La destinazione testamentaria tra fondo patrimoniale, trust e vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c.
La destinazione testamentaria tra fondo patrimoniale, trust e vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c.
di Daniele Muritano
Notaio in Empoli
Introduzione
Le questioni che tratterò nel mio intervento, che per forza di cose non potrà essere del tutto esaustivo, data la complessità dei temi da indagare, impone una considerazione preliminare (che è, in realtà, più una constatazione).
Indagare la destinazione testamentaria impone infatti di prendere atto che l’ordinamento consente al testatore di disporre della proprie sostanze, come recita l’art. 587 c.c., non solo mediante attribuzione di beni ma anche attraverso la previsione di forme di utilizzazione dei beni stessi. Il termine “disporre” è infatti composto dal prefisso “dis”, che indica separazione e “ponere”, che suggerisce l’idea di “porre altrove”, di distaccare dal compendio delle cose che appartengono al soggetto. E tale distacco può apprezzarsi sia come “attribuzione”, sia - appunto - come “destinazione”.
È peraltro sufficiente l’analisi normativa, per avvedersi del fatto che il testatore può attribuire beni a eredi o legatari, imponendo loro di destinarli all’attuazione di determinate finalità, mediante una disposizione che assumerà le caratteristiche dell’onere o del legato, là dove la destinazione sia preordinata all’attribuzione. Così come può destinare beni nelle forme tipiche della costituzione della fondazione o del fondo patrimoniale nonché costituendo un trust. L’art. 2 della Convenzione de L’Aja dell’1 luglio 1985, infatti, nel definire il trust, espressamente prevede che il disponente possa porre i beni sotto il controllo di un trust anche mediante un atto mortis causa.
Le tre fattispecie destinatorie che tratterò presentano diversi punti di contatto, primo fra tutti l’effetto di separazione patrimoniale che esse determinano, tuttavia sono forse maggiori le differenze, basti pensare in primo luogo al problema della forma, essendo discusso se il vincolo di destinazione ex art. 2645-ter possa essere costituito per testamento. Ulteriori differenze esistono riguardo all’oggetto del vincolo, limitato agli immobili, ai mobili registrati e ai titoli di credito quanto al f.p., esteso a qualsiasi posizione giuridica soggettiva quanto al trust, limitato agli immobili e ai mobili registrati quanto al vincolo ex art. 2465-ter sebbene si riscontrino aperture in merito all’eventualità che anche beni diversi da quelli indicati dalla norma possano formare oggetto del vincolo; riguardo al termine di durata del vincolo; alla possibilità (secondo taluno persino necessità) che la gestione dei beni venga affidata a un terzo; all’esistenza di beneficiari in senso tecnico, e si potrebbe continuare a lungo.
Comuni alle varie figure destinatorie sono inoltre i delicati e complessi problemi relativi ai rapporti con le norme inderogabili del diritto successorio italiano, specie quelle relative alla tutela dei legittimari. Questi problemi si pongono soprattutto con riferimento al trust, istituto che funziona benissimo nell’ordinamento di origine in ragione del fatto che in Inghilterra il principio di libertà testamentaria è tendenzialmente assoluto e non esiste la successione c.d. necessaria (esistono norme che tutelano i c.d. dependants del defunto, cioè le persone che erano a suo carico, ma non hanno niente a che vedere con le norme sui legittimari per come le intendono i giuristi continentali).
L’ambito di indagine, riguardo a quest’ultimo istituto, sarà limitato all’ipotesi in cui attraverso un testamento si istituisca un trust c.d. interno. I problemi relativi alle ipotesi in cui un trust sia contenuto in un testamento redatto all’estero e abbia ad oggetto beni collocati nel territorio italiano pone problemi diversi ed ulteriori, di elevata complessità, non certo affrontabili in questa sede.
Nell’affrontare il tema va considerato che il formante giurisprudenziale è praticamente assente, salvo segnalare una sentenza del Tribunale di Roma del 18 maggio 2013 in tema di vincolo ex art. 2645-ter (costituito, appunto, per testamento) e una sentenza del Tribunale di Udine del 17 agosto 2015 in tema di trust e pretermissione di un legittimario, che riguarda un trust inter vivos ma che nondimeno è di un certo rilievo in riferimento ai temi trattati.
Va infine ricordato che, a quanto mi consta, l’uso del testamento quale veicolo istitutivo di un fondo patrimoniale o di un vincolo ex art. 2645-ter è molto raro, essendo invece ben più diffuso l’uso del testamento quale strumento alternativamente utilizzato: a) o al fine di attribuire beni al trustee di un trust istituito con atto tra vivi, definibile come trust “pilot trust” traducibile come trust dormiente ovvero b) contenente direttamente l’istituzione del trust, in tal caso propriamente definibile come trust testamentario.
Tratterò brevemente di fondo patrimoniale e vincolo ex art. 2645-ter costituiti per testamento, dedicando maggior tempo al trust, che a mio avviso merita più attenzione, se non altro a causa del suo ambito di diffusione.
Costituzione di fondo patrimoniale per testamento
La costituzione del fondo patrimoniale per testamento è testualmente prevista dall’art. 167 c.c., norma che riguarda certamente la costituzione da parte di un terzo. È ipotesi discussa, invece la costituzione a opera di un coniuge (domani anche da una delle parti di un’unione civile) che contempli la sopravvivenza dell’altro e la presenza di figli minori.
Nel caso di costituzione del f.p. per testamento da parte dio un terzo si discute se il fondo nasca per effetto del solo testamento oppure occorra anche la volontà dei coniugi, da esprimersi in apposito atto pubblico.
Si fronteggiano, sul punto, l’opinione di chi ritiene autosufficiente il testamento, perché espressamente previsto nel codice civile e l’opinione opposta, che valorizza l’accordo dei coniugi.
Secondo la prima opinione l’accettazione dei coniugi è richiesta solo in caso di costituzione del f.p. da parte di un terzo per atto tra vivi, per cui a contrario essa non sarebbe necessaria in caso di testamento, salvo il caso in cui l’attribuzione dei beni ai coniugi avvenga a titolo di eredità. La tesi trae argomento anche dall’art. 2647 in tema di trascrizione, il quale prevede che essa va eseguita d’ufficio, contemporaneamente alla trascrizione dell’acquisto a causa di morte.
L’opposta opinione, invece, valorizza il dato dell’accordo tra i coniugi, necessario in tutti i negozi familiari, per cui vi sarebbe un necessario collegamento tra la disposizione testamentaria costitutiva del f.p. e l’accettazione dei coniugi, che si combinerebbe appunto con essa. L’argomento ex art. 2647 non è ritenuto decisivo, perché la disposizione potrebbe non essere interpretata in senso letterale, con riferimento al vincolo già sorto, ma in relazione al vincolo che il testatore intende costituire sui beni attribuiti ai coniugi. D’altro canto, si aggiunge, è possibile che i coniugi non accettino l’eredità o il legato in quanti non intendono costituire il f.p., ciò che, naturalmente, influirà sull’efficacia della disposizione testamentaria (a meno di diversa volontà del testatore)
È evidente pertanto che, stante la diversità di opinioni sul punto e l’assenza di indicazioni giurisprudenziali, sarà necessaria accuratezza redazionale, ad es. condizionando l’efficacia dell’attribuzione proprio alla manifestazione di volontà da parte dei coniugi.
Necessario presupposto per la costituzione del f.p. sarà quantomeno la contemplazione del matrimonio o di un’unione civile tra due persone determinate, potendo il f.p. essere costituito anche prima del matrimonio. Ne consegue che, pur potendo i nascituri ricevere per testamento non sarà possibile costituire in loro favore un f.p. per testamento, non essendo individuabile il futuro coniuge (salvo individuare un nascituro di un determinato sesso che contragga matrimonio con una certa persona vivente ovvero un nascituro che contragga un’unione civile con una certa persona vivente).
Quanto alla forma, mentre per l’atto tra vivi l’art. 167 prevede l’atto pubblico (che dovrà essere ricevuto in presenza dei testimoni), nulla si prevede di specifico per la costituzione testamentaria, per cui si pone il problema dell’idoneità di un testamento non pubblico, che è in qualche modo comune alla discussa ipotesi della costituzione del vincolo ex art. 2645-ter per testamento, che poi esamineremo. È tuttavia opinione comune che qualsiasi testamento sia idoneo al fine di costituire un f.p.
Della limitazione oggettiva del f.p. già si è detto. Per tale ragione è opportuno che il testamento costitutivo del f.p. indichi beni determinati nell’ambito di quelli contemplati nell’art. 167, salvo ritenere che, se pure il testatore si sia riferito all’intero suo patrimonio, la costituzione del f.p. sia riferibile esclusivamente ai beni idonei allo scopo.
Ultima questione riguarda l’efficacia della costituzione testamentaria del f.p. là dove al momento dell’apertura della successione uno dei coniugi sia già morto. In questo caso, in assenza di figli minori, il f.p. non può nascere, essendo la morte di uno dei coniugi causa di scioglimento del f.p. ex art. 171. In caso contrario, e sempre che si ritenga che non occorra il consenso dei coniugi affinché la costituzione abbia effetto, il f.p. durerà fino al raggiungimento della maggiore età da parte dell’ultimo figlio della coppia.
Rimane da trattare il tema dell’incidenza del vincolo nascente dalla costituzione del f.p. e diritti dei legittimari, che è un dei problemi più delicati ed è comune a tutte le fattispecie di destinazione testamentaria, anche se assume caratteristiche peculiari riguardo al trust. Esso verrà trattato in seguito, essendo problema comune a tutte l figure di destinazione testamentaria al vaglio.
Il vincolo di destinazione ex art. 2645-ter nel testamento
Il Tribunale di Roma, con sentenza del 18 maggio 2013, ha affermato che è inefficace il vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. istituito mediante testamento pubblico. Ciò in quanto il legislatore non indica il testamento quale titolo costitutivo della destinazione, mentre, per istituti affini quali le fondazioni e il fondo patrimoniale, ha espressamente previsto la costituzione sia per atto pubblico che per testamento. Ha aggiunto ancora che l’atto di destinazione ex art. 2645-ter c.c. costituisce deroga al principio della responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c. e, dunque, non appare consentita un’interpretazione estensiva, oltre i limiti tracciati dalla norma.
La questione se l’espressione “atti in forma pubblica”, contenuta nell’art. 2645-ter, c.c., ricomprenda anche il testamento pubblico o, persino, se sia utilizzabile quale veicolo per la stipula di un atto di destinazione anche il testamento olografo è fortemente dibattuta. Il problema, come già osservato, non si pone per il trust, stante il chiaro disposto dell’art. 2 Conv., che riconosce la possibilità di istituirlo anche per testamento (senza distinzioni in punto di forma).
All’indomani dell’entrata in vigore della norma, la posizione della dottrina circa il significato da attribuire all’espressione “atti in forma pubblica” rispetto alle forme testamentarie era attestata in senso negativo.
Ciò anzitutto sul piano letterale, considerandosi in primo luogo che mentre in altri istituti che, come nell’art. 2645-ter, c.c., consentono una destinazione generica, si è previsto espressamente il testamento quale veicolo costitutivo (es. fondazione, fondo patrimoniale), ciò non è avvenuto riguardo alla norma al vaglio.
In secondo luogo, con riguardo alla meritevolezza degli interessi, considerando necessaria, ai fini della stipulabilità dell’atto di destinazione l’esistenza del c.d. quid pluris, si è sottolineata l’incompatibilità del dato della meritevolezza così intesa rispetto all’autonomia testamentaria, che secondo la tesi preferibile deve sottostare al solo giudizio di liceità.
Infine, la legittimazione ad agire per la realizzazione della destinazione attribuita anche al conferente presupporrebbe che il vincolo venga costituito per atto tra vivi.
Sul piano sistematico, inoltre, si sottolinea come la collocazione della norma tra quelle dettate in materia di trascrizione orienti decisamente l’interprete nel negare la possibile costituzione del vincolo per testamento, escludendosi inoltre il procedimento analogico per estendere l’applicabilità della norma anche all’atto mortis causa, trattandosi di deroga all’art. 2740 c.c. che appunto non tollera interpretazioni ultraletterali.
Queste posizioni, dottrinali e giurisprudenziale, sono contestate e contestabili.
Anzitutto il riferimento all’atto pubblico di per sé non esclude il testamento pubblico. Il legislatore ha previsto l’atto pubblico, infatti, al fine di consentire un controllo sull’importanza e consapevolezza del vincolo che il disponente istituisce e non certo perché avesse inteso limitare l’autonomia privata al solo atto tra vivi. Il ruolo del notaio è infatti il medesimo sia nel contesto dell’atto pubblico tra vivi che nel contesto del testamento pubblico. L’espressione “atti in forma pubblica” andrebbe quindi intesta come “atti notarili”.
Quanto agli altri argomenti, vero è che l’art. 1322 c.c., richiamato nell’art. 2645-ter, c.c., si riferisce ai contratti, ma è anche vero che l’art. 1324 c.c., pur dichiarando in linea di principio la inapplicabilità ai testamenti delle norme dettate in materia di contratto, fa salve le diverse disposizioni di legge. L’art. 2645-ter, c.c. potrebbe quindi costituire una deroga all’art. 1324 c.c., consentendo quindi di applicare l’art. 1322 c.c.
Quanto alla legittimazione del conferente ad agire per attuare il fine destinatorio essa non è certo esclusiva. La norma non esclude che se l’atto di destinazione è testamentario siano legittimati ad agire gli eredi del conferente o altri soggetti interessati.
Infine, riguardo all’eccezionalità della disposizione, va rilevato come dopo anni di interventi legislativi che potremmo definire demolitori del sistema della garanzia patrimoniale generica, sia dubbio impostare il rapporto tra i casi di separazione patrimoniale e l’art. 2740 c.c. in termini di regola-eccezione. Occorre invece tenere presente che l’art. 2645-ter, c.c., è una norma “aperta”, che attribuisce ai privati il potere di selezionare gli interessi da proteggere attraverso l’atto di destinazione e il conseguente effetto di separazione patrimoniale e quindi non identifica un tipo strutturalmente definito. Valga il fatto che la norma non indica il contenuto delle obbligazioni proprie del gestore dei beni destinati, che andranno indicate espressamente nell’atto. Ciò conduce a ritenere plausibile, sul piano strutturale, che la destinazione trovi la sua fonte anche nel testamento.
E che la causa destinatoria possa avere fonte testamentaria appare plausibile già sulla base dell’art. 2 Conv., che consente il riconoscimento del trust testamentario, ma anche sulla base di considerazioni più generali, non essendo dubitabile che al testatore, nell’attribuire beni per testamento, sia vietato imporre al beneficiario un obbligo di destinazione dei medesimi a vantaggio di altri soggetti, come già osservato. Quanto alla meritevolezza, il problema si pone là dove si ritenga che essa, nel contesto dell’art. 2645-ter, c.c., sia qualcosa di più della mera liceità e che tale quid pluris produca l’effetto di conformare la proprietà, producendo altresì l’effetto di separazione patrimoniale.
Pare plausibile inoltre ritenere che il canone di meritevolezza sia un dato teleologico, riguardante gli scopi della destinazione e che quindi esso non abbia alcuna rilevanza sul piano della struttura dell’atto di destinazione. La meritevolezza, in altri termini, serve ad apprezzare l’atto di destinazione sotto la prospettiva valoriale e non certo sul piano della contrattualità, che peraltro nel testamento non sussiste. Il caso oggetto della decisione del Tribunale di Roma è utile anche per indagare due questioni rilevanti: a) la configurabilità della destinazione a vantaggio dello stesso titolare del bene destinato o, comunque, dello stesso disponente; b) l’incidenza della destinazione sui diritti dei legittimari.
Nel caso romano, infatti, da un lato i beneficiari del vincolo di destinazione erano gli stessi soggetti cui per testamento era stata attribuita la proprietà del bene, dall’altro i beni vincolati costituivano la quota di legittima del coniuge della testatrice.
L’individuazione dei soggetti che, per così dire, “ruotano” attorno alla vicenda giuridica che sorge a seguito del negozio di destinazione non è semplice. E la norma, sotto questo profilo, non è un esempio di chiarezza.
In astratto il negozio di destinazione tra vivi potrebbe infatti realizzarsi secondo due dinamiche alternative: mediante un trasferimento dei beni dall’autore della destinazione a un soggetto terzo- gestore, cui accede la costituzione del vincolo di destinazione, ovvero mediante mera apposizione di detto vincolo su beni che restano di proprietà dall’autore della destinazione che ne è anche gestore. Nel caso di negozio di destinazione testamentario potrebbe esserci coincidenza tra titolarità del bene e beneficiario della destinazione, come nel caso romano, in cui l’attuazione della destinazione era stata rimessa a un comitato di amministrazione, o anche non esserci, come nel caso in cui beni vengano attribuiti per testamento a un terzo gestore.
La norma non pare offrire elementi testuali decisivi in un senso o nell’altro, poiché utilizza ora termini neutri al riguardo (beni “destinati”; “vincolo di destinazione”; “fine di destinazione”), ora termini ambivalenti (“conferente”; beni “conferiti”) che tuttavia vengono inseriti in un contesto in cui mai viene menzionata l’esistenza di un soggetto gestore che sia diverso dal soggetto autore della destinazione. L’uso dei suddetti termini richiama, evidentemente, il concetto di trasferimento, e infatti il legislatore utilizza questi termini, in senso tecnico, nel diritto societario, dove il “conferimento” è senza dubbio un atto che produce effetto traslativo della titolarità del diritto (di proprietà o di godimento). Il fatto che il legislatore abbia usato questi termini sembra implicare che possa intervenire un soggetto conferitario, del quale tuttavia la norma non fa menzione.
Non meno ambivalente appare, altresì, la porzione di norma per la quale il conferente e, anche durante la sua vita, qualsiasi interessato possono agire per la realizzazione dei fini impressi al patrimonio destinato: non essendo infatti ivi indicato contro quale soggetto detta azione dovrà indirizzarsi, infatti, la norma parrebbe prestarsi a varie letture.
La previsione di una sistematica legittimazione attiva del conferente può infatti indicare sia che il conferente può agire contro il soggetto gestore, sia che il conferente, essendo sempre altresì gestore dei beni destinati, ha il potere di attivarsi per la realizzazione del fine di destinazione contro qualunque
soggetto terzo che tenti di impedirla, sia infine che il conferente, rivesta egli o meno il ruolo di gestore, ha il potere di attivarsi per la realizzazione del fine di destinazione contro chiunque (gestore o terzo) tenti di impedirla.
Quanto poi alla previsione della concorrente legittimazione ad agire di “qualsiasi interessato”, occorre preliminarmente considerare che il termine “interessato” potrebbe riferirsi sia a un soggetto beneficiario in senso tecnico del negozio di destinazione, sia a un soggetto che, pur non essendo beneficiario in senso tecnico di detto negozio, è destinato a riceverne vantaggi eventuali, sia a un soggetto cui il conferente abbia attribuito, nel negozio di destinazione, il ruolo di controllore dell’attività del gestore, sia infine al soggetto gestore.
Il tenore dell’art. 2645-ter, che parla genericamente di “atti”, parrebbe autorizzare a ritenere che il negozio di destinazione ben possa discendere da un negozio unilaterale, come appunto il testamento. Più precisamente, nel caso in cui vi sia coincidenza fra soggetto destinante e soggetto gestore, dovrebbe trattarsi (analogamente a quanto pacificamente si afferma in tema di trust autodichiarato) di un negozio unilaterale, implicante l’attribuzione ipso iure al beneficiario di un diritto di credito opponibile erga omnes una volta che il negozio sia stato trascritto.
A tale diritto di credito il beneficiario potrebbe ovviamente rinunziare, non essendo pensabile che possa prodursi senza il suo consenso una siffatta modificazione della sua sfera giuridica.
Quanto poi all’ipotesi (ove se ne ammetta la configurabilità) in cui il negozio ex art. 2645-ter si caratterizzi per il trasferimento dei beni a un gestore, con contestuale apposizione del vincolo di destinazione sui medesimi, riterremmo che l’interprete possa giungere a ipotizzare, indifferentemente, la presenza di un negozio unilaterale ovvero di un contratto fra destinante e gestore.
La recente giurisprudenza, invece, come già detto, nell’escludere il negozio di destinazione “puro”, conclude nel senso dell’inammissibilità di un negozio di destinazione che non sia traslativo, argomentando dal fatto che la norma ha menzionato, tra i soggetti che possono agire contro il gestore, anche il conferente. Non solo. Questa giurisprudenza prevede che il vincolo debba accedere ad altro negozio, comunque traslativo.
In verità, come già detto, questa è solo una delle possibili declinazioni del negozio di destinazione, ben potendo (e la prassi negoziale è decisamente in questo senso) esso assumere la veste dell’atto unilaterale non traslativo. Vorrà dire, semplicemente, che tale potere del conferente sarà esercitabile nel solo caso di destinazione “dinamica” e non nel caso di destinazione “statica”. Non si vede alcuna ragione, infatti, per limitare, sulla base di una lettura puramente formale, l’ambito operativo della norma.
Si riporta qui di seguito, per comodità, il passaggio della sentenza di Trib. Reggio Emilia 27 gennaio 2014: «Sotto il profilo testuale, poi, le parole “conferente” e “beni conferiti” contenute nell’art. 2645- ter c.c. presuppongono un’alterità soggettiva (e, quindi, un trasferimento) dal conferente ad un altro individuo, fattispecie incompatibile con un atto unilaterale (al di fuori dell’ipotesi, diversa, del trust); infatti, il verbo confero deriva da cum-ferre e le espressioni sopra riportate richiedono, dunque, un atto traslativo (ferre) compiuto tra soggetti distinti. Del resto, quando la legge si riferisce ai “conferimenti” del diritto societario (artt. 2253, 2343 e ss., 2440 c.c.) o al conferimento per la costituzione di fondi di garanzia (art. 2548 c.c.), al conferimento negli ammassi (art. 837 c.c.) o al verbo “conferire” impiegato dalle norme (artt. 737, 739, 740, 751 c.c.) in tema di collazione (termine che deriva, a sua volta, proprio dal verbo conferre) è sempre con riguardo a trasferimenti di beni tra soggetti diversi. Anche in giurisprudenza si rinviene il termine “conferimento”, impiegato per indicare l’inserimento in comunione convenzionale tra coniugi di uno o più beni che, in assenza di convenzione, sarebbero da considerare personali ex art. 179 c.c.».
La tesi, com’è evidente, si fonda da un lato sull’esaltazione del dato letterale, dall’altro su un presupposto a nostro avviso indimostrato: che il legislatore abbia usato il termine conferente in senso (tecnico) analogo all’uso che del medesimo termine egli ha fatto in altri e diversi contesti normativi, non certo assimilabili al negozio di destinazione.
L’art. 2645-ter prevede, come appare chiaro dalla sua lettera, che chiunque possa essere beneficiario.
Dire infatti che beneficiari possono essere i disabili, la pubblica amministrazione, persone fisiche e altri enti significa coprire a 360 gradi l’ambito dei possibili soggetti beneficiari.
Tanto premesso occorre chiedersi se il disponente possa essere beneficiario della destinazione, non prima di avere osservato che nel caso deciso dal tribunale di Roma erroneamente si è parlato di autodestinazione, che ricorrerebbe quando il soggetto beneficiario del vincolo è anche colui che ne subisce il peso. Autodestinazione in senso stretto si ha quando il disponente coincide con il beneficiario, cioè quando il disponente destina a favore di sé stesso. Nel caso deciso invece la destinazione era stata programmata da un terzo, il testatore/disponente, e il bene era giunto ai titolari gravato dal vincolo di destinazione: questa, a mio avviso, non è autodestinazione ma, per l’appunto, una fattispecie in cui il bene è trasferito al beneficiario già gravato dal vincolo di destinazione. Altra questione riguarda l’individuazione del soggetto attuatore della destinazione, cioè il c.d. gestore, che per le ragioni che vedremo non può essere lo stesso beneficiario.
In linea generale ci sembra che nulla osti a che il disponente sia anche beneficiario, perché l’art. 2645-ter, quando parla di interesse riferibile a un beneficiario non sembra imporre che disponente e beneficiario siano persone diverse. D’altro canto ben vi possono essere ipotesi in cui l’affidamento della gestione di un bene a un terzo per la realizzazione della destinazione è di sicura utilità. Si pensi al caso in cui il disponente sia disabile. Perché negare che costui, eventualmente con le debite autorizzazioni giudiziali, possa affidare la gestione di un proprio bene a un terzo per la realizzazione di un suo interesse?
Scendendo nei dettagli, occorre, a nostro modo di vedere, distinguere diverse ipotesi, con diverse soluzioni dipendenti dal modo con cui è stato strutturato il negozio (partendo dall’idea secondo cui è ammissibile il negozio di destinazione “puro”).
Qualora il negozio si configurato come atto unilaterale non traslativo pare certo che il disponente non possa essere beneficiario. Ciò in quanto si avrebbe assoluta coincidenza tra le figure del disponente, del gestore e del beneficiario medesimo, con conseguente indifferenza della situazione esistente prima della stipula dell’atto rispetto a quella esistente dopo. Non esisterebbe, inoltre, un diverso soggetto verso cui il gestore dovrebbe adempiere le proprie obbligazioni, data appunto la coincidenza tra gestore e beneficiario.
Ci sembra invece configurabile un atto di destinazione unilaterale non traslativo in cui il disponente non sia l’unico beneficiario ma uno dei beneficiari.
In questo caso, infatti, da un lato la situazione post-stipula sarebbe evidentemente diversa da quella precedente e, in secondo luogo, il disponente-gestore sarebbe obbligato verso un terzo diverso da sé medesimo. Certo vi è il rischio che in siffatta struttura si presentino potenziali situazioni di conflitto di interesse, per prevenire le quali occorrerà un’accurata redazione della clausole dell’atto istitutivo. Va tra l’altro osservato che la questione relativa alla configurabilità del disponente-beneficiario nel caso di negozio in cui vi siano beneficiari ulteriori non è di poco conto, perché l’effetto di opponibilità che scaturisce dalla stipula dell’atto di destinazione sarà opponibile erga omnes e quindi anche al disponente medesimo. Si pensi al caso di un genitore che destini la propria abitazione a vantaggio di un proprio figlio beneficiario. A rigore, essendo la destinazione opponibile anche al genitore-disponente, costui non avrebbe alcun diritto di utilizzare il bene a proprio vantaggio (perché glielo impedisce la norma, che impone l’impiego dei beni solo per la realizzazione del fine di destinazione) salvo, appunto, che sia anch’egli beneficiario ovvero che si riservi delle “prerogative” che limitino la posizione del beneficiario della destinazione. Uno spunto in tal senso si ricava dall’art. 2 della Convenzione de L’Aja dell’1 luglio 1985 sul riconoscimento dei trusts, il quale prevede, appunto, che il disponente del trust possa riservarsi, appunto, delle prerogative, senza che ciò determini il venir meno degli effetti propri del trust. Analogamente si può operare, a nostro modo di vedere, anche in sede di stipula di un atto di destinazione, là dove si ritenga che il disponente non possa essere beneficiario. Naturalmente, il venir meno della prerogativa (ad es. per morte o rinunzia di colui che se l’è riservata) determinerà il
riespandersi della posizione beneficiaria.
Analogo discorso potrebbe farsi per il caso in cui oggetto della destinazione fosse un bene appartenente alla comunione legale, ipotesi ritenuta pacificamente ammissibile, e il negozio fosse stipulato per la realizzazione dei bisogni della famiglia. In questo caso, se appare evidente che beneficiari della destinazione non possano essere solo i coniugi disponenti (per le ragioni già sopra esposte), non può invece ritenersi inconfigurabile un atto in cui i coniugi stessi, insieme ai figli, siano beneficiari della destinazione medesima. In tal caso, infatti, i disponenti non saranno gli unici beneficiari.
Avere ammesso la configurabilità di un negozio di destinazione in cui il disponente sia anche gestore e beneficiario insieme ad altri determina un’importante conseguenza, che a nostro avviso è di tipo generale: che tutte le volte in cui, dopo la stipula di un negozio di destinazione, si verifichi la coincidenza tra disponente, gestore e beneficiario la destinazione cessa ex lege.
Per ovviare a tale (grave) conseguenza occorre trovare un sistema che eviti il verificarsi di tale della coincidenza e ciò appare possibile prevedendo o che il disponente cessi di essere gestore o che il disponente cessi di essere beneficiario.
La prima soluzione può essere declinata in due modi: o ritenendo sufficiente la nomina di un diverso gestore, ferma restando la proprietà dei beni destinati al disponente; o ritenendo necessaria non solo la nomina di un diverso gestore ma anche il trasferimento a costui dei beni destinati.
Ritenere “obbligata” la seconda soluzione comporterebbe accogliere anche con riferimento all’atto di destinazione il concetto - proprio del trust - di “perdita di controllo” quale requisito essenziale per la sua effettività. Questo requisito in verità non appare richiesto dalla norma, tanto è vero che, come si ritiene dai più, è ammissibile l’atto di destinazione statico. Tuttavia l’ipotesi in cui il disponente sia anche unico beneficiario e la semplice gestione sia attribuita a un terzo al quale non venga trasferirà la proprietà desta qualche perplessità, perché si potrebbe affermare che poiché il disponente non si è spogliato della proprietà egli mantiene l’amministrazione dei beni destinati e quindi la coincidenza delle tre figure non verrebbe eliminata. Si potrebbe invece ritenere che nel caso al vaglio l’attribuzione a un terzo gestore del potere di amministrazione del bene determini, per tutta la durata della destinazione medesima, la sottrazione totale del potere sul bene al disponente, eventualmente inserendo un’apposita clausola nell’atto, con conseguente possibilità di proseguire la destinazione. Occorre chiedersi, inoltre se possa (meglio: debba) essere prevista una clausola che imponga al disponente l’obbligo di individuare un nuovo gestore entro un termine prestabilito sotto la sanzione del venir meno, appunto, della destinazione e del conseguente effetto di separazione patrimoniale.
La seconda soluzione è più complicata, perché la cessazione del beneficiario potrebbe determinare anch’essa un venir meno ex lege della destinazione mancanza di uno dei suoi presupposti. Anche in questo caso dovrebbe prevedersi una clausola che imponga al disponente l’obbligo di individuare un nuovo beneficiario entro un termine prestabilito.
In conclusione, al fine di evitare, nel primo caso la coincidenza tra disponente, gestore e beneficiario e nel secondo caso che possa sussistere un negozio di destinazione senza alcun beneficiario, si tratterebbe di dare luogo a una sorta di “quiescenza” della destinazione in tale spatium deliberandi da parte del disponente.
Sulla base di quanto precede dovrebbe concludersi, infine, nel senso della piena ammissibilità di una destinazione che preveda il disponente quale unico beneficiario purché il gestore sia soggetto diverso da lui.
Tornando alla destinazione testamentaria, è ipotizzabile che essa sia caratterizzata dall’attribuzione strumentale dei beni a un gestore. Questo pone il problema della qualificazione di tale attribuzione, che esamineremo trattando del trust testamentario.
Il trust testamentario
Nessun dubbio sussiste in merito all’ammissibilità del trust testamentario, essendo esso previsto dall’art.
2 Conv.
Anche tale trust, come quello inter vivos, potrà essere qualificato come trust interno regolato da legge straniera, fermo restando che tutto ciò che riguarda la scheda testamentaria, sia dal punto di vista formale che dal punto di vista sostanziale, sarà regolato dalla legge italiana. Ciò in ragione del fatto che, ex art. 4 Conv., essa non si applica alle questioni preliminari relative alla validità dei testamenti o di altri atti giuridici in virtù dei quali dei beni sono trasferiti al trustee.
La legge italiana, inoltre, dovrà essere tenuta in considerazione ai sensi dell’art. 15 Conv., il quale prevede che la Convenzione non costituisce ostacolo all’applicazione delle disposizioni della legge designata dalle norme del foro sul conflitto di leggi quando con un atto volontario non si possa a esse derogare. Per ciò che interessa in questa sede, l’art. 15 Conv. fa salve le norme inderogabili interne in materia di testamenti e devoluzione ereditaria, con particolare riguardo alla successione necessaria. Come di seguito si vedrà il testamento può essere veicolo diretto di istituzione del trust, ciò che accade quando il testatore, appunto, istituisce il trust nello stesso testamento, ma può anche essere veicolo di un’istituzione indiretta, come accade quando il testatore imporre a eredi o legatari di istituire un trust avente a oggetto i beni loro devoluti. È infine possibile che il testamento venga utilizzato come veicolo per “dotare” di beni un trust già istituito dal testatore con atto tra vivi.
Come si evince dall’art. 2 Conv. il trust può essere istituto nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato. Ciò può ovviamente avvenire anche per il tramite di un testamento, potendo quindi il testatore imporre un trust di scopo, nel qual caso il relativo obbligo sarà riconducibile all’onere.
Il testatore potrebbe inoltre imporre l’istituzione di un trust con beneficiari determinati, nel qual caso la disposizione dovrebbe essere riconducibile al legato di comportamento negoziale. Il beneficiario del legato potrà quindi pretendere che l’erede (o legatario) onerati stipulino un trust con atto inter vivos, prevedente l’onorato stesso quale beneficiario.
Dal punto di vista del diritto interno, i più interessanti e complessi problemi concernono l’ipotesi in cui il testatore istituisce il trust direttamente nel testamento, nominando il trustee, attribuendogli i beni e dettando il “programma” che egli dovrà seguire fino a giungere alla finale attribuzione dei beni ai beneficiari.
I problemi sono complessi perché nessuna norma qualifica la natura dell’attribuzione dei beni al trustee di un trust testamentario, ciò che dovrà quindi essere oggetto di ricostruzione da parte dell’interprete. Sotto tale profilo la tesi di chi considera il trustee quale erede del testatore-disponente e riconduce le sue obbligazioni tra le obbligazioni modali non pare persuasiva.
Si obietta in primo luogo che se il beneficiario del trust è determinato, a tutto concedere si tratterà di legato e non di onere, essendo la differenza tra le due figure costituita, appunto, dalla determinatezza o meno del beneficiario.
In secondo luogo, partendo dalla tesi, ampiamente condivisa, per cui l’onere è disposizione accessoria, in quanto presuppone un’attribuzione patrimoniale mortis causa in favore dell’onerato, ne conseguirebbe, rispetto al trust, che disposizione principale dovrebbe essere, per l’appunto, l’attribuzione dei beni al trustee che, invece, è del tutto strumentale rispetto alla finale attribuzione ai beneficiari.
Compito del trustee, infatti è amministrare i beni affidatigli nell’interesse dei beneficiari, il che manifestamente orienta l’interprete nell’intravedere nella nomina del trustee da parte del testatore null’altro che l’attribuzione di un ufficio gestorio. Il testatore, infatti, non vuole certo beneficiare dell’attribuzione il trustee ma - se del caso (potendo infatti l’attribuzione a uno o più beneficiari non esservi proprio) - i beneficiari finali del trust (che tra essi possa esservi anche il trustee non muta i termini della questione).
Questo significa, in conclusione, che non esiste molto spazio per ricondurre la posizione del trustee all’erede o al legatario, dovendosi invece procedere a un’analisi funzionale della sua nomina e dell’attribuzione dei beni in suo favore.
Il testamento, in ultima analisi, è il veicolo attraverso cui il testatore impone al trustee il suo programma di attribuzione, e lo fa istituendo il trust e attribuendo i beni al trustee. L’analogia con l’istituzione della fondazione per testamento, scomponibile nei due negozi di istituzione e di dotazione è evidente, tanto che, appunto, si è condivisibilmente proposto di vedere nel trust testamentario un nuovo genus di disposizione testamentaria.
Pertanto, così come in caso di attribuzione a una fondazione dell’intero asse ereditario è da escludere che essa sia erede, allo stesso modo accadrà per il trustee cui sia attribuito l’intero asse ereditario. Analoga natura, mutatis mutandis, dovrà essere attribuita al gestore di un bene oggetto di destinazione testamentaria ex art. 2645-ter.
Quanto ai beneficiari, si è già detto che la volontà del testatore è volta a realizzare una liberalità nei loro confronti tramite l’istituzione del trust, il che significa che essi riceveranno i beni dal trustee e non dal testatore. Non solo: potranno persino ricevere beni diversi da quelli originariamente attribuiti dal testatore al trustee per effetto dell’amministrazione dinamica di essi da parte del trustee medesimo.
Ciò esclude, pertanto, che essi possano essere qualificati eredi. Più correttamente essi andranno qualificati come legatari. Detto legato avrà ad oggetto, da un lato, il comportamento negoziale del trustee, cui spetta il compito di gestire il trust fund, dall’altro il valore economico del trust fund medesimo. Nel trust, infatti, si verifica una sorta di traslazione dalle “res” al “fund” cioè da un rapporto tra soggetto e determinati beni a un rapporto tra soggetto e ricchezza rappresentata dai beni stessi. I beneficiari. Essi potranno pretendere che il trustee, esaurita la gestione del trust, trasferisca loro il fondo in trust secondo quanto indicato nell’atto istitutivo. Da tale punto di vista, la loro posizione sarà certamente di natura obbligatoria, riconducibile al diritto di credito.
I problemi di forma del trust testamentario sembrano facilmente risolvibili, poiché l’art. 3 Conv., prevedendo che essa si applichi ai soli trusts costituiti volontariamente e “comprovati per iscritto”, consente di ritenere ammissibile l’uso di una qualsiasi forma testamentaria per istituire il trust.
Poiché inoltre, ex art. 4 Conv., essa non si applica alle questioni preliminari relative alla validità dei testamenti o di altri atti giuridici in virtù dei quali dei beni sono trasferiti al trustee, troveranno applicazione tutti i principi e le norme che regolano la materia testamentaria.
Tra questi principi appare di estrema importanza ai nostri fini quello della personalità, dato che molto spesso si leggono atti di trust inter vivos in cui il disponente attribuisce al trustee amplissimi poteri di individuazione dell’oggetto e dei soggetti dell’attribuzione.
In materia testamentaria, com’è noto, soltanto al testatore, essendo il testamento atto personalissimo, è consentito di indicare il beneficiario della disposizione e l’oggetto della stessa, come risulta chiaramente dal primo comma dell’art. 631, c.c., secondo il quale «È nulla ogni disposizione testamentaria con la quale si fa dipendere dall’arbitrio di un terzo l’indicazione dell’erede o del legatario ovvero la determinazione della quota di eredità …» Tale principio trova una chiara conferma nell’art. 589, secondo il quale «Non si può fare testamento da due o più persone nel medesimo atto, né a vantaggio di un terzo, né con disposizione reciproca …».
Esistono però delle eccezioni.
La prima eccezione è contenuta nell’art. 631, commi 2 e 3, il quale consente al testatore di disporre di un legato in favore di una persona o di un ente che saranno scelti da un terzo all’interno di un novero di soggetti predeterminato dal testatore, o ancora in favore di una persona appartenente a famiglia o categorie di persone indicate dal testatore stesso.
Altra eccezione è prevista dall’art. 699 c.c., che ammette la disposizione avente a oggetto l’erogazione periodica, per un certo periodo di tempo o in perpetuo o per fini di pubblica utilità, di una somma di denaro in favore di persone fisiche che un terzo dovrà scegliere all’interno della categoria ovvero tra i discendenti di famiglie indicate dal testatore.
Ancora, al testatore è consentito di disporre un lascito genericamente in favore dei poveri (o di altre categorie di soggetti bisognosi), attribuendo al terzo l’uso o il pubblico istituto a beneficio del quale esso è destinato.
Per quanto invece riguarda l’oggetto, l’art. 632, comma 1, c.c. consente al testatore di attribuire a un terzo il potere di determinare l’oggetto o la quantità di un legato nel rispetto di criteri e direttive stabiliti dallo stesso testatore. Il comma 2 della medesima norma prevede poi il legato remuneratorio, nel quale il criterio, cui il terzo dovrà attenersi nella determinazione dell’oggetto dell’attribuzione, è dato dal valore dei servizi resi dal legatario al de cuius. Altre eccezioni sono il legato di cosa genericamente determinata (artt. 653 e 654 c.c.) e il legato alternativo (art. 665 c.c.).
Riguardo al trust i problemi di compatibilità con i principi generali sopra sintetizzati sorgono nel caso in cui esso sia discrezionale, cioè preveda in capo al trustee poteri di individuazione dei beneficiari o dell’oggetto dell’attribuzione.
Evidentemente, anche il trust dovrà rispettare tali principi, e le sue clausole dovranno essere redatte in modo da evitare che la determinazione del soggetto o dell’oggetto dell’attribuzione si affidata al mero arbitrio del trustee.
Il trust testamentario, quindi, ove non individui i beneficiari e attribuisca a un terzo il compito di individuarli può - al limite - essere considerato negozio in corso di perfezionamento (e non nullo) solo nel caso in cui la clausola che attribuisce al terzo il potere in questione si conformi al principio di personalità della volizione liberale.
In altri termini, la clausola sarà conforme al detto principio solo se, come si evince dall’art. 631, comma 1, c.c., il disponente abbia attribuito al terzo il potere di scegliere i beneficiari all’interno di una rosa di soggetti ovvero di una categoria di soggetti. Parrebbero perciò nulle tutte le clausole che fuoriescono dal suddetto schema, con particolare riguardo a quelle attributive al terzo di un cosiddetto “general power of appointment”, cioè del potere di designare quale beneficiario qualunque soggetto. Analogo discorso varrà per le clausole attributive al trustee del potere di individuare l’oggetto, valide anch’esse nelle misura in cui il disponente abbia previsto criteri e direttive.
Il problema della compatibilità tra trust testamentario e divieto di sostituzione fedecommissaria sorge con riguardo agli atti istitutivi di trust che attribuiscono a un soggetto A finché vive, dopo la sua morte a un soggetto B, e via dicendo, il diritto di godere dei beni in trust (o parte di essi) e/o il diritto di ricevere dal trustee delle somme di denaro (d’importo fisso o variabile), prevedendo poi che i beni, una volta che il trust sia venuto a scadenza, spetteranno ai beneficiari finali.
Considerato che l’art. 15, paragrafo primo, lettera c), della Convenzione impone ad un trust il rispetto delle nostre norme imperative in tema di successioni mortis causa, la clausola va esaminata alla luce del divieto di fedecommesso di all’art. 692 c.c.
Il termine “fedecommesso” individua la disposizione testamentaria con cui il de cuius impone all’erede o legatario A (detto “istituito”) l’obbligo di conservare i beni ricevuti onde restituirli, alla propria morte, ad altro soggetto B (sostituito).
L’unica forma di fedecommesso oggi consentita è, ex art. 692 c.c., quella “assistenziale”, nella quale l’istituito A è un soggetto interdetto o interdicendo che è figlio, discendente o coniuge del de cuius e il sostituito B è la persona fisica o giuridica che gli abbia prestato assistenza; in ogni altra ipotesi, pertanto, la sostituzione dovrà considerarsi nulla.
La ratio del divieto è comunemente individuata nell’intendimento di evitare la creazione di un ostacolo considerato eccessivo alla libera circolazione dei beni.
Secondo l’opinione che pare preferibile, una volta apertasi la successione del de cuius, tanto l’istituito quanto il sostituito sono immediatamente destinatari di una vocazione ereditaria (cioè di una chiamata a succedere).
Mentre però l’istituito è, altresì, destinatario di una delazione ereditaria, la quale implica per costui l’immediata possibilità di accettare l’eredità, il sostituito è titolare di un’aspettativa giuridica alla delazione, cioè di una delazione sospensivamente condizionata (e trattasi di condicio iuris) in cui l’evento condizionante è dato dalla premorienza dell’istituito, nonché dall’assenza di una revoca dell’interdizione dell’istituito e dall’avvenuta prestazione di assistenza a costui da parte del sostituito. Una volta accettata l’eredità, l’istituito ne diviene proprietario risolubile, nel senso che gli eventi appena descritti e sospensivamente condizionanti la delazione del sostituito svolgono, altresì, il ruolo di eventi risolutivamente condizionanti la situazione proprietaria dell’istituito; quest’ultimo, pur
potendo godere dei beni e compiere sui medesimi ogni atto di ordinaria amministrazione (cfr. art. 693 c.c.), deve munirsi dell’autorizzazione giudiziale (stante l’esigenza di tutela dell’interesse del sostituito) per gli atti di straordinaria amministrazione (cfr. art. 694 c.c.).
Se alla morte dell’istituito potrà dirsi avverata la condicio juris risolutiva affettante la proprietà da lui vantata, si sarà parallelamente avverata anche la condicio juris sospensiva concernente la delazione del sostituito; tale fenomeno di cessazione della pendenza della condicio juris implicherà al tempo stesso, con effetto irretroattivo, il venir meno della proprietà a suo tempo acquistata mortis causa dall’istituito e l’insorgere della possibilità di accettare l’eredità, divenendone titolare, per il sostituito; ove quest’ultimo accetti effettivamente l’erdità, infine, dovrà ritenersi che abbia anch’egli acquistato mortis causa (ma - ripetesi - con effetto ex nunc) dal testatore e non già dall’istituito.
Gli elementi costitutivi del fedecommesso risultano, pertanto, essere i seguenti:
a) la duplice chiamata a succedere dell’istituito e del sostituito;
b) l’ordine successivo fra le due chiamate (nel senso che il sostituito succederà mortis causa al testatore una volta morto l’istituito);
c) il cosiddetto “obbligo di conservare e restituire” a carico dell’istituito;
d) nell’unica forma di fedecommesso attualmente consentita, la cura dell’istituito incapace da parte del sostituito.
È stato inoltre precisato che, nel caso in cui un soggetto A sia istituito erede con l’obbligo di conservare e restituire i beni ad altro soggetto B non già al momento della propria morte, ma dopo un certo periodo di tempo, non si ha fedecommesso, ma istituzione d’erede a favore di A sottoposta a termine finale e a favore di B sottoposta a termine iniziale: alla luce dell’art. 637 c.c., pertanto, tali termini dovranno considerarsi come non apposti e A e B saranno considerati chiamati in parti uguali. L’esistenza di un fedecommesso è stata altresì esclusa nel caso in cui il soggetto A dell’esempio sia un mero legatario e non un erede: si è parlato al riguardo, infatti, della configurabilità di due validi legati a termine, rispettivamente finale (quanto ad A) e iniziale (quanto a B).
Tanto premesso può a questo punto valutarsi la legittimità della clausola esemplificata, non senza aver prima precisato ulteriormente che il trust testamentario che la dovesse contenere deve: a) avere individuato i beneficiari nell’ambito di soggetti tutti capaci di succedere per testamento ex art. 462 c.c., poiché in caso contrario si porrebbe, a monte, il problema della violazione di tale norma; b) avere attribuito ai beneficiari un diritto di credito nei confronti del trustee, cioè il trust deve essere fixed ovvero, se si tratta di trust discrezionale, la discrezionalità del trustee deve essere congegnata in modo tale da poter incidere non già sull’an dell’attribuzione, bensì, soltanto sul quantum di essa.
Detto questo, nel caso in cui il testatore A istituisca un trust nel quale B svolge il ruolo di trustee e in cui vengono designati quali beneficiari vitalizi di reddito prima C, poi (alla morte di C) D, mentre E è il beneficiario finale, si può escludere di essere in presenza di un fedecommesso.
Anzitutto perché non sussiste fedecommesso nel rapporto fra beneficiari di reddito e beneficiario finale, in quanto fa difetto, fra costoro, sia il requisito dell’ordine successivo sia quello dell’obbligo di conservare e restituire: i beneficiari di reddito, infatti, sono titolari non già della proprietà dei beni, bensì di un diritto di credito nei confronti del trustee a conseguire i redditi.
In secondo luogo non pare ipotizzabile un fedecommesso neppure nel rapporto fra trustee e beneficiario finale, in quanto:
a) non sussiste l’ordine successivo, provenendo l’acquisto del beneficiario - al solito - dal trustee e non dal testatore;
b) mentre l’istituito, come risulta dall’art. 693, comma 1, c.c., gode dei beni, è esclusa qualunque forma di godimento dei beni da parte del trustee, pena la configurabilità a suo carico di una violazione degli obblighi discendenti dal trust (breach of trust), con la connessa responsabilità.
D’altro canto un trust non viola alcuna delle ragioni che stanno alla base del divieto di fedecommesso: non quella fondata sull’esigenza di evitare di comprimere la libertà di testare dell’istituito, perché i beni in trust sono per definizione estranei alla successione mortis causa del trustee; non quella riposante sull’esigenza di evitare limiti intollerabili alla circolazione dei beni, poiché il trustee normalmente ha il potere di alienare i beni e comunque le leggi regolatrici dei trusts di solito prevedono una durata massima di essi.
Che le disposizioni contenute in un trust debbano rispettare le norme interne in materia di tutela dei legittimari discende pacificamente dall’art. 15, comma 1, lett. c, Conv., il quale, come già sopra osservato, prevede che la Convenzione non costituisce ostacolo all’applicazione delle disposizioni della legge designata dalle norme del foro sul conflitto di leggi quando con un atto volontario non si possa derogare ad esse, in particolare nelle seguenti materie, tra cui appunto, alla lett. c, testamenti e devoluzione ereditaria, in particolare la successione necessaria. Tale affermazione è pacifica anche in giurisprudenza.
Un primo ostacolo normativo che un trust testamentario si trova ad affrontare è certamente quello costituito dall’art. 549 c.c., il quale vieta al testatore di apporre pesi o condizioni sulla quota spettante ai legittimari.
Rientra nel concetto di “peso” ogni disposizione congegnata in modo tale da menomare la consistenza economica dei beni lasciati a titolo di legittima (si pensi alla presenza di un modus, oppure di un legato posto espressamente a carico del solo legittimario), mentre rientra nel concetto di “condizione” la disposizione che alteri la posizione giuridica del legittimario rispetto a tali beni (si pensi alla presenza di un termine o di una condizione).
Autorevole dottrina ritiene che la disposizione che violi la norma in oggetto debba esser qualificata come “intenzionalmente lesiva” della legittima e che ciò la distingua, pertanto, dalla disposizione semplicemente esposta all’azione di riduzione, la quale sarebbe invece soltanto “accidentalmente lesiva”.
In altri termini, secondo tale tesi il carattere lesivo di quest’ultimo tipo di disposizione sarebbe accertabile solo oggettivamente e a posteriori, cioè alla luce del fatto che il valore di essa eccede quello della disponibile, mentre il primo tipo di disposizione denoterebbe ab initio la volontà del disponente di pregiudicare la consistenza economica (o comunque di alterare la condizione giuridica) di attribuzioni patrimoniali che al legittimario spettano, nella loro integrità, per disposizione di legge.
Da tale distinzione discenderebbe, altresì, un diverso regime sanzionatorio, poiché mentre la disposizione riducibile sarebbe affetta da una mera inefficacia sopravvenuta (che il legittimario farebbe valere - appunto - con l’azione di riduzione), nel caso di disposizione affetta da pesi o condizioni questi ultimi dovrebbero considerarsi nulli e, quindi, come non apposti, anche argomentando da norme come gli artt. 634 c.c. e 647, ultimo comma, c.c.
Secondo altra impostazione, invece, sarebbe errato qualificare la disposizione in oggetto come “intenzionalmente lesiva”, poiché la presenza di una lesione di legittima è sempre accertabile solo a posteriori, cioè una volta apertasi la successione del disponente.
In tale ottica, pertanto, la sanzione discendente dalla violazione dell’art. 549 c.c. sarebbe l’inefficacia relativa (cioè rilevabile dal solo legittimario) del peso o della condizione gravanti sul lascito, cioè un’inefficacia che opera ipso iure, a differenza di quella che colpisce il lascito nel suo complesso quando lo stesso sia semplicemente soggetto a riduzione (che è oggetto di una pronunzia giudiziale di natura costitutiva).
L’ordinamento prevede, però, talune deroghe al divieto ex art. 549 c.c.
A talune di esse fa espresso riferimento la parte finale di detta norma: trattasi di deroghe contenute in disposizioni dettate in tema di divisione ereditaria, e precisamente negli artt. 713, comma 2, c.c. (per il quale il testatore può, in presenza di eredi minorenni, differire la divisione fino al compimento della maggiore età da parte del più giovane di essi), 713, comma 3, c.c. (il testatore può differire la divisione dell’asse o di parte di esso per un periodo non eccedente i 5 anni), 733 c.c. (il testatore può dettare norme per la divisione) e 734 c.c. (il testatore può effettuare la divisione dei beni nel testamento).
Tanto premesso occorre individuare in quali casi potrebbe porsi il problema del divieto di cui all’art. 549 c.c., fermo restando che la questione sorge solo per il trust testamentario e non anche per il trust liberale inter vivos, poiché l’applicabilità dell’art. 549 c.c. al solo testamento (e non anche alla donazione) è pacifica.
L’ipotesi dovrebbe essere quella in cui un soggetto, non avendo in vita tacitato le pretese di un legittimario mediante donazioni (ovvero avendo effettuato in favore di costui donazioni insufficienti a integrarne la legittima), istituisca un trust testamentario prevedente l’attribuzione di beni dell’asse a detto legittimario: in detto caso, infatti, è certo che tali beni (o parte di essi, se ne eccedono il valore) fanno parte della legittima di costui.
In queste ipotesi appare difficile escludere che l’attribuzione testamentaria a mezzo trust violi l’art. 549 c.c.: i vantaggi patrimoniali previsti a favore del beneficiario dal disponente, infatti, appaiono sottoposti a termine iniziale e/o a condizione sospensiva, in quanto nell’immediato egli non è destinatario di attribuzione alcuna in piena proprietà (anzi, nel caso in cui egli sia destinatario di sole rendite del trust fund, nessun bene capitale mai gli perverrà).
Esistono, però, casi particolari, in presenza dei quali la violazione dell’art. 549 c.c. parrebbe da escludere.
In primo luogo il caso in cui l’imposizione di pesi sulla legittima attribuita mediante trust testamentario si realizzi attraverso meccanismi corrispondenti, o comunque funzionalmente analoghi, a quelli descritti dagli artt. 713, commi 2 e 3, c.c., 733 c.c. e 734 c.c. (norme - appunto - prevedenti pesi lecitamente apponibili, come ammette la stessa parte finale dell’art. 549 c.c.).
In secondo luogo il caso in cui torni applicabile la regola del diritto inglese dei trusts nota come Saunders v. Vautier, secondo la quale, se esiste un unico beneficiario del trust e costui è capace di agire (o se vi sono più beneficiari capaci di agire e d’accordo fra loro), essi possono far cessare anzitempo il trust, indipendentemente dai desideri in origine espressi dal disponente.
Tale principio è applicabile anche a un trust interno disciplinato dalla legge inglese o da quella di uno dei numerosi paesi (anche non di common law) che vi si sono conformati.
In questi casi, pertanto, pare da escludersi che la fattispecie di trust testamentario al vaglio incorra nella violazione dell’art. 549 c.c.: la possibilità dei beneficiari di porre fine a esso in qualsiasi momento conseguendo i beni che ne sono oggetto, infatti, implica che la legittima di costoro non sia affetta - in realtà - da alcun peso.
In terzo luogo il caso in cui il testatore costituisca in trust taluni beni e li attribuisca al legittimario a titolo di legato in sostituzione di legittima ex art. 551 c.c., là dove però si segua la tesi per cui avendo tale legato il carattere tacitativo della attribuzione, è disposizione autonoma, che sostituisce appunto la legittima. Per tale ragione in mancanza di limitazioni desumibili dalla lettera della norma, esso potrà avere effetti reali o obbligatori, e potrà altresì essere gravato da modalità di vario genere: esso pertanto non soggiacerebbe, al divieto di cui all’art. 549 c.c.
In quarto luogo qualora il trust riproduca, dal punto di vista degli effetti, la fattispecie della cautela sociniana ex art. 550, che consente al testatore di attribuire al legittimario beni di valore più ampio della legittima a condizione che accetti la costituzione in trust della quota di riserva. In tal caso il beneficiario potrà optare per ottenere una disposizione limitata alla legittima ma libera dal vincolo. Rimane da esaminare il tema del trust quantitativamente lesivo della legittima, del trust cioè che non preveda il legittimario né quale beneficiario delle utilità derivanti dal trust né quale beneficiario finale. Come osservato nella parte introduttiva, infatti, l’ambientazione concreta del trust nell’ordinamento italiano deve fare i conti con le norme inderogabili in materia successoria, ciò che invece non accade nei paesi anglosassoni, in cui tendenzialmente la libertà testamentaria è assoluta.
Esporrò il caso oggetto della sentenza del Tribunale di Udine del 17 agosto 2015, peraltro appellata, in cui un legittimario non è stato contemplato dal disponente tra i beneficiari di un trust istituito con atto tra vivi. Da tale sentenza si ricava il principio per cui «Gli atti di trasferimento di beni a favore del trustee di un trust istituito con atto tra vivi sono astrattamente assoggettabili all’azione di riduzione».
Un imprenditore costituisce a Londra un trust regolato dalla legge inglese, affidando ai due trustees del medesimo l’intero capitale di una società lussemburghese, controllante altre società, costituenti, insieme alla prima, un gruppo. Beneficiari del trust sono i figli c.d. di primo letto del disponente mentre la figlia minorenne del medesimo, nata da altra relazione coniugale, non figura tra i beneficiari. Morto il disponente, la figlia minorenne agisce in giudizio per sentire: a) dichiarare nulli per illiceità della causa e comunque per frode alla legge i negozi attraverso cui il defunto affidò ai trustees del trust le partecipazioni societarie di cui era titolare, sia direttamente che tramite interposta persona o società fiduciarie, in quanto preordinati a ledere i suoi diritti successori o comunque a renderne difficile se non impossibile l’esercizio; b) dichiarare nullo il trust per causa illecita e frode alla legge o, comunque, non riconoscibile in Italia per ciò che attiene alla volontà negoziale; c) dichiarare nulli per mancanza di causa tutti i negozi finalizzati a porre le partecipazioni societarie sotto il controllo dei trustees in quanto preordinati a ledere i suoi diritti successori; d) dichiarare quindi che tutti i cespiti intestati ai trustee erano rimasti nella titolarità del disponente e quindi formavano parte del suo asse ereditario.
La vicenda affrontata dalla sentenza è molto complessa, tanto che ha dato luogo a una pluralità di controversie collegate, sia in Italia che all’estero, tutte riguardanti il medesimo trust, tra cui la questione di giurisdizione, risolta da Cass. 14014/2014, con cui è stata affermata la competenza del giudice italiano, considerandosi inopponibile ai terzi estranei rispetto all’atto di trust la clausola di proroga della competenza in favore del giudice straniero (inglese nel caso di specie).
La questione centrale concerne la validità e la conseguente riconoscibilità in Italia di un trust istituito all’estero, ritenuto dall’attrice contrario alla norma dell’ordinamento italiano che vieta il mandato a donare (art. 778 c.c.) nonché alle norme inderogabili che riguardano i testamenti e la devoluzione dei beni successori, in particolare la legittima (norme fatte salve dall’art. 15 della Convenzione de L’Aja dell’1 luglio 1985, ratificata dalla l. 16 ottobre 1989, n. 364).
Il tribunale in primo luogo ritiene di affrontare (d’ufficio, trattandosi di questione non sollevata dalle parti) la questione della riconoscibilità dei trust c.d. interni, che risolve affermando che nel caso di specie non si tratta di trust interno bensì di trust estero. Ciò per le seguenti ragioni: a) l’atto era stato stipulato all’estero; b) le partecipazioni poste sotto il controllo del trustee erano di società straniere; c) i trustees erano soggetti stranieri e non meramente domiciliati all’estero.
Il tribunale prosegue affermando che, al fine di valutare se - per ipotesi - il trust violi principi e norme inderogabili dell’ordinamento italiano occorre vagliarne la “causa concreta”.
Esclude anzitutto il tribunale che il trust abbia volato, come ritenuto dall’attrice, le norme in materia di mandato a donare e in specie l’art. 778, comma 1, c.c., secondo cui è nullo il mandato con cui si attribuisce ad altri la facoltà di designare la persona del donatario o di determinare l’oggetto della donazione. Ritiene il tribunale che pur ammettendo il comma 2 della medesima norma la donazione a favore di persona che un terzo sceglierà tra più persone designate dal donante o appartenenti a determinate categorie, o a favore di una persona giuridica tra quelle indicate dal donante stesso e prevedendo l’art. 1772, n. 4, c.c., l’estinzione del mandato per morte del mandante, l’atto di trust aveva invece una durata massima di 80 anni con facoltà di estinzione anticipata solo a discrezione del trustee. Inoltre, continua il tribunale, il trust è atto diverso dal mandato a donare e quindi non può non essere riconosciuto affermandosi che la sua disciplina risulta difforme da quella di altro e diverso istituto dell’ordinamento interno.
Venendo invece alla “causa concreta” del trust il tribunale osserva anzitutto che l’attrice non ha proposto alcuna azione di riduzione bensì ha chiesto che il trust e i conseguenti atti con cui i beni del disponente sono stati posti sotto il controllo dei trustees venissero dichiarati nulli in quanto meramente finalizzati a rendere impossibile alla figlia minorenne del disponente di esercitare le azioni a tutela della propria posizione di legittimaria. E ciò quand’anche la figlia minorenne medesima potesse essere ritenuta compresa tra i beneficiari del trust (questione ulteriore, su cui il tribunale non si pronuncia), in quanto si tratta di trust discrezionale, per cui ella non sarebbe in condizione di esercitare, finché dura il trust, l’azione di riduzione per lesione di legittima, non potendo tale lesione essere concretamente “misurabile”.
Il tribunale respinge la domanda di nullità del trust e degli atti di trasferimento dei beni ai trustees, affermando che il disponente, con l’istituzione del trust, non intendeva regolare la propria successione, bensì garantire continuità a una gestione unitaria e coordinata del proprio gruppo di imprese.
Le ragioni di ciò vengono rinvenute nel fatto che il trust ha ad oggetto solo partecipazioni sociali e non anche altri cespiti del disponente; e nel fatto che anche il coniuge del disponente ha conferito in trust le proprie partecipazioni (secondo l’attrice riferibili al medesimo disponente), operazione che non avrebbe avuto senso se il disponente avesse voluto escludere la figlia minorenne dalla propria successione. Le partecipazioni intestate alla moglie del disponente non sarebbero infatti comunque pervenute alla figlia minorenne del disponente essendo quest’ultima stata generata dal disponente con altra donna.
Conclude quindi il tribunale ritenendo la “causa concreta” del trust di tipo “imprenditoriale e commerciale” e non “patrimoniale e successoria”.
Ritiene infine il tribunale che la tesi di parte attrice secondo cui il trust le avrebbe reso impossibile l’esercizio dell’azione di riduzione non merita accoglimento in quanto, se è pur vero che l’atto istitutivo di trust in sé considerato non può violare alcuna norma successoria in quanto mero atto programmatico, non è meno vero che avverso i singoli atti di disposizione patrimoniale di beni da parte del disponente in favore dei trustees l’azione di riduzione sia pacificamente esercitabile, previa dimostrazione che si tratti di atti di liberalità (anche indiretta) e che essi abbiano determinato una lesione della quota legittima.
Si osserva in primo luogo che appare dubbia la qualificazione del trust oggetto della vicenda giudiziaria come “estero”. Visto il tenore dell’art. 13 della Conv. Aja, infatti, per “trust interno” si deve intendere il trust che è fonte di un rapporto giuridico i cui “elementi significativi” (per tali dovendosi intendere sia - com’è pacifico - il luogo in cui i beni sono ubicati e quello in cui lo scopo del trust deve essere perseguito, sia - come parrebbe affermare la tesi prevalente - la cittadinanza e residenza del disponente e dei beneficiari sono localizzati all’interno del nostro ordinamento e i cui unici elementi di internazionalità sono quindi costituiti: a) indefettibilmente, dalla legge regolatrice del trust (essendo quest’ultima - per definizione - una legge straniera); b) eventualmente, anche dal luogo di amministrazione del trust e da quello di residenza abituale del trustee.
Nel caso di specie sembra invece che il giudice qualifichi “estero” il trust in ragione del solo luogo di costituzione (avvenuta all’estero), senza considerare che i disponenti erano italiani, i beneficiari erano italiani e lo scopo del trust, verosimilmente, sarebbe dovuto essere realizzato in Italia (data la presenza tra i beni in trust della partecipazione in una società lussemburghese che era la capofila delle società operative italiane).
Per tale ragione, la questione della qualificazione del trust (se estero o interno) avrebbe a mio avviso meritato maggiore approfondimento (tanto più che il medesimo tribunale, con sentenza del 28 febbraio 2015, con riferimento ad altri due trust, sicuramente interni, stipulati dal medesimo disponente in favore dei medesimi beneficiari, non aveva esitato a dichiararne d’ufficio la nullità).
Per quanto riguarda la questione relativa ai rapporti tra trust e mandato a donare, il tribunale ha - giustamente - affermato che si tratta di due istituti giuridici diversi, tuttavia la questione vera, che il tribunale non ha affrontato, è un’altra.
Il trust, infatti, conteneva una clausola del seguente tenore: «I trustee potranno pagare o impiegare tutto o parte del capitale del fondo in trust in favore di o a beneficio di tutti o taluni dei beneficiari, nelle proporzioni e nel modo che i trustees in genere riterranno a loro discrezione opportuni».
Pertanto, posto che il trust in questione può essere apprezzabile come liberalità indiretta (ciò che, alla fin fine, riconosce anche il tribunale) e si ritiene che alle liberalità indirette si applichi l’art. 778 c.c., norma ritenuta espressione del c.d. principio della personalità della volizione liberale, sia sotto il profilo soggettivo che sotto il profilo oggettivo, ne risulta l’illiceità della clausola dell’atto di trust, che, come quella in esame, attribuisca ai trustees il potere assoluto di individuare il beneficiario o l’oggetto della liberalità. Il tribunale ha quindi travisato l’oggetto della domanda dell’attrice, che è stata respinta sulla sola base della (ovvia) considerazione per cui strutturalmente il trust è istituto diverso dal mandato a donare.
Riguardo al tema della “causa concreta” del trust, ritenuta dall’attrice illecita in quanto finalizzata a violare la legittima e comunque a impedirle o renderle più difficoltoso l’esercizio dell’azione di riduzione, si osserva quanto segue.
Che le disposizioni contenute in un trust debbano rispettare le norme interne in materia di tutela dei legittimari discende pacificamente dall’art. 15, comma 1, lett. c) Conv., il quale prevede che la Convenzione non costituisce ostacolo all’applicazione delle disposizioni della legge designata dalle norme del foro sul conflitto di leggi quando con un atto volontario non si possa derogare a esse, in particolare nelle seguenti materie, tra cui appunto, alla lett. c, testamenti e devoluzione ereditaria, in particolare la successione necessaria. Tale affermazione è pacifica anche in giurisprudenza (Trib. Lucca 23 settembre 1997, in Foro it., 1998, I, c. 2007, confermata da App. Firenze, 9 agosto 2001, in Trusts, 2002, p. 244; Trib. Urbino 11 novembre 2011, in Trusts, 2012, p. 401).
Rispetto a un trust istituito con atto tra vivi ritenuto lesivo della legittima si pongono una serie di rilevanti problemi:
1) Lo scarto temporale, e l’avvicendamento di diversi soggetti (il disponente, il trustee per la durata del trust, i beneficiari finali) nella titolarità dei beni la cui mancanza dall’asse ereditario può determinare lesione di legittima.
2) La difficoltà di inquadrare il rapporto tra disponente e beneficiari, posto che - se ci si ferma ai ruoli, e non si guarda poi alla possibilità che il disponente nomini trustee se stesso - gli ultimi ricevono i beni non dal primo ma dal trustee; l’analisi di questo rapporto si complica ove si consideri la rilevanza, nei trusts discrezionali, dell’elemento volitivo del trustee; nell’ambito di questi ultimi, rimanendo attribuita al trustee la facoltà di scelta su quando, cosa ed a chi distribuire i beni vincolati, non sono nemmeno individuabili i beni, la cui mancanza dal patrimonio ereditario integri una lesione di legittima, e i soggetti che ne stanno giovando.
3) La difficoltà di inquadrare l’atto dispositivo, esecutivo di un atto istitutivo di trust, come donazione (anche indiretta) posto che destinatario di trasferimento di proprietà è il trustee, che non se ne arricchisce.
4) La difficoltà di inquadrare come donazione il negozio con il quale il trustee trasferisce i beni al beneficiario (sembrando mancare anche lo spirito di liberalità, poiché questi adempie un’obbligazione).
5) La necessità di individuare i criteri per selezionare i beni che possono essere oggetto di imputazione: il potere del trustee di disporre durante il trust dei beni vincolati fa sì che tali cespiti possano essere trasformati in altri, ad esempio venduti e trasformati in denaro. Ma tale potere implica l’eventualità che non possano essere aggrediti i valori effettivi che sono usciti dal patrimonio del disponente per causa liberale; potrebbe costituire oggetto di imputazione il valore attualizzato di un bene, in seguito agli atti di disposizione e amministrazione compiuti dal trustee?
6) La possibilità che all’esercizio dell’azione di riduzione addivengano tanto i soggetti completamente esclusi dalla dinamica del trust, tanto quelli che, ancorché individuati come beneficiari, “subiscano” lo svantaggio di dover attendere la fine del trust per potere ottenere la titolarità dei beni.
L’impostazione ritenuta prevalente è nel senso che siffatti trusts siano apprezzabili come donazioni indirette soggette all’azione di riduzione, a collazione e imputazione, con il seguente risultato: un atto istitutivo che violasse le disposizioni a tutela dei legittimari non sarebbe da considerarsi nullo, ma solo inefficace, nei limiti delle disposizioni lesive e nei confronti del legittimario leso, una volta esperita l’azione di riduzione.
La tesi che invece l’attrice ha tentato di fare valere fa sostanzialmente leva su una particolare interpretazione dell’art. 13 Conv., secondo cui «Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione».
Sulla base di tale norma si è affermato che un trust lesivo dei diritti dei legittimari non dovrebbe essere riconosciuto, e la disposizione fatta in favore del trustee (attuativa del programma dell’atto istitutivo, secondo la nota distinzione tra questo e il negozio dispositivo) sarebbe nulla per mancanza di causa. Si ritiene, cioè, che l’azione di riduzione, astrattamente proponibile risulti non esperibile perché le disposizioni del trust (nel caso concreto il trust era totalmente discrezionale) paralizzerebbero la tutela che il codice appresta ai soggetti lesi.
La disposizione secondo cui «Nessuno Stato è tenuto a riconoscere il trust», secondo il dettato dell’art. 13 Conv., abiliterebbe quindi a disapplicare la legge straniera che conferisce validità al trust. Da ciò deriverebbe la mancanza di giustificazione causale e la conseguente nullità del trasferimento dal disponente al trustee: con l’effetto che i beni che ne sono stati oggetto rientrerebbero nel patrimonio del disponente e sarebbero sottoposti alla successione legittima.
La sentenza respinge la testi della nullità, ma lo fa sulla base di un ragionamento non condivisibile. Afferma la sentenza che la «causa concreta» del trust non era «violare i diritti del legittimario» bensì «garantire continuità a una gestione unitaria e coordinata del proprio gruppo di imprese». E trae questa convinzione sulla base di dati che non appaiono per nulla decisivi, cioè il fatto che il trust avesse per oggetto solo partecipazioni sociali e non anche altri cespiti del disponente (ma senza precisare quali fossero i cespiti rimasti “fuori” dal trust) e il fatto che anche il (primo) coniuge del disponente avesse conferito in trust le proprie partecipazioni. Nient’altro.
Parlare di trust avente causa “imprenditoriale e commerciale” e non “patrimoniale e successoria” è inoltre del tutto generico se non supportato da elementi concreti che individuino una sorta di “Prevalenza” dell’una sull’altra. Per tacer del fatto che parlare di causa “patrimoniale” appare abbastanza incomprensibile.
Sembra quasi che il tribunale abbia voluto a tutti i costi individuare una “causa concreta” diversa al fine di evitare di dichiarare nullo il trust. Come se davvero un trust che leda i diritti di un legittimario possa davvero essere nullo, il che ci pare - a onor del varo - non sostenibile.
Ora, se è evidente che in capo al trustee si realizza un accentramento della proprietà delle partecipazioni e una conseguente gestione unitaria delle stesse, ciò non toglie che il trust è strutturato in modo tale da far pervenire le partecipazioni stesse ai figli dei disponenti, il che, se non ci s’inganna, integra in tutto e per tutto una liberalità indiretta, che potrà certamente essere lesiva della legittima.
Il che, però, come già detto non conduce all’invalidità del trust. Non si vede infatti perché un trust lesivo della legittima debba essere nullo mentre spogliarsi di tutti i beni attraverso una serie di donazioni le renda solo riducibili.
L’attrice ha inoltre sostenuto che, pur ammessa la validità del trust sotto il profilo della “causa concreta” la discrezionalità del trustee nell’attribuire i beni le impedirebbe di esercitare i diritti di legittimario. Il trust sarebbe nullo, quindi, per ragioni di “funzionamento” dell’azione di riduzione, che non avrebbe un oggetto verso cui destinarsi.
Il tribunale si limita a dire che siffatto trust è riducibile in presenza dei presupposti di legge senza però interrogarsi sul come e, soprattutto, sul quando è possibile esercitare l’azione.
Il punto fondamentale è verificare se anche di fronte a un trust così congegnato sia possibile individuare un’adeguata tutela dei legittimari senza necessariamente passare attraverso la dichiarazione di nullità (salvo si tratti davvero di un trust “artefatto”, cioè un simulacro giuridico vuoto di senso e privo di causa) ciò che, tra l’altro, farebbe rientrare tutti i beni nel patrimonio del defunto, compreso quindi ciò che eccede la disponibile.
Lasciando da parte i problemi relativi all’individuazione dell’oggetto della liberalità (indiretta), già sopra evidenziati, ciò che rileva è la legittimazione passiva, atteso che, come spessissimo accade, al momento della morte del disponente i beni non sono stati ancora attribuiti ai beneficiari.
Pare da escludere la legittimazione passiva del trustee (anche se dovrà essere chiamato in giudizio comunque, poiché gli effetti della sentenza di riduzione sono destinati a prodursi anche nella sua sfera giuridica), in quanto egli è titolare di una proprietà affetta da un vincolo di destinazione opponibile ai terzi, in relazione alla quale egli può ritenersi titolare di un ufficio di diritto privato, una proprietà, cioè, dalla quale il trustee non può trarre alcun vantaggio economico personale.
Non resta che concludere, allora, individuando i beneficiari del trust, che pur ricevendo i beni dal trustee, sono da ritenere donatari indiretti del defunto, quali legittimati passivi dell’azione.
Con un’importante conseguenza: che se la posizione beneficiaria è sottoposta a un termine iniziale o a una condizione sospensiva tuttora pendenti alla morte del de cuius, l’azione sarà immediatamente esperibile nel primo caso (essendo, infatti, certa l’esistenza della liberalità) e solo una volta che la condizione si sia avverata nel secondo, senza che fino a tale avveramento il relativo termine di prescrizione possa decorrere, visto il disposto dell’art. 2935 c.c. Nel nostro ordinamento non esiste infatti un principio in virtù del quale il legittimario deve poter agire in riduzione sin dall’epoca dell’apertura della successione (cfr. Cass., S.U., 25 ottobre 2004, n. 20644, la quale ha affermato che il termine di prescrizione per agire in riduzione contro un’istituzione ereditaria testamentaria decorre non già dalla morte del de cuius, bensì a far tempo dall’accettazione dell’eredità da parte del soggetto istituito).
Là dove quindi nessun arricchimento si sia verificato in capo ai beneficiari, nessuna azione di riduzione potrà essere proposta dal legittimario leso, il cui esercizio dovrà ritenersi sospeso (e con esso la prescrizione) fino a quando il diritto non potrà essere fatto valere.
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