L’interpretazione delle disposizioni testamentarie: aspetti problematici
L’interpretazione delle disposizioni testamentarie: aspetti problematici
di Roberto Triola
Già Presidente di sezione della Corte di Cassazione
Il problema della individuazione del testamento
Secondo la S.C. non esiste testamento se l’autore dello scritto non abbia manifestato una precisa e attuale intenzione di disporre dei propri beni(1), atteso che perché si abbia una disposizione di ultima volontà e quindi esista un negozio mortis causa è necessario che lo scritto contenga la manifestazione di una volontà definitiva dell’autore, nel senso che essa si sia compiutamente ed incondizionatamente formata e manifestata e sia diretta a disporre attualmente, in tutto o in parte, dei propri beni per il tempo successivo alla morte(2).
La questione è stata approfondita da una recente decisione, che ha affermato che ai fini della configurabilità di una scrittura privata come testamento olografo non è sufficiente il riscontro dei requisiti di forma individuati dall’art. 602 c.c., occorrendo, altresì, l’accertamento dell’oggettiva riconoscibilità nella scrittura della volontà attuale del suo autore di compiere non già un mero progetto, ma un atto di disposizione del proprio patrimonio per il tempo successivo al suo decesso. Tale accertamento, che costituisce un prius logico rispetto alla stessa interpretazione della volontà testamentaria, è rimesso al giudice del merito e, se congruamente e logicamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità(3). La S.C. ha rilevato come problema distinto da quello della necessità di formule sacramentali quale requisito di validità del testamento sia quello della esigenza della riscontrabilità di una volontà testamentaria validamente espressa in un atto il quale abbia i requisiti formali di un testamento olografo. A tale quesito deve darsi risposta affermativa, poiché, proprio in considerazione della serietà dell’atto e delle sue conseguenze giuridiche, vanno individuati requisiti minimi di riconoscibilità oggettiva nell’atto di cui si tratta di un negozio mortis causa, che valgano, ad esempio, a distinguerlo da una donazione, o da un riconoscimento di debito, etc. Si versa, qui, in un campo che rappresenta un prius logico rispetto alla stessa interpretazione della volontà testamentaria. E, dunque, non v’è luogo a discettare sull’applicabilità o meno dell’art. 1367 c.c., peraltro generalmente riconosciuta. Infatti, il problema della configurabilità oggettiva di una volontà testamentaria nelle espressioni adottate nella scrittura da esaminare prescinde anche dall’effettivo intento dell’autore della scrittura. In altri termini, una volontà che non sia sostenuta da una espressione oggettivamente idonea, sulla base di sia pure minimali frecce semantiche, a rappresentare l’intento attuale di disporre del proprio patrimonio per il tempo in cui si sarà cessato di vivere, e non già un mero progetto, non può assumere rilevanza giuridica.
In dottrina, inoltre, il c.d. formalismo testamentario è stato giustificato in base alla considerazione che il testamento costituisce atto di particolare gravità, perché destinato a valere post mortem e in quanto contiene precetti rivolti a persone diverse dal suo autore, non essendo più in vita il disponente nel momento in cui le regole da lui dettate avranno esecuzione: si deve, perciò, essere certi che esse corrispondano al suo obiettivo volere, poiché soltanto sul presupposto di tale garanzia il legislatore è disposto a riconoscerne il carattere vincolante post mortem.
Nello stesso ordine di idee si è ritenuto che non sia sufficiente la manifestazione di una intenzione o di un desiderio.
A tale orientamento si è rifatta una recentissima sentenza la quale si è occupata del problema se una scrittura privata avente tutti i requisiti formali di un testamento nella quale l’autore si era limitato a dichiarare che una determinata persona era sua figlia “a tutti gli effetti”, contenesse il riconoscimento di un figlio naturale in un testamento ai sensi dell’art. 587, secondo comma, c.c., il quale stabilisce che le disposizioni di carattere non patrimoniale, che la legge consente siano contenute in un testamento (quale, ad esempio, il riconoscimento ex art. 254 c.c., i cui effetti si producono alla morte del testatore: art. 256 c.c.) hanno efficacia, se contenute in un atto che abbia la forma del testamento, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale(4).
Ha osservato la S.C. che la possibilità che il testamento esaurisca il suo contenuto in disposizioni di carattere non patrimoniale impone comunque che sia ravvisabile un “testamento in senso formale”, rivelante la funzione tipica del negozio testamentario. Tale funzione consiste nell’esercizio da parte dell’autore del proprio generale potere di disposizione mortis causa. Perché sia individuabile un testamento in senso formale, quindi, occorre rinvenire il proprium dell’atto di ultima volontà, nel senso che l’atto esprima un’intenzione negoziale destinata a produrre i suoi effetti dopo la morte del disponente. Il testamento, infatti, rappresenta l’unico tipo negoziale con il quale taluno può disporre dei propri interessi per il tempo della sua morte. Non è esclusa, quindi, l’esistenza del testamento, qualora esso contenga soltanto disposizioni di carattere non patrimoniale, ma requisiti irrinunciabili sono la formalità e la solennità dell’atto al fine di garantire la libertà di testare, la certezza e la serietà della manifestazione di volontà del suo autore e la sicura determinazione del contenuto delle singole disposizioni. A questo scopo la legge richiede ad substantiam che il testamento, seppur a contenuto soltanto non patrimoniale, venga redatto in una delle forme espressamente stabilite (art. 601 e ss. c.c.). Affinchè la dichiarazione di riconoscimento di un figlio nato al di fuori del matrimonio possa, pertanto, intendersi inserita in un testamento, del quale pure esaurisca il contenuto, giacchè l’atto risulta sprovvisto di disposizioni di carattere patrimoniale, occorre che esso riveli la sua natura di atto mortis causa («per il tempo in cui avrà cessato di vivere»), nel senso che la morte sia assunta dal dichiarante come punto di origine (ovvero, appunto, come causa) del complessivo effetto del regolamento dettato con riguardo a tale situazione rilevante giuridicamente. Se è quindi corretto assumere che l’art. 587 c.c. non postula la necessaria «patrimonialità» di tipo dispositivo-attributivo, ovvero il necessario riferimento ai «beni» del testatore, il testamento non può non consistere in un atto di «regolamento» mortis causa degli interessi del testatore, allorchè tali disposizioni non patrimoniali evidenziano, comunque, la fisionomica essenziale inefficacia sino al momento della morte del testatore. Non sembra, invece, avere fatto applicazione corretta di tali principi la decisione(5) la quale premesso che affinché un atto costituisca manifestazione di ultima volontà, riconducibile ai negozi mortis causa, non è necessario che il dichiarante faccia espresso riferimento alla sua morte ed all’intento di disporre dei suoi beni dopo la sua scomparsa, essendo sufficiente che lo scritto sia espressione di una volontà definitiva dell’autore, compiutamente e incondizionatamente manifestata allo scopo di disporre attualmente dei suoi beni, in tutto o in parte, per il tempo successivo alla propria morte, ha confermato la sentenza di merito che aveva qualificato come testamento olografo un biglietto autografo del de cuius sottoscritto “per vidimazione” dal beneficiario e da due testimoni, del seguente tenore «Cualbu antonio fu di Fonni Pietro, avendo una proprietà nel salto Decimoputzu e Vallermosa, espone il Cualbu Antonio che questi terreni siano a conto di Cualbu Salvatore di Antonio autorizzato dal padre di essere padrone assoluto e nessuno faccia osservazione di quanto è dichiarato e scritto. Prego che nessuno faccia osservazione a questo biglietto essendo scritto di sua propria mano».
La diseredazione
Il problema della validità di un testamento il quale contenga la sola diseredazione dei successibili ha affaticato la dottrina sia sotto il codice 1865 che sotto il codice vigente.
Sotto il codice vigente la prima decisione della S.C. intervenuta in materia(6) ha affermato che nella diseredazione il testatore non nomina l’erede, ma dichiara di volere escludere dalla successione quella persona che altrimenti gli succederebbe per legge. Mancando il fatto costitutivo (designazione dell’erede testamentario) rimane solo l’alternativa della successione legittima della quale, per effetto della diseredazione, sono eliminati gli effetti.
Successivamente la giurisprudenza si è occupata cinque volte della diseredazione. Due di queste decisioni non hanno rilevanza.
La prima ha affermato un principio di evidente esattezza e cioè che non si ha diseredazione - da intendere quale (invalida) esclusione dalla successione di persone che sarebbero state chiamate alla successione legittima, attuata mediante designazioni negative - e non si ha perciò nullità del testamento quando il testatore pervenga all’esclusione delle dette persone attraverso disposizioni positive dei suoi beni(7).
La seconda decisione ha affermato che la volontà di diseredazione di alcuni successibili può valere a fare riconoscere una contestuale volontà di istituzione di tutti gli altri successibili non diseredati solo quando, dallo stesso tenore della manifestazione di volontà o dal tenore complessivo dell’atto che la contiene, risulti la effettiva esistenza della anzidetta autonoma positiva volontà del dichiarante, con la conseguenza che solo in tal caso è consentito ricercare, anche attraverso elementi esterni e diversi dallo scritto contenente la dichiarazione di diseredazione, l’effettivo contenuto della volontà di istituzione. Pertanto, ove il giudice del merito nell’interpretazione dello scritto ritenga inesistente una tale volontà, correttamente lo stesso non ammette la prova diretta al fine di dimostrare la volontà del de cuius di disporre dei propri beni a favore di alcuni soggetti, in quanto con tale prova si mira non già ad identificare la volontà testamentaria contenuta, esplicitamente o implicitamente, nella scheda, ma alla creazione di una siffatta volontà(8).
Le due decisioni meno recenti le quali, invece, si sono occupate della questione(9) hanno subito l’influenza dell’orientamento dottrinale che ha ritenuto(10) che, escluso che possa attribuirsi validità alla diseredazione di un successibile per legge, una ulteriore questione si pone: se con la dichiarazione di diseredazione di un successibile possa indirettamente o implicitamente esprimersi la volontà di disporre dei beni in favore degli altri congiunti successibili per legge. In altri termini la dichiarazione “diseredo mio fratello A” è nulla e non vale perciò ad escludere il fratello A dalla successione legittima. Ma varrebbe essa, supposto che il testatore abbia al momento della morte due fratelli A e B - di per se stessa - a designare come erede testamentario il fratello B ove dall’impiego dei canoni di ermeneutica risulti che l’intenzione che il testatore perseguiva con la dichiarazione di diseredazione di A era quella di lasciare tutto (o parte) a B? Alla risposta negativa basata sulla considerazione che un elemento essenziale del testamento, quale la designazione della persona o delle persone destinatarie della vocazione non si è tradotto nel contenuto della dichiarazione documentata nella forma testamentaria, si può replicare che la solennità formale non implica l’impiego di formule sacramentali o tipiche o dirette; è sufficiente che il documento contenga espressioni sufficienti dalle quali attraverso l’interpretazione risulti la volontà del testatore.
Le decisioni che hanno aderito a tale orientamento hanno confermato le sentenze di merito che avevano ritenuto che nei casi sottoposti al loro esame fosse desumibile in via interpretativa una intenzione di istituire eredi i successibili non diseredati. Dell’esame delle motivazioni emerge, però, evidente il tentativo di evitare che, sulla premessa che un documento il quale contenga la sola diseredazione di un successibile non costituisce un testamento, il diseredato verrebbe alla successione in virtù delle norme in tema di successione legittima, contro la volontà del testatore, concorrendo con gli altri successibili, o addirittura escludendoli in virtù del suo grado di parentela più prossimo.
Per giungere a tale conclusione, però, non sembra che era necessario compiere le acrobazie argomentative avallate dalla S.C.
Sarebbe stato molto più semplice considerare che in ogni caso di diseredazione di un successibile il testatore dirige la sua successione in favore degli altri successibili e quindi dispone del suo patrimonio per testamento, come richiesto dall’art. 587 c.c.
Recentemente la S.C. ha cambiato radicalmente orientamento affermando che è valida la clausola del testamento con la quale il testatore manifesti la volontà destitutiva - che può includersi nel “disporre”, di cui all’art. 587, primo comma, c.c. - diretta ad escludere dalla propria successione legittima alcuni dei successibili ed a restringerla così ai non diseredati, costituendo detta clausola di diseredazione espressione di un regolamento di rapporti patrimoniali, rientrante nel contenuto tipico dell’atto di ultima volontà e volta ad indirizzare la concreta destinazione post mortem delle proprie sostanze, senza che per diseredare sia, quindi, necessario procedere ad una positiva attribuzione di bene, né occorra prova di un’implicita istituzione(11).
Tale decisione ha osservato che la soluzione accolta in precedenza contiene in sé una sostanziale contraddizione. Da un lato, infatti, si predica la assoluta invalidità di una clausola meramente negativa, ove la stessa non sia accompagnata ad altre che contengono disposizioni attributive, ancorchè tali da non esaurire l’intero asse ereditario; dall’altro, se ne riconosce la validità anche nel caso in cui costituisca l’unica disposizione contenuta in una scheda testamentaria, a condizione però che sia possibile ricavare sia in modo diretto ed esplicito, sia in modo indiretto ed implicito, la inequivocabile volontà del testatore, oltre che di diseredare un determinato successibile, di attribuire le proprie sostanze ad un determinato altro.
In sostanza il problema non si pone nel caso in cui il de cuius, oltre a diseredare un successibile, dispone dei suoi beni in favore di determinati beneficiati, in quanto in tal caso la diseredazione serve soltanto ad indicare il motivo per cui il diseredato che vantava aspettative in base alla successione legittima venga, invece, escluso da tale successione.
Il problema ha ragione di porsi, invece, nel caso in cui il testatore si limiti a diseredare un successibile. La soluzione, però, non dipende dalla ricerca di una implicita volontà del testatore di beneficiare soggetti diversi dal diseredato, ma dalla risposta ad un quesito a monte e cioè se per disporre delle proprie sostanze, secondo la previsione dell’art. 587, primo comma c.c. il testatore deve indicare nominativamente o meno i soggetti cui tali sostanze devono pervenire.
Se si dovesse dare risposta positiva a tale quesito il testamento con il quale il testatore si limiti a diseredare un successibile sarebbe nullo per mancanza di un requisito formale e quindi non sarebbe consentita la ricerca di una volontà implicita di beneficiare altri soggetti non nominativamente indicati, anche se indirettamente individuabili.
Se si dovesse dare risposta negativa al quesito il de cuius limitandosi a diseredare un successibile verrebbe a disporre delle sue sostanze, in quanto sottraendo il diseredato dal quadro dei successibili, indirizza la concreta destinazione del proprio patrimonio il favore degli altri successibili, per cui non vi è bisogno della ricerca e della prova di una specifica volontà in tal senso, a prescindere dalla difficoltà di individuare gli elementi su cui fondare la prova in questione.
La distinzione tra erede e legatario
Il problema interpretativo relativo alla distinzione tra erede e legatario nasce dalla stessa formulazione dell’art. 588 c.c., che, dopo avere stabilito al primo comma che le disposizioni testamentarie, qualunque sia l’espressione o la denominazione usata dal testatore, sono a titolo universale e attribuiscono la qualità di erede se comprendono l’universalità o una quota dei beni del testatore, aggiunge al secondo comma che la indicazione di beni determinati o di un complesso di beni non esclude che la disposizione sia a titolo universale, quando risulta che il testatore ha inteso assegnare quei beni come quota del patrimonio.
In primo luogo si può osservare che qualsiasi bene rappresenta una frazione matematica del patrimonio del testatore. In secondo luogo in linea di principio il testatore disponendo di beni determinati persegue semplicemente un risultato pratico, senza neppure prospettarsi se in tal modo nomina erede o legatario il beneficiario. In terzo luogo è difficile individuare gli elementi i quali consentono di desumere che il testatore ha considerato beni determinati come quota del suo patrimonio.
La giurisprudenza non ha offerto un grande contributo alla soluzione di tale problema.
Le “massime” di alcune decisioni sono semplicemente banali, in quanto si limitano a ripetere il disposto dell’art. 588, secondo comma, c.c., affermando che in tema di distinzione tra erede e legatario l’assegnazione di beni determinati configura una successione a titolo universale (institutio ex re certa) qualora il testatore abbia inteso chiamare l’istituito nell’universalità dei beni o in una quota del patrimonio relitto, mentre deve interpretarsi come legato se egli abbia voluto attribuire singoli, individuati, beni(12).
Lo stesso si può dire per la sentenza per la quale l’institutio ex re certa non determina necessariamente la successione al testatore a titolo di legato, dovendo il giudice del merito accertare se in tal modo il de cuius ha inteso attribuire una quota del suo patrimonio unitariamente considerato, sì che la successione in esso è a titolo universale, o se invece l’individuazione di singoli beni, pesi ed oneri, esclude l’istituzione nell’universum ius(13), come per le sentenze le quali hanno affermato che l’assegnazione di beni determinati da parte del testatore può essere interpretata come disposizione a titolo universale, in base al modo di attribuzione dei beni ed alle espressioni all’uopo adoperate dal testatore, ma solo se dopo attento esame di tutto il complesso delle disposizioni testamentarie resti accertata l’intenzione del testatore di considerare i beni assegnati come una quota della universalità del suo patrimonio(14), oppure che per quota di beni, il cui lascito importa istituzione di erede, si deve intendere una parte astratta, ideale, e più precisamente una frazione dell’universalità del patrimonio, determinata dal testatore espressamente o tacitamente(15).
Non è addirittura chiaro il pensiero delle sentenze le quali hanno affermato che ove, nonostante l’assegnazione di beni determinati, segua una chiamata diretta del beneficiario a succedere in quota del patrimonio, non sussiste l’istituzione di erede ex re certa, ma l’ipotesi di eredità, a prescindere ogni ulteriore indagine sull’intento dell’assegnazione(16) oppure che l’assegnazione, da parte del testatore, di uno o più beni determinati non costituisce istituzione di erede ex re certa, secondo la previsione di cui al secondo comma dell’art. 588 c.c., ove la qualità di erede discenda non da quella attribuzione, ma direttamente dalla chiamata del beneficiario a succedere in quota del patrimonio(17).
Correttamente si è ritenuto che se la qualifica di erede nella scheda testamentaria non è sufficiente da sola ad attribuire al lascito il carattere di disposizione a titolo universale, nulla vieta che il giudice tenga conto della designazione di erede come di un elemento che, insieme ad altre circostanze, serve a rafforzare la sua convinzione in ordine alla volontà del testatore, specialmente quando il grado di cultura di questi faccia presumere che egli avesse rappresentazione precisa del significato delle parole(18).
Ugualmente sono da condividere le decisioni secondo le quali, quando l’attribuzione di quota del patrimonio, ancorchè individuata quanto al suo aspetto materiale nei componenti, avviene per classi o gruppi di beni (come, ad es., tutti i mobili o tutti gli immobili, e/o quote di essi), è da ritenere, se altri elementi estrinseci della scheda non depongano chiaramente in contrario, che l’attribuzione stessa abbia luogo a titolo universale, onde il beneficiario acquista la qualità di erede e non già quella di legatario(19) o che quando il testatore ha lasciato a tutti i suoi figli, in quote uguali, un immobile il cui valore comprende per la quasi totalità il valore del compendio ereditario, i figli debbono considerarsi eredi, e non legatari(20) oppure ancora che la disposizione con la quale il testatore esaurisce il patrimonio ereditario, attribuendo tutti i beni mobili ad un chiamato e tutti i beni immobili ad un altro, non esclude di per sé la correlativa istituzione di erede, in quanto non è avulsa dal concetto di quota richiamato dall’art. 588 c.c., comportandone la non difficile determinazione mediante il raffronto dei beni con l’intero patrimonio, né eventualmente trova ostacolo nell’essere una delle attribuzioni in nuda proprietà, non essendo questa un diritto parziario rispetto alla proprietà piena, ma lo stesso diritto di proprietà temporaneamente compresso e destinato a riacquistare la sua naturale espansione alla fine dell’usufrutto(21).
Quando la S.C. ha affrontato il problema della attività che il giudice di merito deve compiere al fine di distinguere tra disposizioni testamentarie a titolo universale e disposizioni a titolo particolare ha affermato che il giudice deve compiere sia una indagine di carattere oggettivo riferita al contenuto dell’atto sia un’indagine di carattere soggettivo riferita all’intenzione del testatore(22), precisando in modo del tutto superfluo che questa ultima indagine deve tendere ad accertare il processo formativo della volontà del testatore anteriormente alla sua manifestazione(23).
In modo altrettanto superfluo si è precisato che l’indagine di carattere obiettivo circa il contenuto dell’atto, nel senso della attribuzione della universalità dei beni o di una quota aritmetica di essi oppure dell’attribuzione di un bene o di un complesso di beni determinati, e di carattere soggettivo sulla intenzione del testatore, deve essere più completa e penetrante di quella necessaria quando invece il testatore detta le disposizioni con riferimento alla quantità indeterminata dei suoi beni(24).
Infine la S.C. ha costantemente affermato che l’indagine diretta ad accertare se ricorra l’una o l’altra ipotesi si risolve in un apprezzamento di fatto, riservato ai giudici del merito e, quindi, incensurabile in cassazione, se congruamente motivato(25).
Se però, si esaminano le ipotesi con riferimento alle quali tale principio è stato applicato con conferma della decisione di merito, non sembra che la motivazione fosse congrua in relazione quello era l’accertamento da compiere e cioè se dal testamento risultava positivamente che il testatore aveva inteso assegnare beni determinati come quota del patrimonio.
Così è stata confermata la sentenza di merito che aveva preso atto della attribuzione da parte del de cuius alla moglie della intera proprietà di un appartamento e dell’usufrutto degli altri suoi beni immobili e ai suoi fratelli della nuda proprietà di tali immobili evidenziando che il patrimonio destinato alla moglie era stato lasciato “in donazione”, mentre i fratelli erano stati esplicitamente definiti eredi, per cui il lascito in favore della moglie non poteva essere interpretato come una istituzione di erede neppure sotto il profilo di una institutio in re certa(26).
È stata ugualmente confermata la sentenza di merito che sulla base dell’esame globale della scheda testamentaria aveva individuato la volontà del testatore di attribuire ai soggetti istituiti beni singolarmente determinati, intesi però, come quota della universalità del patrimonio dello stesso disponente ed aveva conseguentemente ritenuto attributive della qualità di erede le disposizioni testamentarie considerate, senza che a ciò ostasse la elencazione nella scheda testamentaria di “pesi ed oneri” posti a carico di un solo istituito, non essendo gli stessi esaustivi delle passività inerenti al patrimonio ereditario(27).
Con riferimento ad un testamento con il quale il de cuius aveva disposto in favore della moglie dei «suoi diritti di qualunque genere e natura, senza eccezione alcuna», che vantava nei confronti di un terzo, la S.C. ha ritenuto corretta la pronuncia del giudice di merito per il quale il testatore aveva istituito erede e non legataria la moglie perché: a) nel testamento pubblico era stata usata la parola “lascio” e non “lego”; b) era da considerare che il notaio nella traduzione iscritto delle disposizioni testamentarie aveva effettuato un preventivo accertamento della volontà del testatore; c) l’oggetto della disposizione era costituito da un complesso di beni economicamente rilevante comprendente unità eterogenee(28).
Sulla premessa che il giudice deve tenere di mira la ricerca della volontà del testatore ed interpretare a tale fine le clausole singolarmente e nel loro insieme si è ritenuto, del tutto genericamente, che nella specie il giudice di merito aveva seguito i principi in questione, esaminando le clausole testamentarie nel loro complesso, anzitutto, e poi, singolarmente, traendone con logica, non contraddittoria e congrua motivazione, il convincimento che si era in presenza di legati(29).
Infine, altrettanto genericamente, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto che i convenuti per il pagamento di un debito erano eredi e non legatari, pur avendo il de cuius attribuito ad esse specifici cespiti costituenti il patrimonio, sulla base del «contenuto obiettivo dell’atto» e dell’«interpretazione letterale delle espressioni usate»(30).
La ricerca della volontà del testatore
È ricorrente nella giurisprudenza della S.C. l’affermazione che l’interpretazione del testamento è caratterizzata, rispetto a quella del contratto, da una più penetrante ricerca, al di là della mera dichiarazione, della volontà del testatore(31), la quale, alla stregua delle regole ermeneutiche di cui all’art. 1362 e ss. c.c. (applicabili, con gli opportuni adattamenti, anche in materia testamentaria), va individuata sulla base dell’esame globale della scheda testamentaria, con riferimento, essenzialmente, nei casi dubbi, anche ad elementi estrinseci alla scheda, come la cultura, la mentalità e l’ambiente di vita del testatore(32), la personalità, la condizione sociale o culturale e l’età del testatore(33).
Ne deriva che il giudice di merito può attribuire alle parole usate dal testatore un significato diverso da quello tecnico e letterale, quando si manifesti evidente, nella valutazione complessiva dell’atto, che esse siano state adoperate in senso diverso, purché non contrastante ed antitetico, e si prestino ad esprimere, in modo più adeguato e coerente, la reale intenzione del de cuius(34).
Deve escludersi, però, che si possa fare riferimento a elementi tratti aliunde quando la volontà del defunto risulti già chiara dal contenuto formalmente valido del testamento(35).
La prima osservazione è che non viene chiarito perché la volontà del testatore dovrebbe essere oggetto di una ricerca più penetrante rispetto ai contratti.
La seconda osservazione è che ai fini della esistenza di quella sufficiente motivazione in ordine al risultato interpretativo che la S.C. ha il compito di controllare, il giudice di merito dovrebbe precisare in che modo ai singoli elementi extratestuali considerati debba attribuirsi rilevanza ai fini delle individuazione della volontà del de cuius e non limitarsi ad affermare di averne tenuto conto.
La terza osservazione è che per poter effettuare la ricerca della effettiva volontà del testatore sulla base di elementi extratestuali è necessario che tali elementi siano acquisiti al processo, il che il più delle volte non avviene. Ciò significa che ove la S.C. dovesse cassare una sentenza perché il giudice di merito non ha tenuto conto di tali elementi, il giudice di rinvio si troverebbe in difficoltà, in quanto il giudizio di rinvio è un giudizio c.d. chiuso, per cui non è consentita, in linea di principio, l’acquisizione di nuove prove.
Al giudice di rinvio verrebbe quindi affidato un compito che non è in grado di svolgere.
Il problema, però, non sembra presentarsi nella pratica, in quanto la S.C. ha sempre confermato le sentenze di merito, le quali avevano affrontato il problema della individuazione della effettiva volontà del testatore, sulla base di elementi extratestuali, in considerazione della formulazione equivoca delle disposizioni testamentarie.
Ciò è successo anche quando tale formulazione era tale che il ricorso ad elementi extratestuali doveva considerarsi di nessuna utilità, per cui in definitiva si è semplicemente ipotizzata e non individuata in concreto una determinata volontà del testatore, facendo richiamo a tali elementi extratestuali, al fine di evitare di dover concludere per la nullità del testamento o di alcune sue disposizioni per indeterminatezza del soggetto beneficiato o dell’oggetto.
Così, ad es., si può condividere, per quanto riguarda la individuazione dell’oggetto, la sentenza che ha confermato la decisione di merito, che, avuto riguardo al principio della conservazione degli effetti del testamento, aveva ritenuto che il testatore, illustre musicista immerso nella sua arte e che non aveva specifiche nozioni di diritto, né era particolarmente dedito alla cura del proprio patrimonio, pur avendo formalmente dichiarato di voler legare alla moglie un appartamento, intendesse riferirsi alla proprietà delle azioni della società intestataria dell’immobile da lui acquistate, avendo intenzione di far acquistare alla moglie la piena ed effettiva disponibilità materiale e giuridica dello stesso(36).
Lo stesso discorso vale per la conferma della sentenza di merito che, in ordine alla individuazione dei beneficiari con riferimento ad un testamento del seguente tenore «lascio l’usufrutto dei miei beni ai miei cari tutti per un periodo di dieci anni, termine che reputo sufficiente perché Tore possa mantenere l’impegno assunto e Graziella possa fronteggiare le spese di …», aveva ritenuto che destinatari del legato erano tutti i parenti e non solo quelli menzionati nominativamente indicati(37).
I primi dubbi si presentano, per quanto riguarda la individuazione dell’oggetto, con riferimento alla conferma della decisione di merito che aveva interpretato una disposizione testamentaria facente riferimento agli immobili del de cuius siti in una determinata località come attributiva di tutta la proprietà immobiliare del de cuius stesso, sulla base del confronto con le altre disposizioni testamentarie
e della pratica costante di quest’ultimo(38).
I dubbi aumentano quando la S.C., con riferimento ad un testamento con il quale il de cuius aveva disposto che ”considerate le enormi spese che ha comportato comporta e comporterà l’assistenza e la cura per il mio mantenimento in vita (medicine, infermieri, collaboratori domestici) dichiaro che nessuna somma potrà essere riservata alla mia morte a mio fratello”, ha ritenuto corretta la motivazione del giudice di merito secondo cui l’espressione “somma”, utilizzata dal testatore, dovesse intendersi nel significato proprio di “somma di denaro”, per cui la esclusione del fratello dal testamento dovesse ritenersi circoscritta alla sola frazione mobiliare del patrimonio del de cuius(39).
Lo stesso discorso vale per la decisione che, con riferimento ad un testamento in cui il de cuius, dopo avere dettato varie disposizioni a titolo particolare, aveva aggiunto «A Cesare tutto il resto che preciserò con foglio a parte», ha condiviso la conclusione dei giudici di merito, secondo la quale ai fini della nomina quale erede era sufficiente la prima parte della disposizione, dovendosi considerare pleonastica la seconda parte, e che erano estranei al significato letterale e logico della disposizione il valore di una condizione («a Cesare tutto il resto se e quando compilerò l’elenco dei beni residui con foglio a parte») e un valore fortemente limitativo della primo proposizione («a Cesare soltanto i beni che preciserò con foglio a parte»), per cui l’analisi letterale della disposizione induceva a ritenere come unico contenuto di essa l’istituzione di erede per tutti i beni non costituenti oggetto di disposizioni particolari(40).
È stata anche confermata la sentenza di merito che aveva attribuito alla espressione della scheda testamentaria riferita a due distinti negozi («negozio in via del Trevio n. 84 e negozio Salvarani») il significato comprensivo del locale e dell’azienda nei confronti di uno solo di essi, essenzialmente in base alla considerazione che solo in tale locale la de cuius aveva gestito l’azienda in comune con la beneficiaria(41).
Per quanto riguarda la individuazione del beneficiario, sulla base della generica affermazione che la designazione fatta dal testatore in modo impreciso ed incompleto non rende nulla la disposizione stessa quando, dal contesto del testamento o altrimenti, sia possibile determinare, in modo serio e senza possibilità di equivoci, il soggetto che il testatore ha voluto beneficiare, si è ritenuto valido il testamento del seguente tenore «Sarà erede dei miei beni chi mi assisterà fino alla morte»(42).
(1) Cass. 3 gennaio 1950, n. 14.
(2) Cass. 24 agosto 1990, n. 8668, che ha confermato la sentenza di merito la quale aveva ritenuto che nessuna manifestazione di una volontà diretta a disporre attualmente dei propri beni per il tempo successivo alla morte era contenuta in una lettera inviata dal del cuius ai nipoti, nella quale il mittente si era limitato ad approvare l’operato dei nipoti che avevano eseguito dei lavori di miglioramento in una casetta di sua proprietà, preannunciando che alla sua prossima visita avrebbe sistemato ogni faccenda al fine di far loro ereditare «quel poco bene che possiedo»; in altri termini aveva semplicemente preannunciato l’intento di dare un certo assetto ai suoi interessi, ma certamente non era con tale lettera che intendeva attuarlo.
(3) Cass. 28 maggio 2012 n. 8490, che, in applicazione di tale principio, ha cassato la sentenza di merito, la quale aveva ravvisato la sussistenza di un testamento olografo in un documento del seguente tenore: «Tutti i miei beni sono esclusivamente di proprietà mia signora», ritenendo plausibile l’intento del de cuius di disporre in tal modo delle sue sostanze per il tempo in cui avesse cessato di vivere. Secondo la S.C., invece, come il dire «istituirò mio erede» non equivale a «istituisco mio erede», tale espressione non equivaleva a «istituisco erede in tutti i miei beni mia moglie».
(4) Cass. 13 gennaio 2016, n. 1993.
(5) Cass. 8 gennaio 2014, n. 150.
(6) Cass. 14 ottobre 1955, n. 3158, in Foro it., 1955, I, c. 1451.
(7) Cass. 5 aprile 1975, n. 1217, che, con riferimento ad una ipotesi in cui il testatore aveva chiamato a succedergli la moglie e due fratelli, escludendo espressamente altri due fratelli, correttamente ha ritenuto che tale esclusione, in quanto utile solo a rafforzare il contenuto positivo delle disposizioni non integrasse una diseredazione.
(8) Cass. 23 novembre 1982, n. 6339, in Foro it., 1983, I, c. 1652; nella specie, però, il thema decidendum era costituito dalla possibilità di ritenere che con riferimento ad un testamento contenente la sola diseredazione dei propri fratelli ad opera del de cuius fosse desumibile la volontà implicita di istituire eredi i figli dei diseredati.
(9) Cass. 20 giugno 1967, n. 1458, in Giust. civ., 1967, I, p. 2032, che ha confermato la validità di una scheda del seguente tenore: «dichiaro, qualora dovessi mancare: di escludere dalla mia eredità e cioè da tutto quello che io posseggo, le mie due nipoti … figlie del mio defunto fratello… per il loro indegno comportamento verso di me e dei miei fratelli». Cass. 18 giugno 1994, n. 5895, che ha confermato la validità di un testamento con il quale il de cuius si era limitato ad escludere dalla successione due dei suoi cinque fratelli e le loro famiglie.
(10) A. TORRENTE, voce Diseredazione (diritto vigente), in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, p. 102.
(11) Cass. 25 maggio 2012, n. 8352.
(12) Cass. 25 ottobre 2013, n. 24163; Cass. 16 novembre 1985, n. 5625; Cass. 24 marzo 1981, n. 17117; Cass. 17 dicembre 1980, n. 6525; in senso sostanzialmente analogo cfr. Cass. 17 gennaio 1981, n. 423, e Cass. 26 ottobre 1972, n. 3282, in Giur. it., 1974, I, 1, p. 1003, per le quali la determinazione della quota può essere attuata anche mediante l’attribuzione di beni determinati, purché in tale ipotesi si dimostri che il testatore, nel disporre dei singoli beni, abbia tenuto presente la universalità del patrimonio e abbia assegnati i medesimi beni come quota dell’intero compendio ereditario.
(13) Cass. 4 febbraio 1999, n. 974, in Giur. it., 1999, p. 1579.
(14) Cass. 21 novembre 1978, n. 5414.
(15) Cass. 7 febbraio 1983, n. 372.
(16) Cass. 7 novembre 1978, n. 5075.
(17) Cass. 10 novembre 1976, n. 4131.
(18) Cass. 2 aprile 1964, n. 715; nel senso che l’attribuzione formale del titolo di erede - o di legatario - può essere valutata solo come elemento confermativo del risultato delle indagini condotte sull’obiettiva consistenza della disposizione, cfr. Cass. 16 novembre 1985, n. 5625; Cass. 18 novembre 1981, n. 6110.
(19) Cass. 6 novembre 1986, n. 6516, in Riv. not., 1987, p. 122, che ha confermato la sentenza di merito la quale aveva considerato a titolo universale la disposizione con cui il testatore attributo ad un soggetto la nuda proprietà di un tutti i beni immobili e ad altro la proprietà di tutti i beni mobili.
(20) Cass. 10 novembre 1977, n. 4865.
(21) Cass. 17 dicembre 1980, cit.
(22) Cass. 12 giugno 2001, n. 9647, in Giust. civ., 2002, I, p. 90; Cass. 17 dicembre 1980, cit.
(23) Cass. 5 novembre 1987, n. 8123.
(24) Cass. 16 novembre 1985, cit.; Cass. 20 maggio 1981, n. 3304; sostanzialmente in senso conforme cfr. Cass. 20 dicembre 1973, n. 3452, in Giust. civ., 1974, I, p. 1105.
(25) Cass. 25 ottobre 2013, n. 24163, che, però, riguarda più l’interpretazione della volontà del testatore sotto il profilo della individuazione dell’oggetto della disposizione piuttosto che la distinzione tra erede e legatario; Cass. 13 giugno 2007, n. 13835; Cass. 20 maggio 1981, cit.; Cass. 24 marzo 1981, n. 1717; Cass. 20 dicembre 1973, cit.
(26) Cass. 13 giugno 2007, n. 13835.
(27) Cass. 4 febbraio 1999, n. 974.
(28) Cass. 6 maggio 1968, n. 1383, in Giust. civ., 1978, I, p. 1869.
(29) Cass. 28 luglio 1969, n. 2850, in Giust. civ., 1970, I, p. 72.
(30) Cass. 12 luglio 2001, n. 9467.
(31) Cass. 30 luglio 2004, n. 14548; Cass. 19 marzo 2001, n. 3940, in Giur. it., 2002, p. 733; Cass. 26 maggio 1989, n. 2556, ivi, 1990, I, 1, p. 78; Cass. 22 gennaio 1985, n. 252, in Riv. not., 1985, p. 1001; Cass. 19 gennaio 1985, n. 141, ibidem, p. 995; Cass. 7 gennaio 1984, n. 110.
(32) Cass. 3 dicembre 2010, n. 24637; Cass. 19 marzo 2001, cit.; Cass. 30 maggio 1987, n. 4814.
(33) Cass. 6 luglio 1984, n. 3972.
(34) Cass. 3 dicembre 2010, n. 24637; Cass. 22 gennaio 1985, cit.
(35) Cass. 19 luglio 1986, n. 4660.
(36) Cass. 3 dicembre 2010, cit.
(37) Cass. 19 gennaio 1985, cit.
(38) Cass. 7 gennaio 1984, cit.
(39) Cass. 28 luglio 2015, n. 15931.
(40) Cass. 26 maggio 1989, n. 2556, in Giur. it., 1990, I, 1, p. 78.
(41) Cass. 15 marzo 1990, n. 2107.
(42) Cass. 30 luglio 2004, n. 14548, con riferimento ad una ipotesi in cui la persona che assumeva essere erede testamentaria aveva provato per testimoni di avere assistito il de cuius fino o al ricovero dello stesso in ospedale, avvenuto tre giorni prima della morte; mentre chi assumeva essere erede legittima aveva dedotto, tra l’altro, sulla base della formulazione letterale del testamento, la mancanza di un soggetto che avesse assistito il de cuius fino al giorno della morte.
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