Una presenza costante: il testamento nei formulari notarili fra Medioevo ed età dei codici
Una presenza costante: il testamento nei formulari notarili fra Medioevo ed età dei codici
di Lorenzo Sinisi
Ordinario di Storia del diritto medievale e moderno, Università Magna Graecia di Catanzaro
Fra le tipologie di atti negoziali il testamento è senza dubbio una fra quelle che nel passato ha recitato un ruolo di rilevanza centrale nella vita professionale del notaio. Un passato anche assai recente che non manca di condizionare il presente, come dimostra il fatto che ancora oggi in Italia un laureato in giurisprudenza che aspira al notariato deve dimostrare, nelle difficili prove del concorso nazionale, una specifica ed approfondita preparazione in una materia così complessa come quella relativa alla formalizzazione delle disposizioni di ultima volontà. Per indagare le radici storiche di tale rilevanza, limitando lo sguardo prevalentemente al contesto italiano, le funzioni di osservatorio privilegiato possono essere svolte efficacemente a mio parere da quegli strumenti fondamentali per l’apprendimento e l’esercizio dell’Arte notarile che per secoli sono stati (ed in una certa misura sono tutt’ora) i formulari(1).
Indicazioni significative al riguardo, seppure in senso negativo, ci sono fornite già per il periodo altomedievale, contesto in cui i pochi formulari pervenutici ci confermano una sostanziale eclissi del testamento non solo fra i germani invasori, che per tradizione non lo contemplavano nel loro diritto successorio, ma anche presso le popolazioni di stirpe latina che, secondo il sistema della personalità della legge, pur continuavano a vivere iure romanorum(2).
La situazione era però destinata a cambiare decisamente fra l’XI e il XII secolo sulla scia del Rinascimento giuridico bassomedievale che, rimettendo al centro lo studio delle fonti giuridiche romane racchiuse nella grande compilazione giustinianea, pose le premesse per la riemersione di un istituto la cui disciplina, già assai articolata nel diritto di età repubblicana, nei primi secoli della nostra era aveva conosciuto un ulteriore sviluppo grazie ad alcune costituzioni imperiali e al contributo dei grandi giureconsulti dell’età classica(3).
Fra le prime testimonianze certe di questo ritorno al testamento romano nella prassi giuridica della Penisola si segnala una fonte genovese ben nota agli studiosi soprattutto da quando ne è stata curata l’edizione nel 1935 da Mario Chiaudano e Mattia Moresco; si tratta del cartolare del notaio Giovanni Scriba che fra le imbreviature di atti di varia tipologia, ricevuti intorno alla metà del XII secolo, ce ne tramanda tre che presentano finalmente tutte le caratteristiche dell’atto formale di matrice romanistica(4).
Prendendo per esempio il più risalente fra questi documenti, il testamento di Alda moglie di Guglielmo Burone ricevuto il 3 aprile 1157, vediamo come in esso siano presenti già praticamente tutti gli elementi essenziali di quella che sarà la tipologia più diffusa di atto testamentario sino all’età della codificazione, vale a dire quella dell’atto scritto dal notaio contenente la dichiarazione solenne resa dal testatore (in questo caso dalla testatrice) di fronte ai testimoni, subito indicati nel protocollo nel numero di sette secondo il diritto romano, delle sue ultime volontà consistenti nell’ordine in una disposizione a titolo di legato «pro anima», nell’indicazione del luogo di sepoltura, in altri legati di vari oggetti a favore di diversi beneficiari, nell’istituzione dei figli come eredi per i beni rimanenti con annesse clausole di sostituzione in caso di morte senza eredi sia di un singolo che di tutti, nel legato di usufrutto al marito e nella clausola finale(5).
Il notaio genovese Giovanni nel redigere questa imbreviatura si rifece verosimilmente ad un formulario che risentiva non poco l’influenza culturale di quella rinnovata attenzione al diritto romano che si era registrata a Bologna a partire dalla fine del secolo precedente suggellata dalla nascita di una scuola. Fu proprio il mitico fondatore di questa scuola, Irnerio, colui che, intuendo da subito le formidabili potenzialità del notaio come tramite fra le acquisizioni della nuova scienza giuridica e la prassi negoziale, cercò di venire rapidamente incontro alle esigenze di questa categoria professionale redigendo un Formularium rinnovato non solo nei contenuti giuridici, ma anche nell’impianto sistematico. Prende corpo in tale contesto quella «teorica dei quattro istrumenti» che facendo consistere, come dice il nome, l’arte del notariato nella conoscenza e nella pratica di quattro tipologie di atti fondamentali, vedeva il redivivo testamento accostarsi significativamente con pari dignità a negozi importantissimi e mai tramontati quali la vendita, l’enfiteusi e la donazione(6).
Nella perdurante mancanza del formulario irneriano che non ci è pervenuto, un’importante testimonianza di quest’epoca iniziale della letteratura notarile bolognese ci viene fornita da quel testo che era stato un po’ imprudentemente edito verso la fine dell’Ottocento sotto il nome del celebre maestro bolognese(7). La dimostrazione, fatta su ineccepibili basi testuali, dell’erronea identificazione del formulario contenuto nel codice manoscritto edito con quello irneriano sino ad oggi perduto, non toglie infatti importanza a tale fonte che, sia per antichità (inizi XIII secolo) che per origine (sicuramente bolognese) e contenuti teorico-pratici, merita una dovuta attenzione; di questo fatto fornisce prova proprio la materia testamentaria che dà origine ad una sezione del testo in cui vengono già delineati i temi fondamentali che saranno poi fatti oggetto di sviluppi successivi in questo settore da parte della grande Scuola bolognese di notariato(8). Abbiamo infatti in primo luogo la sottolineatura dell’importanza e della delicatezza in questo settore del ruolo del notaio che deve agire con cautela (l’aggettivo «cautus» rivolto al notaio verrà non a caso riproposto più volte da Rolandino in materia testamentaria) nell’ascoltare e riprodurre quanto più fedelmente la volontà del disponente, valutando innanzitutto il possesso da parte sua delle necessarie condizioni mentali e giuridiche. Fa seguito poi l’individuazione delle parti fondamentali dell’atto a partire dall’istituzione di erede, «caput et fundamentum testamenti», la cui presenza serviva innanzitutto a distinguere tale atto dai codicilli che, contenendo invece disposizioni minori (e mai l’istituzione di erede), richiedevano minori formalità(9); abbiamo infine la delineazione delle due tipologie basilari di testamentum: il primo, qualificato come solenne o «in scriptis» contraddistinto dalla segretezza del contenuto delle volontà messe per iscritto in una scheda sigillata «cum lino et cera» ma soprattutto da complicate formalità da rispettare rigorosamente sotto pena di nullità, e per questo di rado utilizzato secondo la stessa testimonianza dell’anonimo autore, e il secondo, invece nettamente prevalente nella prassi, che denominato «nuncupativo» (da nuncupare: proclamare solennemente), consisteva appunto nella dichiarazione fatta oralmente dal testatore della propria volontà di fronte ai testimoni e al notaio e veniva anche qualificato «sine scriptis», non perché non fosse di regola redatto per iscritto da quest’ultimo ma perché tale forma non era in linea teorica richiesta «ad substantiam» bensì soltanto «ad faciliorem probationem»(10).
Di tali tipologie di atti testamentari l’anonimo autore non manca di fornire dei modelli destinati ad essere ulteriormente affinati nelle successive opere della Scuola bolognese di notariato fra le quali bisogna ricordare soprattutto la seconda Ars Notariae di Ranieri da Perugia (1227 c.a.), opera in cui viene per la prima volta proposta una nuova divisione tripartita della materia notarile in cui il settore delle ultime volontà, e quindi in primis dei testamenti, assurge nuovamente all’importanza di una delle parti fondamentali di tale «Ars» insieme a quelle dei contratti (atti inter vivos) e degli atti processuali(11). Tale tripartizione verrà quindi ripresa e rivista, intorno alla metà dello stesso secolo XIII, con l’anteposizione significativa, rispetto alla sistematica raineriana, della parte testamentaria a quella degli atti processuali ad opera del grande Rolandino che, oltre alla seconda parte della sua Summa artis notariae, volle quindi dedicare alla materia testamentaria uno specifico approfondimento il cui titolo ci è tramandato da diversi testimoni manoscritti, ora come Flos testamentorum ora come Flos ultimarum voluntatum, a conferma del fatto che la materia testamentaria era considerata la parte centrale e caratterizzante dell’intero settore degli atti di ultima volontà che, come noto, comprendeva anche i codicilli e le donazioni mortis causa(12).
Non è qui il caso di soffermarsi troppo sull’importante contributo fornito dal grande maestro e notaio bolognese in materia testamentaria perché esiste già un ampio e documentatissimo studio di Giovanni Chiodi che ha analizzato tale tematica in tutte le sue possibili sfaccettature(13); rinviando quindi a tale studio per qualsiasi approfondimento in materia, voglio qui solamente soffermarmi su un passaggio dell’opera rolandiniana che ritengo particolarmente significativo ai nostri fini, vale a dire l’individuazione che lo stesso maestro fa nel Flos delle sei parti fondamentali (di cui tre necessarie e tre facoltative) dell’atto testamentario e di un loro ordine di successione, tipicamente bolognese, in cui, al proemio con l’indicazione delle generalità del testatore e del suo stato di salute (I parte: necessaria), si fanno subito seguire «tamquam dignora» quelle disposizioni «quae ad Dei reverentiam et animarum salutem noscuntur» come i legati per la restituzione di cose illecitamente acquisite e quelli «pro anima» a favore di opere di beneficenza cui per affinità vengono accorpati i legati semplici a favore di vari soggetti (II parte: facoltativa ma quasi sempre presente); solo in terza posizione troviamo, nonostante fosse il cuore e l’elemento essenziale e fondante di tutto il documento, l’istituzione di erede (III parte: assolutamente necessaria), seguita eventualmente da disposizioni di natura sostitutiva a vario titolo (IV parte: facoltativa), da «voluntariae providentiae testatoris» che potevano avere vari contenuti come ad esempio la nomina di un tutore o di un esecutore testamentario (V parte: facoltativa) ed infine dalla clausula finale, qui detta «generalis», che aveva l’effetto di convertire un testamento invalido per difetto di qualche formalità (ad esempio la mancanza del numero richiesto di testimoni) in altre tipologie di atti, come ad esempio il codicillo ab intestato, che ne richiedevano in misura decisamente minore (VI parte: necessaria)(14).
Tale suddivisione dell’atto testamentario, riprodotta fedelmente da Guglielmo Durante nel suo Speculum iudiciale che non poteva certo ignorare tale tipologia di atto vista la sua rilevanza processuale, essendo fra l’altro spesso annoverato fra le primarie fonti di liti(15), viene sostanzialmente ripresa, seppure a volte con qualche piccola variante suggerita da usi locali, nelle successive opere teorico-pratiche di notariato le quali rivelano una crescente incidenza, sulla scia delle trasformazioni politiche e giuridiche intervenute fra gli ultimi due secoli del Medioevo e gli inizi dell’età moderna, delle peculiarità del ius proprium e degli usi locali sulla comune prassi negoziale(16).
Fra le molte opere notarili prodotte su scala regionale nel corso del secolo XVI che, allo stesso tempo, mentre recepiscono il modello rolandiniano riflettono alcune particolarità dello stile locale, può svolgere una funzione esemplificativa quella pubblicata per la prima volta a Brescia nel 1558 dal notaio collegiato Giovanni Battista Maggi(17). Egli nella seconda parte della sua Compilatio, dedicata seguendo la tripartizione rolandianiana alla materia delle ultime volontà, dopo aver motivato una sua particolare attenzione alle formule del testamento in scriptis sulla base della considerazione che, essendo questa tipologia utilizzata assai raramente nella prassi essa era quindi particolarmente bisognosa di maggiori spiegazioni, passa quindi ad illustrare la formula del testamento nuncupativo «sine scriptis scilicet sine sollennitatibus», tipologia utilizzata secondo la sua testimonianza «pro maiori parte» per essere la più sicura da pericoli di nullità(18). Si nota innanzitutto l’alternanza del carattere corsivo, utilizzato per la formula vera e propria, con l’uso del carattere tondo per le parti in cui sono inframezzate delle spiegazioni e per le scritte marginali che segnalano a fianco del testo l’inizio delle parti principali del documento; vediamo ad esempio all’inizio segnalati i due prohemia posti in alternativa a seconda che il testatore fosse sano o infermo nel corpo(19); segue quindi, non segnalata, la parte che potremmo definire religiosa con la raccomandazione della propria anima a Dio e alla Vergine, le disposizioni funerarie e i legati pii, quindi gli altri legati, la clausola di eventuale nomina degli esecutori testamentari (denominati commissarii), l’istituzione degli eredi, le clausole eventuali di sostituzione, di diseredazione, e di nomina di tutori e quindi le disposizioni generali finali fra cui figura immancabilmente la clausola codicillare. Prima dell’escatocollo, contraddistinto dall’indicazione del luogo e della data di ricezione, dei nomi dei testimoni intervenuti, della sottoscrizione del notaio e dalla significativa menzione che l’atto pur scritto in latino era stato comunque letto traducendolo «vulgari sermone» per consentire al testatore e ai testimoni di comprenderne il contenuto, viene segnalata da due croci la possibilità di introdurre la c.d.
«clausula derogatoria», una delle tante provvidenze volontarie prese in considerazione già da Rolandino, che oltre ad essere riferibile ad eventuali testamenti già fatti in passato poteva però, per una novità introdotta dai glossatori nel silenzio del diritto romano, riguardare anche futuri testamenti quando riportava la dichiarazione da parte del testatore che ogni altro testamento posteriore si sarebbe dovuto considerare come non corrispondente alla sua volontà, a meno che non contenesse una determinata espressione menzionata nella clausola stessa(20). Tale clausola, pensata soprattutto come una cautela per tutelare il testatore dal pericolo di vedere la propria volontà coartata e manipolata con l’avanzare degli anni e della debolezza senile in un successivo testamento, dopo essere stata più volte messa in discussione dalla dottrina di diritto comune, verrà definitivamente accantonata dai codici ottocenteschi (seguiti all’art. 679 dal nostro codice civile vigente) come lesiva di quella revocabilità che costituì sin dall’inizio una delle caratteristiche tipiche del testamento romano(21).
La forma del testamento nuncupativo di cui ci siamo occupati fino ad ora, contraddistinta come si è visto dalla caratteristica della pubblicità, era in genere quella prediletta dai testatori appartenenti ai ceti popolari e comunque alle persone titolari di modeste fortune. I nobili e le persone più qualificate per ricchezze e posizione sociale, titolari invece spesso di patrimoni di una certa rilevanza economica, pur essendo per tale motivo maggiormente inclini a mantenere un certo riserbo sul contenuto delle loro ultime volontà, allo stesso tempo mostravano però di non gradire molto le caratteristiche del testamento solenne in scriptis il quale, se da un lato assicurava una certa segretezza, dall’altro si rivelava poco attraente in quanto assai pericoloso perché soggetto ad essere facilmente annullato prevedendo numerose formalità, sia per la confezione che per l’apertura e pubblicazione, assai difficili da osservare alla perfezione(22). Fu quindi la diffidenza verso tali formalità dell’uno, unita all’insoddisfazione nei confronti dell’eccessiva pubblicità che caratterizzava l’altro, all’origine dell’emersione nel corso del XVI secolo di una forma intermedia - ricondotta dalla dottrina di diritto comune al grande Bartolo in veste di ispiratore - che presentava caratteristiche sia del testamento in scriptis che di quello nuncupativo scritto; essa era infatti contraddistinta, da una parte dalla presenza di una scheda scritta dal testatore di proprio pugno, chiusa e sigillata a tutela della segretezza del contenuto e consegnata quindi al notaio alla presenza dei testimoni, e dall’altra dalla dichiarazione solenne, verbalizzata dallo stesso notaio, circa il fatto che la scheda contenesse il proprio testamento(23). Denominato testamento «nuncupativo implicito» perché il testatore in tal modo istituiva implicitamente il suo erede senza palesarne l’identità, tale tipologia di atto comincia a fare capolino nei formulari notarili del Seicento, come appare nella seconda edizione del Formularium senense che ne riporta una formula di seguito a quella del testamento in scriptis(24); anche se non riuscirà né a soppiantare del tutto quest’ultima tipologia testamentaria con la quale tenderà poi a confondersi, né a contrastare il predominio del testamento nuncupativo scritto ordinario detto quindi «esplicito», il «testamento di nuncupazione implicita» conoscerà una crescente affermazione nei due secoli successivi ponendosi, attraverso la mediazione del Code Napoléon, come antenato dell’odierno «testamento segreto»(25).
Sempre nel corso del Cinquecento la dottrina, partendo figure già presenti nelle fonti romane, sviluppa una teoria relativa ad alcuni testamenti privilegiati con forme straordinarie in cui, in considerazione delle qualità particolari del testatore (ad esempio i militari), o del luogo (le località rustiche del contado, o una nave) e delle circostanze in cui si testava o del contenuto (disposizioni «ad pias causas» o a favore dei figli), si riteneva che non fosse richiesta per la loro validità una rigorosa osservanza di tutte le formalità stabilite in via ordinaria(26); fra questi testamenti «speciali», in cui le deroghe più frequenti riguardavano il numero e le qualità dei testimoni, si segnalarono in particolare quelli «tempore pestis» nell’ambito dei quali, essendo quantomai difficile «propter suspicionem contagionis» trovare persone disposte ad avvicinarsi ai testatori infermi, si riteneva che fosse appunto sufficiente l’intervento di un numero di testimoni inferiore a quello ordinariamente richiesto di sette(27).
Nel corso del XVII secolo, con il consolidarsi degli Stati moderni, si assiste ad una sempre maggiore incidenza del diritto statutario e dei nascenti diritti patri statali sulla disciplina relativa alle formalità testamentarie. In questo ambito si segnalano interventi normativi che, tendenti a favorire particolari opere pie di rilevanza pubblica come ospedali, orfanotrofi e varie istituzioni assistenziali, oppure lo stesso erario, imponevano ai notai, sotto pena di sanzioni, di ricordare tali istituzioni ai testatori esortandoli a fare qualche lascito a loro favore prescrivendo inoltre (a volte persino sotto pena di nullità dell’atto) di inserire nello stesso testamento la relativa menzione di aver assolto a tale obbligo anche nel caso che la risposta del testatore fosse stata negativa. Un interessante esempio di tale fenomeno lo abbiamo nella formula di testamento nuncupativo proposta nella Teorica e pratica de’ notari del notaio genovese Emanuele Vignolo pubblicata per la prima volta nel 1689, che vede appunto inserite nella sezione dedicata ai legati due menzioni del seguente tenore, imposte al riguardo da precedenti decreti statali: Avvisato da me notaro detto testatore se vuole lasciare qualche cosa alla Serenissima Repubblica di Genova, ha detto che volentieri lo farebbe, ma che stante la sua tenue fortuna non ha che lasciargli; avvisato parimente se vuole lasciare qualche cosa alle Opere Pie della Città di Genova, all’opera del nuovo armamento ed altre che vi sono, ha risposto, come sopra, di non avere che lasciargli(28).
Tali formalità non erano certo una peculiarità di Genova, dove peraltro già nei secoli precedenti anche in assenza di espresse prescrizioni furono assai frequenti le disposizioni a favore dell’Ospedale di Pammatone e del Ridotto degli incurabili(29); simili provvidenze comportanti obbligatorie menzioni da parte dei notai nei loro atti sono infatti documentate per esempio anche a Venezia sin dal XIV secolo a favore dell’Ospedale cittadino e così pure a Firenze a favore dei poveri della Congregazione di S. Giovanni Battista, negli Stati Sabaudi a favore degli Ospedali dell’Ordine Mauriziano e a Napoli a favore del Generale Albergo dei poveri(30).
Fra il XVII e il XVIII secolo si assiste nella prassi notarile ad una crescente affermazione del volgare, lingua il cui uso rivestiva una singolare importanza soprattutto nei testamenti ove particolarmente forte era l’esigenza di riprodurre il più fedelmente possibile la volontà del testatore che, espressa chiaramente in lingua volgare (se non addirittura in dialetto), era spesso molto difficile tradurla in maniera efficace in latino per i notai che raramente ormai erano in grado di padroneggiare tale idioma(31). Tale necessità era stata a dire il vero avvertita precocemente a Venezia già nella prima metà del Cinquecento quando, per porre freno alle controversie che nascevano dall’incapacità da parte dei notai nel rendere efficacemente in lingua latina le volontà dei testatori, si stabilì che tutti li notari torranno li preghi delli testamenti et similiter li codicilli, siano obligati quelli scriver volgarmente et notar quelle proprie et istesse parole che dirà il testator a fine ed effetto che si possi dinotar et intender la pura et mera volontà d’i testatori senz’altra exposition(32).
Una scelta meno radicale nei confronti del passato ci viene ancora testimoniata alla fine del secolo successivo in alcuni contesti come quello napoletano in cui, registrandosi ancora un certo attaccamento al latino, sì optò per un compromesso come quello che ci attesta il formulario del notaio Francesco di Ruggiero pubblicato per la prima volta nel 1698 e più volte ristampato nel secolo seguente: l’atto testamentario risultava così bilingue con il protocollo, il proemio e l’escatocollo scritti in latino in ossequio alla tradizione, mentre la parte centrale con le disposizioni testamentarie propriamente dette appariva invece integralmente scritta in volgare a garanzia di una più esatta riproduzione delle volontà del testatore(33).
A parte quello dell’uso della lingua, che vide la pressoché completa affermazione del volgare, l’ultimo secolo di Antico Regime non registrò almeno in Italia particolari novità riguardo alle forme del testamento(34). Queste non mancarono invece di certo con le ripercussioni che ebbe nella Penisola sul finire dello stesso secolo la Rivoluzione importata dalla vicina Francia, consistenti soprattutto in radicali trasformazioni sul piano socio-politico-istituzionale che produssero conseguenze significative in materia testamentaria sia sotto il profilo formale che sotto quello sostanziale. Sotto il primo profilo si assistette subito ad una laicizzazione del testamento con la caduta, insieme all’invocazione iniziale presente sino ad allora in tutti i tipi di atto, di tutti quei riferimenti religiosi alla caducità della vita terrena e all’affidamento alla misericordia divina che a volte contribuivano non poco a dilatare lo spazio dei proemi(35); sotto il secondo con il nuovo diritto codificato, mentre si sancì la scomparsa di quelle complesse disposizioni volte alla costituzione di fedecommessi ormai vietati in linea di principio, vennero quindi portati in auge nuovi istituti e nuove forme testamentarie, prima fra tutte quella del testamento olografo importato dalla tradizione francese di droit coutumier(36).
Abbiamo così un assetto, quello delle tre forme fondamentali di testamento (olografo, pubblico e segreto) che, stabilito dal Code civil napoleonico divenuto per circa un decennio legge comune di tutta la Penisola, verrà sostanzialmente mantenuto dopo il 1814 dalla legislazione di quasi tutte le compagini statuali figlie di una Restaurazione solo in parte reazionaria e nostalgica del passato, come dimostrano fra l’altro le opere notarili pubblicate in tale periodo(37).
Prima di concludere è ancora opportuno spingersi oltre i confini temporali dell’Unificazione nazionale per ritornare a Genova e vedere come il Monitore del Notariato, il primo periodico nazionale di categoria fondato a seguito dell’emanazione della legge di unificazione degli ordinamenti notarili, nel fare la scelta di proporre a puntate un nuovo formulario riflettente la legislazione civile comune a tutto il Regno varata da circa un decennio, confermasse di fatto l’importanza per la vita del notaio della materia delle ultime volontà inaugurando tale iniziativa proprio con una formula di testamento pubblico(38). Da un rapido esame di tale modello, completo di nota specifica delle spese e degli onorari dell’atto, si può poi infine constatare come, accanto a caratteristiche di maggiore modernità espressione della necessità di adeguamento alle novità legislative, coesistesse ancora un certo legame con la tradizione comprovato da alcune assonanze, soprattutto nell’ordine di successione delle clausole, con lo schema seguito nel lontano XII secolo dallo stesso notaio Giovanni Scriba di cui si è parlato all’inizio di questa breve trattazione(39).
(1) Per un inquadramento generale su tale tipo di fonte cfr. L. SINISI, Formulari e cultura giuridica notarile nell’età moderna. L’esperienza genovese, Milano, Giuffrè, 1997, soprattutto p. XI-XXXI, 3-86.
(2) Fra le poche eccezioni di rilievo si segnala oltralpe il Formularium franco di Marculfo del VII secolo che riporta una rara formula, di chiara matrice tardo-romana, di testamento reciproco e congiunto di due coniugi (cfr. Formulae Marculfi, a cura di K. ZEUMER in Monumenta Germaniae Historica - MGH, Legum, sect. V, Formulae, Hanoverae, impensis bibliopolae Hahniani, 1886, p. 86-87); sul fenomeno del progressivo tramonto del «testamento romano», espressione di una crisi dell’istituto che in una certa misura precede anche le stesse invasioni barbariche cfr. E. BESTA, Le successioni nella storia del diritto italiano, Padova, Cedam, 1935, p. 136-142.
(3) Per una sintesi efficace sull’evoluzione del testamento nell’esperienza giuridica romana cfr. M. AMELOTTI, v. Testamento, a) Diritto romano, in Enc. dir., vol. XLIV, Milano, Giuffrè, 1992, p. 459-470; sul concetto di «Rinascimento giuridico» cfr. F. CALASSO, Medioevo del diritto, Milano, Giuffrè, 1954, p. 345-365.
(4) Il cartolare di Giovanni Scriba, a cura di M. Chiaudano, M. Moresco, Torino, Lattes, 1935, I, p. 93-94, 174, 419. Questi tre documenti testimoniano però ancora un certo attaccamento al passato con l’utilizzo della forma soggettiva in prima persona ed il ricorso a qualche espressione arcaica; per esempio, accanto a quella tipica «do, lego», destinata ad essere impiegata comunemente anche nei secoli successivi per le disposizioni a titolo particolare, si utilizza ancora l’espressione «iudico pro anima mea» (invece di «relinquo pro anima mea») che ci riporta a documenti risalenti al secolo precedente, qualificati come «ordinaciones» o «iudicata», i quali si avvicinano molto ai testamenti veri e propri non presentando però perfettamente ancora tutte le caratteristiche formali di questi atti (cfr. ad esempio Gli atti privati milanesi e comaschi del sec. XI, a cura di C. Manaresi, C. Santoro, vol. III [1051-1074], Milano, Comune di Milano, 1965, n. 408, p. 127-128; Le carte bolognesi del secolo XI, a cura di G. Feo, Roma, nella sede dell’Istituto, 2001, vol. I, n. 234, p. 479- 480).
(5) Cfr. Il cartolare di Giovanni Scriba, cit., I, n. CLXXVII, p. 93-94; fra gli elementi caratterizzanti degli atti testamentari, perlopiù ancora assenti (o quantomeno espressi in modo rudimentale) nelle carte dell’XI secolo sopra citate, si segnalano nell’imbreviatura genovese soprattutto l’istituzione di erede («... ex reliquis bonis meis filios meos mihi heredes instituo ...») e la clausola finale, meglio nota come «clausola codicillare» («quae si aliqua sollempnitate iuris fuerit destituta saltim vim codicillorum aut alicuius alie ultime voluntatis vim obtineat atque robur ...» (sulle vicende della clausola codicillare che, di uso assai diffuso nel periodo del diritto romano classico, riaffiora nella seconda metà del XII secolo dopo un lungo periodo di sostanziale eclissi cfr. G. VISMARA, voce Codicillo, in Enc. .dir., vol. VII, Milano, Giuffrè, 1966, p. 290-291 e in ID., Scritti di storia giuridica, VI, Le successioni ereditarie, Milano, Giuffrè, 1988, p. 438-440).
(6) Sul tema cfr. le ancora fondamentali pagine di G. ORLANDELLI, «Irnerio e la teorica dei quattro istrumenti», in Atti della Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna, Rendiconti, vol. LXI, 1973, p. 112-124.
(7) Wernerii formularium tabellionum, a cura di G.B. Palmieri, in Bibliotheca iuridica Medii Aevi (Scripta anecdota glossatorum), vol. I, Bononiae, in aedibus Societatis Azzoguidianae, 1913 (seconda ed.), p. 11-45.
(8) Sull’erroneità della attribuzione ad Irnerio, già prontamente evidenziata dal Patetta nel 1895, del formulario contenuto nel codice magliabechiano XXIX, 206 conservato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, cfr. E. BESTA, L’opera di Irnerio, Torino, Loescher,1896 (rist. anast. Bologna, Forni, 1980), p. 181-184.
(9) L’autore sottolinea il fatto che, nonostante la qualifica di «caput et fundamentum» del testamento, di chiara derivazione romanistica (Inst. 2.20.34) e destinata ad essere ripresa in tutte le successive opere di notariato, l’istituzione di erede si potesse porre anche dopo altre disposizioni come ad esempio i legati «pro anima» (cfr. Wernerii formularium ..., cit., lib. III, p. 32).
(10) In una linea più teorica che pratica questo tipo di testamento poteva infatti, secondo le antiche forme romane, essere anche del tutto orale («sine aliqua scriptura») compiendosi in due fasi distinte con una prima, senza l’intervento del notaio, consistente nella sola dichiarazione orale delle proprie ultime volontà da parte del testatore di fronte a sette testimoni idonei, ed una seconda in cui, dopo la morte del testatore, il magistrato su richiesta di un interessato provvedeva ad interrogare i testi, a suo tempo intervenuti, facendo redigere dal notaio l’atto scritto sulla base delle loro dichiarazioni; come dimostra il formulario pseudoirneriano, che afferma la prevalenza ai suoi tempi del testamento nuncupativo scritto dal notaio sul testamentum in scriptis, la regola era appunto che il notaio provvedesse a redigere subito per iscritto le volontà dichiarategli dal testatore alla presenza dei testimoni (cfr. ibidem, p. 32-33; per una testimonianza al riguardo di analogo contenuto, di poco successiva ma di carattere dottrinale, cfr. ODOFREDUS, In secundam Codicis partem praelectiones quae lecturae appellantur, Lugduni, [Compagnie des libraires], 1550 [rist. anast. Bologna, Forni, 1968], ad C. 6. 23. 21, c. 41r).
(11) L’importanza fondamentale della materia delle ultime volontà come una di quelle tre «in quibus ... artis notariae cognitio tota consistit» viene subito dichiarata da Ranieri all’inizio della sua opera (cfr. Die Ars Notariae des Rainerius perusinus, a cura di L. WAHRMUND, in Quellen zur Geschichte des römisch-kanonischen Prozesses im Mittelalter, III, 2, Innsbruck, Wagner, 1917 (rist. anast. Aalen, Scientia, 1962), prohemium, p. 1).
(12) Non si conosce con precisione la data di redazione del Flos che comunque va collocata dopo la stesura del cap. VIII della Summa (1255 c.a.) e prima del 1295, unico elemento cronologico fornitoci dal solo manoscritto datato di tale opera (sui manoscritti del Flos e sulle ipotesi di datazione cfr. M. BERTRAM, «I manoscritti delle opere di Rolandino conservati nelle biblioteche italiane e nella Biblioteca vaticana», in Rolandino e l’Ars Notaria da Bologna all’Europa, Atti del Convegno Internazionale di Studi Storici, Bologna 9-10 ottobre 2000, Milano, Giuffrè, 2002, p. 696-698; bisogna comunque sottolineare il fatto che il capitolo VIII della Summa, consistendo in un’agile trattazione della materia delle ultime volontà in cui la spiegazione teorica prevale sull’apparato di formule, si differenziava già notevolmente dal taglio essenzialmente pratico dei primi sette costituenti la prima parte dell’opera principale del maestro bolognese.
(13) G. CHIODI, «Rolandino e il testamento», in Rolandino e l’Ars Notaria ..., cit., p. 461-582.
(14) ROLANDINUS RODULPHINI, Flos testamentorum, in ID., Summa totius artis notariae, Venetiis, apud Iuntas, 1546 (rist. anast. a cura del Consiglio Nazionale del Notariato, Bologna, Forni, 1977), t. I, c. 241rv.
(15) GULIELMUS DURANDUS, Speculi secunda pars, Lugduni, Iacobi et Ioannis Senetonum fratrum sumptibus, 1548, partic. II, §. Testamenta qualiter impugnentur, c. 125r-130r.
(16) Un esempio evidente di un ordine differente nella successione delle singole parti dovuto ad un differente uso locale lo abbiamo in un formulario notarile cremonese di primo Quattrocento che al riguardo stabilisce: «in testamento primo ponitur prohemium, secundo heredis institutio, deinde substitutio, quarto legata, postmodum provide dispositiones testatoris, ultimate clausula finalis» (Formulae instrumentorum Cremonae, in Due formulari notarili cremonesi - sec. XIV-XV, a cura di E. FALCONI, Roma, Consiglio Nazionale del Notariato, 1979, p. 248).
(17) Cfr. I.B. DE MADIIS, Compilatio plurimorum ad tabellionum officium pertinentium, Brixiae, apud Thomam Bozolam, 1571 (seconda edizione); sull’autore e sulla sua opera, pubblicata più volte (sempre a Brescia) sino almeno al 1619, data dell’ultima edizione conosciuta, cfr. L. SINISI, Formulari e cultura giuridica ..., cit., p. 41-44.
(18) Cfr. I.B. DE MADIIS, Compilatio plurimorum ..., cit., Pars secunda, n. 9, «Testamentum quod dicitur nuncupativum sine scriptis scilicet sine solennitatibus, quod pro maiori parte servatur et est tutius omnibus aliis ultimis voluntatibus». Circa la pericolosità del testamentum in scriptis, all’origine della sua scarsa utilizzazione nella pratica, dovuta in particolare alla quantità e alla macchinosità delle formalità previste sia in sede di redazione e consegna che di pubblicazione, una testimonianza importante risalente allo stesso secolo la si può trovare in ROLANDUS A VALLE, Consilia sive responsa, Lugduni, apud Stephanum Michaelem, 1588, vol. I, cons. XXXVI, p. 145-148.
(19) L’avvio dei due proemi è lo stesso e fissa, in una forma («Cum nihil sit certius morte e nihil incertius hora eius») fra le più diffuse fra la fine del Medioevo e i primi secoli dell’Età moderna in molte aree geografiche, la base giustificativa comune dell’atto, sia per il sano che per l’infermo, rappresentata dall’ineluttabilità della morte per ciascun essere vivente e dall’incertezza per tutti del tempo in cui tale evento si verificherà. I formulari notarili dei secoli XV-XVI propongono a volte molteplici varianti di proemi che però, con maggiore o minore prolissità, ricalcano spesso lo stesso concetto mettendo sempre in evidenza l’opportunità di stabilire per tempo la destinazione dei propri beni per evitare le, spesso chiaramente paventate, conseguenze negative di una successione intestata; fra i più ricchi in questo senso si segnala un raro formulario di area veneta pubblicato agli inizi del Cinquecento che riporta ben quattordici diversi modelli di prologo (cfr. Formularium instrumentorum secundum usum Venetorum et Cretensium, Venetiis, per Simonem de Luere, 1505, c. 39r-40v).
(20) In una sezione teorica dedicata specificatamente alla clausola derogatoria l’autore non manca di proporre degli esempi molto chiari come quello riportato qui di seguito: «ac etiam iubeo et dispono et caetera ut supra hanc meam ultimam voluntatem praevalere omnibus, et quibuscunque aliis, quas de caetero apparuerit me fecisse. Et si quaecunque, vel cuiuscunque generis aliqua alia ultima voluntats post hanc, vel in futurum per me facta diceretur, vel appareret, volo illam penitus non valere, nec ullum effectum habere, nec ei ullam fidem adhiberi...nisi in ea scripta essent haec verba, surgite mortui venite ad iudicium» (I.B. DE MADIIS, Compilatio plurimorum ..., cit., Pars secunda, n. 6; si noti la scelta a titolo esemplificativo come frase di riferimento di quella decisamente evocativa tratta da una lettera di S. Girolamo e riprodotta in molti affreschi tardomedievali riproducenti la scena del giudizio universale).
(21) Sul principio di chiara matrice romanistica (D. 34.4.4) dell’impossibilità di rinunciare in qualsiasi forma alla libertà di revocare o cambiare le disposizioni fatte per testamento, riconosciuto implicitamente nel Code Napoléon (art. 1035) ed esplicitamente dal Codice albertino del 1837 (art. 908) ripreso alla lettera dal Codice civile unitario del 1865 (art. 916), cfr. A. CICU, Le successioni. Parte generale - successione legittima e dei legittimari - testamento, Milano, Giuffrè, 1947, p. 287-289.
(22) Sui motivi che portarono all’elaborazione e all’affermazione di una «nuova specie mista» di testamento definito «nuncupativo di nuncupazione implicita» si veda l’interessante ricostruzione di G.B. DE LUCA, Il dottor volgare, Colonia, a spese di Modesto Fenzo, 1740, t. III (Lib. IX, P. I, Delli testamenti e codicilli e delle altre ultime volontà), p. 460-462.
(23) Il passo bartoliano, richiamato pressoché da tutti i giuristi successivi, si riferiva in realtà più genericamente alla possibilità di testare per relationem a quanto scritto in un altro documento identificato mediante l’indicazione («apud guardianum fratrum minorum») del depositario ed implicitamente del luogo ove il documento era conservato (BARTOLUS A SAXOFERRATO, In secundam Infortiati partem commentaria, Augustae Taurinorum, s.t., 1589, ad D. 35.1.38, c. 148v). Ad una linea più rigorosa che ammetteva la validità di tale forma solo limitatamente ai legati, essendo invece richiesta necessariamente nel testamento nuncupativo la dichiarazione solenne di fronte ai testimoni del nome dell’istituito erede come si afferma ancora in un intervento specifico sul tema anche nel caso del «testamentum nuncupativum mixtum» (cfr. L. LANA, De testamentorum formulis enchiridion, Venetiis, ex officina Iordani Ziletti, 1574, c. 8v), se ne oppose un’altra contraria destinata a prevalere secondo la quale «satis enim videtur testator suam voluntatem testibus manifestasse, saltem implicite, per relationem ad illam cedulam sive scripturam» (I. CLARUS, Ex libro tertio Sententiarum receptarum, §. Testamentum, in ID., Opera omnia, Lugduni, sumpt. Philippi Tinghi, 1575, q. III, c. 2v; un’elencazione minuziosa dei dottori «scribentes» aderenti a tale linea maggioritaria che si pone all’origine del riconoscimento della prassi dei «testamenta nuncupativa nuncupatione implicita» si trova in I.B. DE LUCA, Theatrum veritatis et iustitiae, Venetiis, apud Paulum Balleonium, 1706, Lib. IX, P. I, De testamentis, codicillis et ultimis voluntatibus, disc. I, p. 2).
(24) Cfr. Formularium senense serenissimo Cosmo tertio Magno Etruriae Duce VI imperante recusum, Senis, Publicis typis, 1686, «Testamenti nuncupativi nuncupatione implicita formula», p. 297-298. È da sottolineare il fatto che nella prima edizione dello stesso formulario, pubblicata sempre a Siena ma per ordine di Ferdinando I nel 1592, tale formula non compaia ancora risultando quindi come uno dei più importanti elementi di aggiornamento inseriti nella seconda edizione; fra gli elementi di peculiarità che distinguono il formulario senese in materia testamentaria si segnala uno spazio singolarmente ampio dedicato alle formule di svariate tipologie di disposizioni a titolo particolare (ben quarantuno!) fra le quali si segnalano ad esempio quella del legato riparatorio («Legatum male ablatorum») a favore di poveri o pie istituzioni fatto dal testatore «pro exoneratione suae conscientiae et salute animae suae» in relazione a somme provenienti da guadagni disonesti o quella singolare del «Legatum Meretrici» subordinato ad una comprovata volontà da parte della beneficiaria di pentirsi e di vivere onestamente (cfr. Formularium senense ..., cit., p. 258-259, 276; sul formulario senese e sulle caratteristiche delle sue due edizioni cfr. L. SINISI, Formulari e cultura giuridica ..., cit., p. 50-52).
(25) Il collegamento è indicato da alcuni commentari ottocenteschi che mettono in rilievo le assonanze fra il testamento «di nuncupazione implicita» della tradizione italiana e quello «mistico o segreto» della tradizione transalpina recepito nel Code civil (cfr. ad esempio AA.VV., Manuale forense, ossia confronto fra il Codice albertino, il diritto romano e la legislazione anteriore con rapporto ed illustrazioni dei corrispondenti artt. del Codice civile francese ed austriaco, Torino, Pomba, 1839, vol. IV, p. 321-323).
(26) Le peculiarità delle disposizioni «ad pias causas» e «inter liberos», dei testamenti dei militari e di quelli fatti «in iure per rusticos» sono fra gli altri evidenziate da I. CLARUS, Ex libro tertio ..., cit., q. VIII, XV, LVI, p. 7, 12, 47 e, in ambito specificatamente notarile, da P.D. DE MUSSIS, Formularium instrumentorum, Venetiis, apud Hieronymum Cavalcalupum, 1565, cap. LXXXVII, c. 255r.
(27) Il numero di cinque poteva in alcuni casi scendere ulteriormente a due (cfr. I.F. RIPA A SANCTO NAZARIO, Iuridicus de peste tractatus, in ID., In secundum Decretalium librum commentaria una cum eiusdem utilissimo tractatu de peste, Venetiis, apud Iuntas, 1575, §. De privilegiis ultimarum voluntatum causa pestis, c. 44r). Nella prassi si riscontrano ulteriori particolarità che, nate da esigenze empiriche di cautela, a differenza di quella relativa al numero dei testimoni non vengono di regola codificate nei formulari, così come testimonia il caso tramandatoci da un testamento genovese degli inizi del Cinquecento nella cui formula di chiusura indicante il luogo di ricezione troviamo: «prope domum ipsius testatricis ipsa ad fenestram existente testibus autem et me notario infrascriptis in platea stantibus ob pestis suspicionem» (Archivio di Stato di Genova - ASG, Notai Antichi, 1442, not. Raffaele Ponsone, testamento di Pereta de Conestagio in data 29 giugno 1504; per alcune testimonianze coeve e successive relative alla diffusione di tale pratica anche in altri contesti italiani cfr. A. PASTORE, «Testamenti in tempo di peste: la pratica notarile a Bologna nel 1630», in Società e storia, 16, 1982, p. 270-271).
(28) E. VIGNOLO, Teorica e pratica de’ notari, Milano, nelle stampe dell’Agnelli, 1689, cap. XXIV, p. 278 (sull’autore e sulla sua opera cfr. L. SINISI, Formulari e cultura giuridica ..., cit., p. 303-369); vista la rilevanza per l’esercizio della professione delle norme che imponevano ai notai l’espletamento di tali formalità nel ricevere i testamenti, era stato pubblicato per iniziativa del Collegio genovese un opuscolo da distribuire ai notai in cui erano raccolti tutti i provvedimenti normativi emanati al riguardo dalla Repubblica fra la fine del XV secolo e la prima metà del Seicento (cfr. Compendium eorum ordinum quibus tenentur notarii in ultimis voluntatibus memorari testatoribus legata Pia et Publica, typis datum de mandato Praestantissimorum Dominorum Rectorum et Consiliariorum Venerandi Collegii Dominorum Notariorum Genuae, Genova, per Pier Giovanni Calenzani, 1645).
(29) Di tale fenomeno, documentato perlomeno a partire dagli inizi del secolo XVI negli atti di molti notai genovesi, ci fornisce una testimonianza singolarmente incisiva il notaio Giacomo Romairone che nelle sue imbreviature di testamenti, conservate in una filza dedicata specificatamente alla conservazione di tale tipologia di negozio secondo un uso che si affermerà soprattutto nei due secoli successivi, trascrive quasi sempre dopo il proemio disposizioni a titolo particolare a favore dell’Ospedale di Pammatone, dell’Ospedale degli Incurabili detto comunemente «Ospitaletto», e dell’Ufficio dei poveri (cfr. ASG, Notai Antichi, 2216, not. Giacomo Romairone senior).
(30) Cfr. nell’ordine M.A. BIGALEA, Capitulare legum notariis publicis Venetiarum et ex parte aliarum civitatum Serenissimi Veneti Dominii, Venetiis, apud Andream Poleti, 1689, decr. 26 giugno 1375, p. 16; A.Ph. MONTELATICI, Iurisprudentiae civilis elementa...ad Formularii florentini ornatum et neotericorm tabelllionum ornatum, Florentiae, ex Typographia Bonducciana, 1777, t. I, bando 31 marzo 1730, pp. 290- 293; A. SPEZZACATENA, Formolario pratico-legale per uso dei notai, Napoli, nella stamperia di Aniello de Dominicis, 1798, t. II, parte IV, art. I, p. 210; Manuale del Notajo e dell’Insinuatore, Torino, presso Domenico Orgeas, 1815, form. VI, p. 112-113.
(31) Sul problema della lingua negli atti notarili in Età moderna, risolto in maniera drastica per tutte le tipologie di atti, sia negoziali che giudiziari, a favore del volgare già nel corso del XVI secolo solamente però in alcuni contesti come quello della Francia e degli Stati sabaudi, cfr. L. SINISI, Formulari e cultura giuridica ..., cit., p. 44-45.
(32) M.A. BIGALEA, Capitulare legum ..., cit., parte in data 25 gennaio 1531, p. 46-47.
(33) F. DI RUGGIERO, Prattica de’ notari, Napoli, Stamperia di Francesco Laino, 1713 (rist. anast. a cura di A. De Feo, Napoli, 1993), Testamento nuncupativo, form. I, p. 279-280.
(34) Una conferma di questa situazione di sostanziale stabilità nelle forme e nei contenuti dei testamenti (eccezion fatta per una progressiva diminuzione dei lasciti pii) la troviamo ad esempio nel contesto milanese (sul tema cfr. S.T. SALVI, Tra privato e pubblico: notai e professione notarile a Milano (secolo XVIII), Milano, Giuffrè, 2012, p. 185-216); in Francia, per contro, si registra nel 1735 un intervento legislativo specifico che sancisce un riordinamento della materia destinato a porre le basi per quella che sarà la disciplina testamentaria accolta nella codificazione ottocentesca (sul tema cfr. H. REGNAULT, Les Ordonnances civiles du Chancelier Daguesseau, II, Les testaments et l’Ordonnance de 1735, Paris, Sirey, 1938, soprattutto p. 320-325).
(35) È sufficiente confrontare una formula di testamento tratta da uno dei più diffusi formulari notarili di epoca napoleonica con quelli non solo italiani, ma anche francesi di Ancien Régime, per vedere come l’atto sia da allora caratterizzato da una certa scarna essenzialità: «A comparu sieur ... lequel a dicté en presence des témoins son testament a nous notaires qui l’avons écrit tel qu’il nous a eté dicté. A légué le testateur a sieur ...» (cfr. A. GOUX, Manuel du notaire, Touluse, de l’Imprimerie de Bellegarrigue, 1811, p. 370-373).
(36) A parte il caso del testamento inter liberos, ammesso dal diritto giustinianeo e al quale veniva riconosciuta piena validità anche quando era stato redatto e sottoscritto dal testatore senza l’intervento di alcun testimone, nel contesto italiano non era previsto un qualcosa di simile al testamento olografo, tipologia testamentaria che venne quindi recepita in forza del Code Napoléon che la contemplava insieme a quelle del testamento pubblico e del testamento segreto o mistico (sulle vicende del testamento olografo in Italia cfr. I. SOFFIETTI, «Osservazioni su particolari forme di testamento negli Stati Sabaudi dal XVI secolo all’Unità», in Rassegna degli Archivi di Stato, XXXVI (1976), n. 2, passim).
(37) Se alcune ci attestano, da un lato una certa apertura da parte del governo nei confronti del previgente diritto francese mediante ad esempio la conservazione del testamento olografo, ma dall’altro un ritorno ad elementi stilistici di Antico Regime come le invocazioni iniziali e i prologhi con affidamento alla misericordia divina seguiti da legati pii (cfr. P. CECCHI, G.B. CECCHI, Formulario ad uso dei notari d’Italia e specialmente dei toscani, Firenze, Stamperia del Giglio, 1816, t. II, P. II, p. 154-155, 178-183), altre ci testimoniano invece una maggiore adesione alla disciplina del Codice napoleonico e conseguentemente anche allo stile più asciutto e quasi sempre povero di riferimenti di natura religiosa (cfr. D. GAZZILLI, Scienza notariale, Napoli, Raffaele Miranda, 1827, t. II, p. 70-76, 140-141, 156-160); sulla peculiare situazione del Regno di Sardegna che vide durante la Restaurazione la scelta da parte del legislatore di abolire la forma del testamento olografo, ritenuta pericolosa ed idonea facilmente «a lasciar adito a frodi» (V. RACCA, Manuale del testatore, Novara, Tip. Ibertis, 1838, p. 6), e di ripristinare, accanto a quelle mantenute del testamento pubblico e del testamento segreto, quella dei testamenti presentati ai competenti organi giudiziari (Senati o Tribunali provinciali sedenti in capoluoghi non sedi di Senati), cfr. I. SOFFIETTI, «Osservazioni su particolari forme di testamento...», cit., p. 428-447.
(38) Sul Monitore del Notariato, importante periodico notarile fondato nel 1875 dall’avvocato Bernardo Cassini e destinato a fondersi con il Rolandino di Cino Michelozzi e quindi a sopravvivere col nome di Rolandino-Monitore del Notariato fino alla seconda metà del Novecento, cfr. L. SINISI, Notariato e scienza notarile fra unità nazionale e unificazione legislativa: il contributo genovese, in Progresso scientifico e sapere accademico nella costruzione dello Stato. Riflessioni a 150 anni dall’Unità d’Italia, a cura di P. Massa e GB. Varnier, Genova, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, 2012, p. 249-254.
(39) Si segnala in particolare la scelta di far precedere ancora, secondo l’antico costume, all’istituzione di erede le varie disposizioni a titolo particolare (cfr. Formolario, in Monitore del Notariato, a. I, n. 1, «Testamento», p. 13-16).
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