (avente natura di sublegato o onere) che ne assorba completamente il valore. In tali fattispecie, è difficile ravvisare un vantaggio patrimoniale diretto in capo all’erede o al legatario, pur non potendosi negare validità a disposizioni di tale genere. Ne consegue, allora, che quella tradizionale costituisce interpretazione formalistica del dato normativo, volta ad attribuire al termine “disporre” un significato tecnico-giuridico che esso, invero, non può avere.
La stessa norma dell’articolo 588 c.c., che per lunghi anni ha costituito referente di centrale importanza nell’argomentare della dottrina tradizionale, si rivela in realtà priva di valore vincolante, inidonea a definire e cogliere la complessità di un fenomeno, quale quello testamentario, che invero trova oggi una delle manifestazioni più diffuse nei legati obbligatori, tecnicamente non sussumibili nella summa divisio disposta dalla norma stessa(13).
Proseguendo nell’analisi di ordine critico, le teorie tradizionali destano perplessità anche per la sbrigativa quanto semplicistica qualificazione in termini di accessorietà - rispetto a negozi di trasmissione delle sostanze del de cuius - di particolari disposizioni che il legislatore ammette siano contenute nella scheda testamentaria.
Il riferimento va a numerose disposizioni previste nel sistema successorio: si pensi alle disposizioni con valenza divisionale, alla dispensa da collazione e imputazione, all’esclusione dell’operare della rappresentazione fino a giungere alle regole dettate dal testatore per la ripartizione di passività. L’errore in cui cade la teoria “tradizionale”, con riferimento a tali disposizioni, è quello di ritenere che esse trovino il proprio prius logico nell’esistenza di attribuzioni testamentarie, sì che le stesse si collochino necessariamente a latere rispetto alle attribuzioni medesime. Al contrario, tali disposizioni testimoniano, in modo inequivocabile, come già nell’impianto normativo del ’42 venivano riconosciuti al testatore penetranti poteri di disciplina dei propri interessi per il tempo successivo alla morte, al di là della dicotomia «attribuzione a titolo universale - a titolo particolare». Esse testimoniano la complessità e ricchezza funzionale del regolamento di fonte testamentaria, nell’ambito del quale la patrimonialità della disposizione non può ridursi ad una decisione circa la titolarità dei beni. Il testamento in senso “sostanziale” è, dunque, negozio di ampio respiro, la cui “causa generica” è quella di consentire in vario modo al testatore di regolare i propri interessi per il tempo in cui avrà cessato di vivere, «categoria giuridica nell’ambito della quale è possibile attuare regolamenti di interessi in materia patrimoniale essenzialmente diversi l’uno dall’altro, dotati d’autonoma e specifica disciplina e produttivi ciascuno di effetti peculiari»(14). Riconducibile a tale nozione è qualsivoglia disciplina di interessi patrimoniali contenuta in un atto di ultima volontà. La trasmissione dei diritti è, allora, soltanto un tassello di un mosaico ben più ampio ed eterogeneo.

I nuovi ambiti dell’autonomia testamentaria: i legati atipici quale strumento di realizzazione di interessi non attributivi del testatore

Giunti a questo punto dell’analisi, è interessante verificare in cosa si traduca il rinnovato, ampio riconoscimento dell’autonomia testamentaria nella concreta predisposizione dei programmi successori. La principale conseguenza delle rinnovate impostazioni è un deciso ampliamento dei possibili contenuti dei programmi negoziali di fonte testamentaria, permettendo di investire interessi un tempo ritenuti estranei al regolamento di fonte testamentaria. La versatilità dei legati appare in grado di dare disciplina ad interessi del testatore in settori quanto mai innovativi; nelle pagine che seguono si tenterà di individuare talune delle più significative linee evolutive dei contenuti testamentari.

a) i legati ed i rapporti contrattuali

Viene in rilievo, in primo luogo, il crescente utilizzo della disposizione testamentaria quale fonte di rapporti obbligatori tra coeredi o legatari in ambiti profondamente diversi da quelli riconosciuti in passato, come nel caso di disposizioni costitutive di obblighi di fare o non fare(15). Al riguardo, merita particolare attenzione il ruolo che la disposizione testamentaria ha assunto nella genesi di rapporti contrattuali. Difatti, tra gli obblighi che possono sorgere in capo all’onerato in forza di una disposizione a titolo di legato rientrano gli obblighi di “facere negoziale”, ossia di porre in essere un negozio determinato: in argomento, si parla anche di legati “di comportamento negoziale”.
Ciò chiarito, è possibile operare un’ulteriore distinzione, tra le ipotesi in cui il facere negoziale consista nel compimento di un negozio unilaterale, e quelle in cui esso si concreti in un’attività bilaterale. Nel primo caso, ai fini dell’adempimento del legato obbligatorio non necessita la cooperazione del legatario: si pensi all’ipotesi in cui il legato faccia obbligo all’onerato di ratificare un contratto concluso da falsus procurator, ovvero di porre in essere un riconoscimento di debito, di rinunziare ad un diritto, etc. Laddove, invece, si imponga all’onerato di stipulare un contratto con il legatario, si realizza una attività negoziale bilaterale, e si parla comunemente di legato di contratto.
Come sovente accade in materia di legati, sia tipici che atipici, la definizione comunemente data in dottrina ha una portata meramente descrittiva: oggetto del legato non è, infatti, il contratto, né la posizione contrattuale (la disposizione della quale integra una diversa fattispecie). L’attribuzione fa sorgere, invece, in capo al legatario il diritto di credito a stipulare un futuro contratto con l’onerato: trattasi, pertanto, di legato atipico ad efficacia obbligatoria(16).
La vicenda effettuale della disposizione testamentaria fa emergere un legame di profondo interesse tra la volontà del testatore e la futura attività negoziale. Sul piano funzionale, immediate appaiono le affinità tra il legato di contratto ed il contratto preliminare unilaterale: in entrambi i casi, infatti, sorge un obbligo di contrarre in capo ad un soggetto. Attraverso la disposizione testamentaria, è offerta al testatore la possibilità di delineare, in maniera più o meno incisiva, il contenuto del regolamento negoziale che onerato e legatario andranno a concludere. Si faccia il caso di legato di contratto di compravendita: il testatore può limitarsi a fare obbligo all’onerato di vendere un determinato cespite al legatario, ma potrà altresì prevedere che la vendita avvenga ad un prezzo previsto nella scheda testamentaria, o a valore di mercato, o ancora per un corrispettivo determinato da un terzo arbitratore; potrà prevedere, ancora, determinati termini di pagamento o di consegna del bene. Ciò consente di affermare che, nella scheda testamentaria, il testatore può non soltanto sancire l’obbligo dell’onerato di contrarre, ma altresì individuare taluni punti salienti del futuro regolamento negoziale. Si assiste, in questo modo, ad una singolare convergenza tra autonomia testamentaria ed autonomia contrattuale(17), con una crescente incidenza del voluto testamentario nel delineare l’assetto finale di interessi conseguente alla stipula del contratto.
L’analogia con la contrattazione preliminare si estende anche alla fase patologica dell’inadempimento dell’obbligo a contrarre: in applicazione del principio di cui all’art. 2932 c.c., ove l’onerato rifiuti la stipulazione del contratto, il legatario potrà rivolgersi all’autorità giudiziaria domandando una sentenza costitutiva che tenga luogo del contratto non concluso. Altro rimedio sarà quello del risarcimento del danno, disciplinato dai principi generali.
Ma il legame tra disposizione a titolo particolare e contratto si traduce altresì nella possibilità che il legato divenga strumento di trasmissione di rapporti contrattuali in corso, che per loro natura non si estinguono alla morte del contraente. Si parla, in questo caso, di legato di posizione contrattuale: la disposizione testamentaria ha ad oggetto il complesso di rapporti giuridici di cui è investito il testatore in quanto parte di un contratto, e dunque diritti ed obblighi derivanti da un regolamento negoziale già stipulato dal de cuius.
In via preliminare, giova rilevare le differenze fisionomiche tra la fattispecie appena esposta e quella del legato di contratto. In quest’ultima ipotesi, infatti, il testatore fa obbligo all’onerato di concludere un futuro contratto con il legatario: la disposizione testamentaria, pertanto, precede logicamente e cronologicamente la conclusione del contratto.
Al contrario, nel caso di legato di posizione contrattuale, un contratto è già stato stipulato al momento della redazione della scheda testamentaria; da esso discende un, complesso di obblighi e diritti di cui il testatore intende disporre.
In assenza di referenti normativi, la dottrina(18) in passato ha ritenuto di negare legittimità ad una simile fattispecie sottolineando come oggetto del legato possano essere esclusivamente beni o diritti, e non un rapporto contrattuale complessivamente inteso. Un simile risultato potrebbe essere raggiunto solo scomponendo i termini della fattispecie, che andrà ricostruita quale legato modale: oggetto della disposizione potranno essere le sole posizioni giuridiche attive (diritti e crediti) scaturenti dal contratto, con la previsione dell’onere di adempiere agli obblighi che trovano titolo nel contratto stesso.
A supporto di una simile conclusione, siffatta dottrina adduce una serie di criticità che il legato di posizione contrattuale presenterebbe nell’applicazione di norme centrali nel microsistema successorio. Il riferimento va, in primo luogo, all’art. 671 c.c., che, nel porre il principio della responsabilità intra vires del legatario, dispone che questi «è tenuto all’adempimento del legato e di ogni altro onere a lui imposto entro i limiti del valore della cosa legata». Laddove oggetto della disposizione fosse un rapporto contrattuale, il valore dello stesso sarebbe di difficile determinazione, il che farebbe venir meno il parametro di riferimento della norma in commento.
Vengono, altresì, richiamati i possibili esiti di un vittorioso esperimento dell’azione di riduzione, a seguito della quale il terzo contraente, che ha già subito il subingresso nel rapporto nel legatario, vedrebbe la modifica (ope judicis) della controparte contrattuale senza poter manifestare alcuna volontà al riguardo.
Gli argomenti innanzi indicati non sono ritenuti decisivi da altra, preferibile, dottrina(19), la quale riconosce invece cittadinanza giuridica all’istituto in oggetto, ritenendo di poter superare le obiezioni appena esposte. Si sottolinea, in primo luogo, come tutto ciò che può formare oggetto di contratto può, altresì, formare oggetto di legato: dal regolamento negoziale sorgono, in capo alle parti, diritti ed obblighi che, complessivamente considerati, ben possono formare oggetto di disposizione testamentaria. Del resto, pur in mancanza di una norma definitoria, il legislatore offre una “traccia” della possibilità che il rapporto contrattuale complessivamente inteso divenga oggetto di trasmissione mortis causa: in materia di locazione (artt. 6 e 37 L. n. 392 del 1978) è prevista, infatti, una successione per legge nel rapporto contrattuale a seguito del decesso di uno dei contraenti.
Né in senso contrario depone l’asserita inapplicabilità, alla fattispecie in oggetto, dei principi vigenti in materia successoria. Viene in considerazione, al riguardo, il principio della responsabilità intra vires del legatario. Ebbene, il valore della res legata (parametro di riferimento del principio in oggetto) va quantificato considerando che l’onorato è destinatario di una posizione giuridica unitaria e complessa, rappresentata da un fascio di diritti ed obblighi non scomponibili: il valore complessivo di tale posizione giuridica costituisce il limite entro il quale sussiste la responsabilità del legatario.
Inoltre, a parere di chi scrive, non appare decisivo l’argomento per il quale, laddove le passività contrattuali eccedessero le attività derivanti dal contratto stesso, il legatario sarebbe esposto ad un lascito dannoso, senza essere tutelato dal limite della responsabilità intra vires.
L’argomento, invero, si basa su un equivoco di fondo, che consiste nel ritenere che di siffatte passività il legatario risponda jure sueccessionis: al contrario, ottenuta una attribuzione a titolo di legato, l’onorato risponde dei debiti contrattuali quale parte contrattuale(20). Appare, allora, opportuno precisare sul piano logico-giuridico i termini effettuali della fattispecie: a) la disposizione testamentaria fa conseguire al legatario una posizione giuridica complessa, formata da rapporti attivi e passivi: il valore del lascito corrisponde a tale complesso di rapporti; b) una volta conseguito il legato, e dunque “acquisita” la posizione contrattuale, il legatario risponde delle passività non jure successionis, ma quale parte del rapporto contrattuale in cui è subentrato: le passività trovano titolo nel contratto, non nella disposizione testamentaria, di cui formano oggetto; c) pertanto, non viene in considerazione il tema, cui allude l’art. 671 c.c., dell’adempimento del legato o di altri oneri imposti al legatario: l’adempimento concerne debiti contrattuali, in cui il legatario subentra per effetto dell’acquisizione di una posizione giuridica complessa non più scomponibile in posizioni attive e passive.
Quanto a possibili esiti patologici della vicenda, successoria, quale il vittorioso esperimento dell’azione di riduzione da parte di un legittimario leso o preterito, può farsi applicazione del principio posto dall’art. 560, comma 2, c.c., in tema di non comoda separabilità della res legata: facendo applicazione di tale disposizione, anche a seguito del vittorioso esperimento dell’azione di riduzione il legatario potrebbe ritenere il rapporto contrattuale oggetto della disposizione, corrispondendo al legittimario istante l’equivalente in denaro.

b) i legati quale strumento di definizione di rapporti obbligatori

Proseguendo nell’analisi, appaiono di profondo interesse, anche per le numerose applicazioni pratiche, le ipotesi di incidenza di disposizioni testamentarie su rapporti obbligatori in corso al momento dell’apertura della successione. Al riguardo il legislatore, con le disposizioni degli articoli 658 e 659 c.c., propone un modello operativo costante: il rapporto debito/credito è termine di riferimento esterno rispetto alla disposizione testamentaria, chiamata ad incidere in vario modo sulla vicenda obbligatoria, liberando il debitore dalla propria obbligazione, dando luogo ad una vicenda circolatoria mortis causa del credito, consentendo al testatore/debitore di effettuare disposizioni solvendi causa a beneficio del proprio creditore.
In particolare, nell’ipotesi contemplata dall’art. 659 c.c., la disposizione testamentaria va a premiare colui il quale vanti un credito verso il testatore: l’interpretazione del voluto testamentario dovrà chiarire se la disposizione sia effettuata a scopo di adempimento o si risolva in una liberalità ulteriore che non estingue il rapporto obbligatorio in essere. Si parla, nel primo caso, di “legato di debito”, con espressione ancora una volta descrittiva, giacché oggetto dell’attribuzione non è, né potrebbe essere, il debito, ma la somma (o il bene) che formava oggetto della prestazione dovuta dal debitore.
Ebbene, partendo dalla fattispecie individuata dal legislatore, la dottrina ha analizzato la possibilità che il testatore estingua il proprio debito attraverso un percorso diverso e più articolato.
Viene in considerazione, in primo luogo, l’ipotesi di “offerta”, attraverso la disposizione testamentaria, di una prestazione diversa dall’adempimento: la fattispecie richiama, sul piano effettuale, l’istituto della datio in solutum di cui all’art. 1197 c.c. Invero, se dal dato funzionale si passa a quello fisionomico e strutturale, l’assimilazione tra le due figure impone di valutare la necessità del consenso del creditore ai fini dell’estinzione dell’obbligazione per il tramite di una prestazione diversa da quanto dovuto. La datio in solutum integra un contratto tra debitore e creditore, assurgendo il consenso di quest’ultimo ad elemento costitutivo della fattispecie(21). Ciò sembrerebbe stridere con “l’ambientazione testamentaria” della vicenda solutoria. Tuttavia, re melius perpensa, la contrattualità della dazione in pagamento è dato strutturale che discende da un preciso connotato funzionale della fattispecie: il mutamento dell’oggetto della prestazione è idoneo ad estinguere l’originaria obbligazione solo se su esso converge il volere della parte creditrice. Ecco perché, per realizzare la propria causa, la datio in solutum esige lo scambio di consensi tra i protagonisti del rapporto obbligatorio.
Ebbene, l’aver collocato sul piano funzionale la giustificazione della necessaria bilateralità dell’istituto in oggetto consente di ritenere che essa possa sussistere anche allorquando siffatta funzione sia perseguita in forme diverse da quella tipica di cui all’articolo 1179 c.c., come nel caso in cui la dichiarazione di volontà del debitore sia affidata alla scheda testamentaria. Lo scambio dei consensi, nell’ipotesi in oggetto, avverrà secondo le logiche del diritto successorio: la disposizione testamentaria “offre” al creditore la possibilità di definire la vicenda obbligatoria attraverso il conseguimento di una prestazione diversa da quella dovuta dal testatore debitore, integrando un legato solvendi causa; conseguendo detto legato, il creditore manifesta il proprio consenso a detto programma estintivo.
Considerazioni non dissimili possono essere effettuate per programmi testamentari di natura novativa. In questo caso, intenzione del testatore (titolare della posizione soggettiva passiva) è quella di estinguere il precedente rapporto obbligatorio non già attraverso una prestazione che soddisfi (in maniera diretta o indiretta) il creditore, ma facendo sorgere, in sostituzione della precedente, una nuova obbligazione(22). Il legato al creditore, in questo caso, ha causa estintiva, ma non satisfattiva: oggetto della disposizione testamentaria potrà essere la costituzione di una nuova obbligazione in sostituzione della precedente, ovvero la modifica dei termini sostanziali dell’originaria obbligazione, che così si estingue e viene sostituita da nuovo rapporto obbligatorio. Sul piano strutturale trattasi di legato a favore del creditore, fatto con menzione del debito, con effetto estintivo, benché non satisfattivo (es. ad estinzione del debito su di me gravante nei confronti di Tizio, lego a quest’ultimo, ex art. 659 c.c., il diritto a pretendere dai miei eredi la prestazione consistente nella somma di euro 100.000,00, così novando l’obbligazione originaria). Così come in materia di dazione in pagamento, il risultato novativo viene realizzato attraverso l’incontro delle volontà di debitore e creditore che non si saldano nella struttura contrattuale delineata dall’art. 1230 c.c., ma si esprimono nel rispetto dei principi del diritto successorio. Attraverso detto percorso ricostruttivo, il legato diventa strumento quanto mai duttile di disciplina di rapporti obbligatori in essere al momento della apertura della successione, tanto che la dottrina ne ammette l’applicazione anche a fenomeni compensativi di rapporti obbligatori reciproci o a vicende estintive che trovino titolo nella cosiddetta confusione di posizioni giuridiche attive e passive.

c) la funzione sanzionatoria attuata tramite legati

All’ampliamento dei possibili contenuti di carattere obbligatorio della scheda testamentaria fa riscontro il sempre più deciso ricorso a strumenti, di fonte negoziale, finalizzati a garantire la realizzazione

degli assetti così predisposti. Il riferimento va alle cosiddette “sanzioni di fonte testamentaria”, anche

definite disposizioni testamentaria “a titolo di pena”, termine questo con il quale si intendono quelle disposizioni con le quali il testatore - una volta dettati obblighi o imposti divieti nell’ambito del proprio programma successorio - esercita una coazione psicologica sull’erede o sul legatario, al fine di indurre l’onerato al rispetto della sua volontà(23). Il legislatore, invero, offre una traccia di simili disposizioni nell’ultimo comma dell’art. 648 c.c., in materia di disposizione modale, ove si ammette la risoluzione giudiziale dell’attribuzione per inadempimento dell’onere nel caso in cui la risoluzione sia stata prevista dal testatore.
Trattasi di disposizioni che accedono ad una volontà testamentaria principale, rafforzando gli obblighi o i divieti imposti dal testatore, configurandosi quale strumento di pressione sull’onerato per indurlo al rispetto della volontà del de cuius consegnata alla scheda testamentaria. La disposizione prospetta uno svantaggio patrimoniale che funge da pena per l’onerato qualora non osservi l’obbligo imposto: la perdita totale o parziale dell’attribuzione nel caso di clausole di decadenza o riduzione del lascito; l’obbligo di compiere una determinata prestazione, in genere pecuniaria, nell’ipotesi di penale testamentaria.
Pur nella loro eterogeneità, le disposizioni appena richiamate sono accomunate dal dato della duplice funzione: coercitiva, quale induzione all’adempimento, agendo in via preventiva sull’onerato quale stimolo psicologico ad osservare la volontà principale del de cuius, prospettando le conseguenze dell’inadempimento; repressiva e sanzionatoria, nell’ipotesi di mancata osservanza degli obblighi o divieti imposti dal testatore. Al riguardo, giova sottolineare come la funzione afflittiva di regola non si accompagni ad una funzione satisfattoria. Il testatore non mira, infatti, alla reintegrazione del proprio patrimonio, giacché simili disposizioni sono per definizione destinate ad operare a far tempo dall’apertura della successione. Due, allora, sono i possibili scenari che, sul piano effettuale, conseguono al volere testamentario, entrambi nel senso di un arricchimento del programma successorio: nel caso di clausole di decadenza o di riduzione, esse pongono l’esigenza di prevedere una diversa allocazione delle sostanze ereditarie residuate dalla perdita totale o parziale del lascito da parte del soggetto inadempiente; nel caso di penale testamentaria, determinano il diritto ad una prestazione pecuniaria a beneficio di un soggetto determinato, secondo lo schema tipico dei legati. La collocazione di dette clausole in ambito testamentario pone il delicato tema della predisposizione congiunta della sanzione, che richiama il più ampio argomento delle pene private.
In particolare, essendo il programma testamentario per definizione frutto di una volontà unilaterale, in taluni ambienti dottrinali è stato sottolineato come l’onerato subirebbe la sanzione, non partecipando alla creazione di essa, facendo difetto pertanto il carattere di bilateralità e reciprocità. Dinanzi a tali, rilevanti obiezioni, la dottrina più moderna ha tuttavia sottolineato come l’onerato, accettando o comunque non rifiutando il beneficio in suo favore, esprime un consenso ad un programma negoziale di cui la sanzione è parte integrante; inoltre, benchè non ci sia predisposizione congiunta della misura afflittiva, il soggetto obbligato è messo in condizione di conoscere in via preventiva, con certezza, le conseguenze della sua condotta inadempiente, avendo contezza di tutti i possibili esiti delle disposizioni testamentarie. Attraverso queste argomentazioni (esposte in estrema sintesi in considerazione degli scopi dell’analisi), piena legittimità viene riconosciuta alle sanzioni di fonte testamentaria.

d) i cosiddetti “legati rinunziativi”

Con l’espressione “legati rinunziativi” si fa riferimento ai legati aventi ad oggetto la rinunzia ad un diritto(24). La disposizione testamentaria costituisce, in questo modo, veicolo (come si vedrà, indiretto o diretto), di dismissione di un diritto, apparendo pertanto esattamente speculare allo schema tipico attributivo del legato di specie.
Il testatore può fare obbligo all’onerato di rinunziare ad un diritto facente parte dell’asse ereditario ovvero ad un diritto proprio: in entrambi i casi, dalla rinunzia deve conseguire un vantaggio patrimoniale diretto per altro soggetto, l’onorato, affinché la fattispecie possa essere ascritta entro l’area dei legati.
Diversi, invero, sono gli esempi formulati in dottrina. Si faccia il caso che la disposizione testamentaria faccia obbligo all’onerato di rinunziare ad una servitù precedentemente costituita a favore di un proprio fondo, con conseguente vantaggio per il titolare del fondo dominante.
Altra ipotesi è quella in cui la rinunzia abbia ad oggetto un diritto di prelazione o di opzione, nonché un termine, favorevole per l’onerato, apposto ad una obbligazione. È, altresì, configurabile un legato con il quale il testatore faccia obbligo all’onerato di ottenere da un soggetto terzo, titolare di un diritto che il testatore intende estinguere, la rinunzia al diritto stesso: la fattispecie è astrattamente configurabile, e sarà valida al ricorrere delle condizioni di cui all’art. 651 c.c. Sul piano effettuale, tutti i casi innanzi richiamati sono riconducibili entro l’area dei legati obbligatori di comportamento negoziale, che impongono all’onerato il compimento di un negozio unilaterale.
Occorre tuttavia domandarsi se sia consentito al testatore porre in essere una disposizione rinunziativa con efficacia immediata al tempo dell’apertura della successione: si faccia il caso in cui Tizio, proprietario del fondo Tusculano a vantaggio del quale è stata costituita servitù di passaggio a carico del fondo Corneliano di proprietà dell’amico Sempronio, intenda nella scheda testamentaria rinunziare a tale diritto. Ebbene, per raggiungere siffatto scopo, sarà necessario porre il relativo obbligo a carico dell’erede (o del legatario cui il fondo si devolverà) oppure è possibile la rinunzia diretta da parte del testatore (cosiddetta rinunzia testamentaria)? La tesi preferibile ritiene ammissibile il legato rinunziativo con efficacia diretta, facendo applicazione in via analogica della normativa sul legato di liberazione da debito (art. 658 c.c.)(25). In caso di “rinunzia diretta”, il legato produrrà un effetto estintivo immediato all’apertura della successione, senza necessità di comunicazione al soggetto passivo del rapporto.

e) la destinazione patrimoniale attuata tramite legato: il trust testamentario

L’area dei legati si rivela, altresì, idonea a disciplinare una vicenda destinatoria di fonte testamentaria. Il pensiero va alla delicata materia del trust testamentario. La costituzione del trust a mezzo del negozio testamentario è espressamente prevista dall’articolo 2 della Convenzione dell’Aja. La vicenda segregativa e destinatoria diviene, in tal caso, parte integrante del programma testamentario; il rinvio alla legge straniera (professo juris), fa sì che convivano due sistemi disciplinari: l’uno, quello della legge straniera, relativo a validità ed interpretazione dell’atto istitutivo di trust, poteri del trustee, valutazione dell’amministrazione fiduciaria; l’altro, quello di diritto interno, teso a regolare validità della scheda testamentaria, capacità del testatore, vizi del volere, tutela di diritti inderogabili quali quelli dei legittimari. La coesistenza delle due discipline presenta elementi di criticità sovente molto accentuati. Sul piano effettuale, il trust testamentario può assumere una duplice fisionomia: il testatore può costituire il trust nello stesso testamento (costituzione diretta, alla quale saranno dedicate le successive considerazioni), ovvero fare obbligo ad eredi o legatari onerati di costituire in trust i beni loro devoluti (costituzione indiretta).
Ebbene, particolarmente problematica si rivela ancora oggi la ricostruzione della disposizione testamentaria che direttamente costituisca un trust, fattispecie che pone in primo luogo un problema di carattere qualificatorio. Appare intuitivo, infatti, come un simile programma presenti elementi di criticità nel confronto con le categorie tradizionali, dovendosi offrire adeguata ricostruzione al ruolo da riconoscere ai soggetti della vicenda trust nella successione del testatore - disponente. La “sequenza trust”, calata in una scheda testamentaria, rende protagonisti del regolamento successorio soggetti (quali il trustee, il beneficiario di reddito, il beneficiario finale), estranei alla nostra cultura giuridica, il cui ruolo deve essere attentamente valutato attraverso il “prisma” delle categorie concettuali del nostro sistema successorio, quali, le figure di erede, legatario, esecutore testamentario(26).
Si consideri, in primo luogo, la posizione del trustee: questi, per effetto della morte del settlor, acquista la titolarità del trust fund, potendo anche conseguire ampia parte dei beni relitti dal de cuius. Si pone il problema di offrire adeguata qualificazione alla disposizione attributiva dei beni al trustee. Una prima ricostruzione dottrinale qualifica il trustee in termini di erede cum onere(27). Si ritiene, infatti, che, in ossequio ai principi generali, colui il quale consegua, per effetto del decesso di una persona, quota parte del suo patrimonio o l’intero suo patrimonio, debba definirsi erede; l’obbligo di gestire il patrimonio, di devolvere le rendite, di trasferire gli stessi beni alla scadenza del trust può essere ascritto al novero delle obbligazioni modali. La ricostruzione in oggetto, tuttavia, solleva dubbi sul piano funzionale. Difatti, attesa la natura accessoria della disposizione modale, qualificare l’attribuzione al trustee in termini di istituzione con clausola modale significa ricostruire nei seguenti termini la progressione attributiva ingenerata dal trust: l’attribuzione al trustee sarebbe negozio principale; l’impiego dei beni come imposto dal settlor costituirebbe disposizione accessoria. Il profilo funzionale della fattispecie che si realizza con il trust è, invece, esattamente opposto: nel programma testamentario, principale è l’attribuzione al beneficiario finale; rispetto ad essa, strumentale e transitoria è l’attribuzione al trustee. Il trust esprime, allora, un disegno funzionale che va oltre la figura del trustee, nei cui confronti il testatore non manifesta alcun intento liberale e non realizza alcuna delazione(28).
Ulteriori elementi, invero, sembrano deporre contro una qualificazione del trustee in termini di erede. La struttura del trust colora causalmente la stessa acquisizione patrimoniale del trustee: questi deve amministrare beni nell’interesse del beneficiario che è destinatario finale degli stessi; entrati nella sfera giuridica del trustee, i beni ne costituiscono massa separata, vanno gestiti secondo le istruzioni impartite dal disponente, alla scadenza vanno trasferiti al beneficiario finale. A ciò si aggiunga che nessuna responsabilità viene dallo stesso assunta, né ultra vires intra vires, per il pagamento dei debiti ereditari. Nella disposizione testamentaria diretta al trustee va letta non già l’offerta di sostanze, ma il conferimento di un incarico gestorio. L’ingresso dei beni nel patrimonio del trustee è mezzo a fine per la realizzazione di un più ampio disegno: quella del trustee è una proprietà conformata, ossia programmaticamente destinata ai beneficiari finali, temporaneamente esercitata nel loro interesse; proprio siffatto interesse, invero, da un lato giustifica, dall’altro limita la proprietà del trustee, costituendo “spina dorsale” della vicenda segregativa. La qualificazione del trustee in termini di erede cum onere si rileva, pertanto, inidonea a cogliere la vicenda destinatoria e segregativa che così si realizza, rischiando di travisare la stessa causa del programma negoziale divisato dal testatore. Non c’è delazione, né a titolo di erede né a titolo di legato: l’attribuzione al trustee non è animata da logiche del diritto successorio; essa, invece, è prodromica ad altra attribuzione, in favore del beneficiario finale. La vicenda segregativa e finalisticamente vincolata è il prius rispetto all’attribuzione mortis causa, che si dirige in direzione dei beneficiari finali.
È su queste basi che in dottrina è stata proposta una lettura dell’attribuzione al trustee in grado di valorizzarne proprio le peculiarità funzionali. Si è parlato di un nuovo genus di disposizione testamentaria.
Nel disegno del testatore, è il beneficiario finale ad essere destinatario di una attribuzione patrimoniale. In dottrina si è parlato di delazione sospesa a suo favore: sospesa, e non semplicemente differita, in quanto essa risentirà necessariamente, nella sua entità, dei risultati della gestione fiduciaria del trustee(29). Indubbiamente, l’attribuzione del trust fund (quale risultante dalla gestione del trustee) è vivificata da un intento liberale da parte del disponente. In caso di trust inter vivos a scopi liberali, la comune opinione qualifica tale attribuzione “finale” in termini di donazione indiretta. Nel caso di trust testamentario, la difficoltà ricostruttiva nasce dal dato per il quale, per volontà del testatore, un soggetto riceve sostanze da un patrimonio che non è del de cuius, ma di un terzo soggetto, il trustee, la cui gestione avrà, peraltro, reso quelle sostanze di regola diverse (sul piano quantitativo o qualitativo) da quelle “uscite” dal patrimonio del testatore. L’attribuzione del trust fund viene, pertanto, “deviata” dalla connotazione triangolare del trust, di talché, sul piano tecnico giuridico, il beneficiario finale è avente causa dal trustee. Le considerazioni innanzi espresse escludono, invero, che il beneficiario finale possa essere qualificato erede, quand’anche egli consegua, per effetto della disposizione testamentaria, una quota del patrimonio del testatore. A testimonianza di ciò, egli non risponde delle passività ereditarie, né il suo acquisto ha alcuna capacità espansiva.
L’estrema elasticità dell’area dei legati può indurre a ritenere che il beneficiario sia legatario. Trattasi, invero, di disposizione che non realizza recta via una attribuzione dal disponente al beneficiario finale; è un legato il cui profilo effettuale necessita della cooperazione del trustee. In argomento, sia consentito sottolineare come, quanto meno nella configurazione più usuale del trust, il beneficiario alla scadenza non consegue automaticamente la titolarità del trust fund, necessitando a tal fine un atto traslativo solutionis causa da parte del trustee. Evocando categorie più vicine alla nostra cultura giuridica, può dirsi che il trust non instaura, per il beneficiario, una vicenda ad effetti reali differiti, bensì una fattispecie obbligatoria. Appare congruo, allora, qualificare la delazione sospesa al beneficiario finale in termini di legato di comportamento negoziale. Per effetto della disposizione testamentaria, il beneficiario consegue il diritto a che il trustee ponga in essere l’atto di adempimento traslativo. Applicando le categorie del nostro diritto successorio, va sottolineato come onerato di siffatto sia l’erede, su cui grava il peso economico dell’attribuzione, giacché, in forza di essa, egli perde il diritto a conseguire i beni costituiti in trust. Resta, tuttavia, fermo il principio, proprio dei trusts, per il quale il beneficiario abbia azione diretta verso il trustee per il conseguimento del trust fund, nella sua connotazione originaria ovvero nelle trasformazioni che esso subisce per effetto della gestione del trustee (tracing).
Alla categoria dei legati può rivolgersi la nostra attenzione anche nel tentativo di offrire una compiuta qualificazione all’acquisto dei beneficiari di reddito: trattasi di un legato di credito, strutturalmente autonomo.
In conclusione, può affermarsi che dalla vicenda trust di fonte testamentaria sorgano, di regola, tre attribuzioni patrimoniali: l’una, strumentale, in direzione del trustee, che trova titolo unicamente nel trust; le altre, jure successionis, in direzione di beneficiario di reddito e beneficiario finale: in entrambi i casi, appare congrua la ricostruzione in termini di legato obbligatorio.


(1) D. RUSSO, La diseredazione, Torino, 1998, p. 142.

(2) A. PINO, L’esclusione testamentaria dalla successione legittima, Roma, 1955, p. 24 e ss.

(3) L. MENGONI, Successioni per causa di morte, Milano, 1999, p. 23. Cfr anche E. BRUNORI, «Appunti sulle disposizioni testamentarie modali e sul legato », in Riv. dir. civ., 1961, I, p. 472, ove si legge che contro l’autonomia strutturale del modo depone «l’impossibilità, direi istituzionale, di creare un tertium genus, oltre le due, che poi sono le uniche, varietà di disposizioni testamentarie (l’istituzione, appunto, di erede ed il legato). L’art. 588 c.c., seguendo una ininterrotta tradizione, recepisce tale summa divisio con termini che, a mio sommesso avviso, non ammettono dubbi o perplessità».

(4) Cass. 20 giugno 1967, n. 1458, in Giust. civ., 1967, I, 2032; in Foro it., 1968, I, c. 574; in Foro pad., 1967, I, c. 943.

(5) Nella pronunzia in commento, i giudici di legittimità definiscono “inattendibili” gli esempi, di matrice codicistica, proposti in taluni ambienti dottrinali onde dimostrare l’esistenza di disposizioni testamentarie con cui il de cuius regolerebbe taluni profili della vicenda successoria senza tuttavia assegnare sostanze ereditarie. Così, la possibilità di inserire nella scheda testamentaria disposizioni per la divisione dell’asse ereditario, contemplata dall’articolo 733 c.c., viene ritenuta inconferente, fonte di un «equivoco evidentissimo, in quanto anche qui il testatore non regola puramente e semplicemente la sorte del suo patrimonio, ma lo attribuisce positivamente ... quando detta norme per la divisione, il testatore, in sostanza, compie una disposizione attributiva, attribuisce cioè i suoi beni in quel determinato modo e con quelle determinate modalità ai soggetti indicati». Né argomenti di segno contrario possono trarsi, secondo i giudici di legittimità, dalle norme dettate in materia di onere testamentario (art. 647 c.c.), di esclusione o limitazione dell’azione di riduzione (articolo 558 comma 2 c.c.), ovvero dalla norma che attribuisce al testatore la possibilità di accollare ad uno o più eredi debiti in proporzione maggiore della propria quota (art. 752 c.c.), o dalla dispensa testamentaria da collazione (prevista dall’art. 737 c.c.): «basta leggere le singole norme per vedere come, in tutti questi casi, si è in presenza di disposizioni accessorie e contenenti modalità di esecuzione della disposizione principale attributiva».

(6) Si pensi, in particolare, a A. CICU, Successione legittima e dei legittimari, Milano, 1943, p. 144 e ss.; P. RESCIGNO, L’interpretazione del testamento, Napoli, 1952, p. 148 e ss.; L. BARASSI, Le successioni per causa di morte, Milano, 1944, p. 49 e ss.; F. SANTORO PASSARELLI, «Vocazione legale e vocazione testamentaria», in Riv. dir. civ., 1942, p. 197.

(7) Coerentemente a tali premesse, si ritenne altresì di dover riconoscere alle norme sulla successione legittima carattere dispositivo e non meramente suppletivo.

(8) Così, testualmente, M. BIN, La diseredazione, Contributo allo studio del contenuto del testamento, Torino, 1966, p. 75.

(9) L’asserita preminenza della vocatio ex lege su quella testamentaria ha condotto ad una particolare interpretazione di numerose norme di diritto positivo. Così, si ritiene, sulla base della particolare interpretazione dell’ art. 457 comma 2, che al testamento non sia applicabile il principio di conservazione del negozio giuridico, posto dall’ art. 1367 c.c. in materia di contratti; che, in caso di istituzione testamentaria di tutti i successibili ex lege nelle medesime quote previste per la successione legittima, si apra per tutti la successione legittima e non quella testamentaria poiché la prima assorbe la seconda. In tal senso si sono espressi diversi Autori le cui posizioni vanno ascritte all’orientamento dottrinale illustrato nel testo, tra i quali, R. NICOLÒ, La vocazione ereditaria diretta e indiretta, Messina, 1934, p. 32; F. SANTORO-PASSARELLI, op. cit., p. 202; L. CARIOTA- FERRARA, Le successioni per causa di morte, vol. I, Parte generale, Napoli, 1977, p. 63.

(10) Ad essere precisi, anche in tal caso non è corretto ravvisare la ratio delle norme dettate dal legislatore nella tutela della famiglia quale istituto di rilevanza sociale: scopo delle norme in materia di legittimari è, invece, quello di dare protezione all’ interesse successorio dei singoli membri del gruppo familiare strettamente inteso. Laddove le norme sui legittimari trovassero fondamento nella tutela della famiglia, sarebbe invero difficile spiegare perché il figlio, che esca dall’originario nucleo familiare creando una nuova famiglia, mantenga il titolo di legittimario.

(11) In tal senso, D. BARBERO, Sistema del diritto privato italiano, II, Torino, 1962, p. 1101 e 1102; M. BIN, op. cit., p. 118; L. CARRARO, La vocazione legale alla successione, Padova, 1979, p. 12 e ss.; D. RUSSO, op. cit., p. 40 e ss. G. AZZARITI, Successioni e donazioni, Napoli, 1990, p. 335 e ss., sottolinea che «il fondamento razionale della successione legittima va ravvisato nel bisogno di supplire alla mancata o incompleta volontà del de cuius» e che «né la tesi dell’esistenza di un dovere etico, che il de cuius avrebbe, di provvedere anche dopo la sua morte al bisogno dei propri congiunti né la tesi della tutela della famiglia come istituto di interesse sociale sono di per sé sufficienti a spiegare il fondamento razionale della successione ab intestato».

(12) Al riguardo, si fa rinvio alle pagine di R. NICOLÒ, voce Attribuzione patrimoniale, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, p. 283 e ss.

(13) G. CRISCUOLI, Le obbligazioni testamentarie, II ed., Milano, 1980, p. 203: «l’articolo 588, per quel che ci riguarda, non ha funzione normativa, e quindi, sul piano sistematico, non è impegnativo per l’interprete, dato che dalle altre norme del codice civile deriva chiaramente che istituzione di erede e legato non esauriscono il contenuto aggettivo del testamento». A riprova di ciò, l’Autore nota come «l’articolo 588 c.c., considerato in stretta relazione con il precedente articolo 587 c.c., è incompleto per quanto concerne le previsioni del legato obbligatorio, in quanto nello stesso articolo si considera legatario esclusivamente il beneficiario di una disposizione testamentaria avente per oggetto sostanze, cioè beni del testatore».

(14) M. NARDOZZA, «Idee vecchie e nuove sul modus testamentario», in Giust. civ., 1994, I, p. 1706.

(15) Tra le obbligazioni di “non fare”, possono essere proposti i casi di legato avente ad oggetto l’obbligo di non fare concorrenza o il legato avente ad oggetto l’obbligo di non pretendere una prestazione per un certo tempo (riproponendo, così, sul piano testamentario, il profilo effettuale normalmente ascrivibile al pactum de non petendo).

(16) G. BONILINI, I legati, in Comm. cod. civ., fondato da Schlesinger e continuato da Busnelli, 2001, p. 127: «Il legato di contratto comporta che l’onerato concluda con il beneficiario l’accordo contrattuale divisato nella scheda. L’onorato, in altri termini, vanta verso il soggetto gravato, un credito, di cui l’ordinamento assicura l’esecuzione». Cfr, F. BALDISSARA, «Il legato di contratto», in Vita not., 2007 p. 418.

(17) Sia consentito rinviare a C. ROMANO, I legati, in Diritto delle successioni, a cura di R. Calvo e G. Perlingieri, volume II, p. 1098.

(18) F. PADOVINI, Rapporto contrattuale e successione per causa di morte, Milano 1990, p. 115 e ss.

(19) F. GRADASSI, «Clausole testamentarie in tema di legato di posizione contrattuale», in Notariato, 1999, p. 43; sul punto cfr. anche l’analisi di C.M. BIANCA, Diritto civile, 2, p. 608.

(20) Sia consentito rinviare, sul punto, a C. ROMANO, I legati, cit., p. 1241.

(21) Per tutti, C.M. BIANCA, Diritto civile, IV, L’obbligazione, Milano 1993, p. 431 e ss.; C. GRASSETTI, Datio in solutum (diritto civile), in Noviss. Dig. it., V, Torino, 1970, p. 174 e ss.; S. RODOTÀ, Dazione in pagamento (diritto civile), in Enc. dir., XI, Milano, 1962, p. 734 e ss.

(22) Sul punto, N. DI MAURO, op. cit., p. 822; P. PERLINGIERI, Dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento, in Comm. Scialoja Branca, 1975, p. 193 e ss., G. BONILINI, I legati, cit., p. 283 e ss.

(23) In argomento, M. ANDREOLI, «Le disposizioni testamentarie a titolo di pena», in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1949, p. 331 e ss.; V. CANDIAN, La funzione sanzionatoria nel testamento, Milano 1988, p. 3 e ss.; A. MARINI, La clausola penale, Napoli, 1984, p. 93. In giurisprudenza, Cass. 18 novembre 1991, n. 12340, in Nuova giur. civ. comm., 1993. I, p. 481, secondo cui «la disposizione testamentaria a carattere sanzionatorio (o poenae nomine) diretta ad esercitare una pressione psicologica sul beneficiario al fine di indurlo a compiere, se vuole conseguireil beneficio, quanto richiestogli dal testatore, ha lo stesso trattamento delle della disposizione condizionale, soggetta all’unico limite incidente sulla loro volontà di non essere impossibili o illecite».

(24) G. BONILINI, Autonomia testamentaria e legato, Milano, 1990, p. 110.

(25) Cfr. G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, II, Milano, 2015, p. 669.

(26) Sia consentito rinviare, per un’analisi del tema, a C. ROMANO, Il trust e l’atto di destinazione testamentario, in S. BARTOLI - D. MURITANO - C. ROMANO, Trust e atto di destinazione nelle successioni e donazioni, Milano, 2014, p. 171 e ss.

(27) Cfr. M. LUPOI, Trusts, II ed., Milano, 2004, p. 630 e ss.; E. CORSO, «Il caso di un trust testamentario e le implicazioni di diritto tavolare», in Trust att. fid., 2000, p. 277.

(28) S. BARTOLI, «La natura dell’attribuzione mortis causa al trustee di un trust testamentario», in Trust att. fid., 2004, 2, p. 178 e ss.

(29) A. DE DONATO, Il trust nel sistema successorio, in Il trust nell’ordinamento giuridico italiano, in Quaderni del notariato, Milano, 2002, p. 103.

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