Una riforma originale nel solco della tradizione: il libro delle successioni e il testamento dagli autori ai primi interpreti
Una riforma originale nel solco della tradizione: il libro delle successioni e il testamento dagli autori ai primi interpreti
di Giovanni Chiodi
Ordinario di Storia del diritto medievale e moderno, Università Milano-Bicocca
Il testamento nel libro delle successioni: una svolta storica?
Il primo Novecento è un periodo importante per l’elaborazione del diritto delle successioni. La dottrina italiana continua a spendere cospicue forze intellettuali nello studio di questo ramo del diritto civile, che si rivela ancora centrale nelle preferenze dei civilisti. Per rimanere al testamento, alle opere sempre consultate di maestri quali Emidio Pacifici-Mazzoni, Francesco Filomusi-Guelfi e Nicola Coviello(1), si aggiungono negli anni Trenta i testi di Calogero Gangi(2), Mario Allara(3), Nicola Stolfi(4), Vittorio Polacco(5), Francesco Degni(6), Lodovico Barassi(7), e poi, negli anni Quaranta, oltre ai volumi aggiornati di Gangi, Barassi e Cicu(8), quelli di Azzariti e Martinez(9), e i primi commentari.
Sono opere in larga misura inesplorate nel loro valore storico, anche se costantemente tenute presente dalla dottrina successiva, secondo un favore caratteristico della civilistica che si occupa di diritto ereditario, attenta a valorizzare le proprie radici. Si tratta anche di lavori che sono espressione di metodi differenti, in cui la storia, la comparazione e la ricostruzione dogmatica sono elementi presenti in misura variabile a seconda della personalità del singolo autore.
Non è però del patrimonio di idee contenuto in tali opere che è possibile occuparsi in questa sede. Lo scopo che mi propongo è un altro: quello di esaminare, come già in altro luogo mi è accaduto di fare in materia di diritti successori dei figli naturali e del coniuge(10), la costruzione del libro delle successioni e l’accoglienza ad esso riservata dalla civilistica coeva. Negli anni Trenta e Quaranta, infatti, si svolge anche la riforma del diritto delle successioni, nell’ambito del nuovo codice civile. Parte della civilistica è impegnata nella stesura delle nuove norme, che poi costituiranno l’ordito di un rinnovato dibattito interpretativo.
L’elaborazione dei libri del codice civile è materia complessa sulla quale la storiografia ha prodotto ricerche che però non hanno dato risposta a tutti gli interrogativi storici che un evento così importante è destinato a sollevare. Occorre sottolineare subito che un’indagine del genere presenta dei limiti, a causa soprattutto dello stato documentario delle fonti. Non è agevole, infatti, ricostruire i dibattiti avvalendosi esclusivamente dei lavori preparatori pubblicati, che spesso sono laconici proprio nei punti che interessano di più. In molti casi, la documentazione può essere integrata attraverso archivi inediti: ma spesso anche queste carte preziose non ci restituiscono tutto ciò che vorremmo trovare in esse. Pur con questi limiti, è sempre vivo l’interesse che l’iter di elaborazione del codice civile suscita. Cercherò allora, in questa prima ricognizione del materiale, di svolgere alcune riflessioni sulla formazione del libro delle successioni, attenendomi alla sola materia testamentaria, Nel fare ciò, si deve aggiungere che sarebbe indispensabile chiarire preliminarmente il quadro in cui si pose il lavoro dei codificatori. Sarebbe cioè necessario, oltre che utile, avere precisa conoscenza del contesto scientifico nel quale essi operavano: il che è possibile fare leggendo i loro scritti e quelli dei civilisti della medesima stagione creativa. Un lavoro completo di questo tipo esula dai confini di questo contributo, che si presenta come un primo sondaggio su alcuni problemi e su alcune ipotesi ermeneutiche sviluppate dai primi interpreti del codice civile.
Su questo libro del codice, come è noto, e sulle innovazioni realizzate nel diritto testamentario, pesano giudizi di sostanziale immobilismo(11). Se prendiamo in esame le disposizioni sul testamento, tuttavia, ci accorgiamo che, benché i compilatori abbiano operato con l’intento di mantenere ferme le basi dell’edificio e di non sovvertirne le fondamenta (il che era già, all’epoca, un primo risultato politico non trascurabile), essi hanno comunque realizzato non poche modifiche sostanziali, intervenendo su questioni aperte e colmando lacune della precedente disciplina. Intendo dire che il codice, in questa parte più conservatore e aderente alla tradizione liberale di altre, è comunque frutto di scelte, alcune delle quali significative, che hanno fatto fare passi avanti alla materia e ne hanno aggiornato la base normativa.
Certamente, anche in materia testamentaria il libro delle successioni non ha corrisposto fino in fondo alle aspettative di riforma di parte della dottrina. Anche in questo ambito, inoltre, si sono verificate divergenze nel corso dei lavori preparatori, come mi è accaduto di verificare per la successione dei figli naturali e del coniuge, che era il problema politicamente più delicato della riforma. Mi sembra tuttavia che, a fronte dei limiti e delle prudenze, debbano essere messi in luce anche i pregi del lavoro tecnico compiuto dalla commissione, nel rivedere la disciplina di questo ramo del diritto successorio. È questo lo scopo che mi porta a ripercorrere i sentieri della codificazione, nella duplice prospettiva detta sopra. È il caso di avviare queste considerazioni con le parole degli autori del codice, che ci restituiscono la percezione che loro stessi ebbero del lavoro compiuto e dei risultati raggiunti.
Tra tanti, un brano rilevante, e quindi meritevole di attenzione, è il seguente: «Il libro delle successioni e delle donazioni non reclama la creazione di nuovi istituti giuridici, come è avvenuto per il diritto delle persone e per il diritto di famiglia. Trattasi, tuttavia di materia che, per la delicatezza e la gravità degli interessi che tocca e per il grande numero di questioni alle quali hanno dato luogo le singole disposizioni, merita una profonda e accurata opera di revisione»(12).
Così Mariano D’Amelio introduceva nel 1936 il progetto preliminare dell’allora terzo libro del codice civile. Dal suo discorso emerge un dato significativo: l’idea che i compilatori avevano - o volevano che si avesse - di questo libro del codice, che veniva presentato più come una riforma o una revisione del sistema vigente, che come una sua radicale trasformazione, diversamente da ciò che si sarebbe invece almeno in parte realizzato con il libro quarto delle obbligazioni. Il libro delle successioni assumeva dunque le sembianze di un accurato e puntiglioso aggiornamento della materia, secondo una prospettiva di continuità che D’Amelio avrebbe ribadito nel 1941, nell’introduzione del commentario da lui diretto.
Uno scritto, quest’ultimo, del quale non dobbiamo trascurare un ulteriore elemento decisivo. Esso era infatti inteso anche a rassicurare chi si sarebbe potuto attendere novità rivoluzionarie dal regime, come emerge in particolare dal seguente passaggio: «chi prenda in mano il nuovo testo del libro delle Successioni e delle Donazioni … non deve cercarvi delle grandi novità. Il nostro diritto successorio ha basi salde in un’antichissima tradizione e nessuno ha pensato mai di scuoterle. … Il Regime rispetta e protegge la proprietà privata, pure affermandone il carattere sociale»(13).
Così rinsaldato il rapporto tra diritto di proprietà e diritto di disporre mortis causa dei propri beni, D’Amelio poteva affermare che il libro conteneva «principî antichi e sempre nuovi, come la profonda verità umana che racchiudono».
D’altro canto, egli poteva anche dichiarare che la riforma non si era arrestata lì: essa aveva anche inteso circondare la libertà testamentaria di limiti più rigorosi, revisionando le quote di riserva soprattutto dei figli illegittimi e del coniuge. I diritti dei legittimari costituivano per l’appunto il secondo pilastro sul quale il libro era stato edificato e al quale erano dedicate anzi le disposizioni «più minute e precise»(14). A tali testimonianze sul peso che gli autori stessi vollero dare alle nuove norme si deve aggiungere quella autorevolissima del più importante nume tutelare dell’impresa codificatoria, Filippo Vassalli, che con la consueta acutezza, in un passaggio del proprio discorso di presentazione del codice tenuto nel 1942, manifestò un’opinione analoga: nel secondo libro gli «emendamenti tecnici» erano prevalsi sulle «innovazioni sostanziali» e ciò era naturale «non essendovi nel diritto successorio che due momenti di rilievo politico, l’ammettersi o negarsi la trasmissione dei beni a causa di morte, il riconoscere o negare, data la prima soluzione, l’efficacia della volontà del titolare dei beni rispetto alla devoluzione dei medesimi». Era stato proprio quest’ultimo il terreno di scontro più acceso, perché se era vero che la riforma aveva tenuta «ferma la successione nei beni, come esplicazione del diritto di proprietà privata», essa aveva poi ridotto la quota disponibile e realizzato almeno in parte un più favorevole trattamento del coniuge e dei figli naturali nella successione intestata e necessaria(15).
Per questa doppia anima il libro delle successioni, reso autonomo dal libro della proprietà e contenente da un lato il riconoscimento della facoltà di testare e dall’altro le regole di successione legittima e necessarie ispirate alla tutela della famiglia, godette anche della stima di Barassi, che era stato uno dei suoi artefici(16). Il bilanciamento tra proprietà e famiglia fu dunque la nota peculiare più apprezzata anche del nuovo diritto delle successioni(17).
Giova ricordare che la stesura del libro delle successioni era stata affidata a una commissione di specialisti, che comprendeva Emilio Albertario, Alfredo Ascoli, Gaetano Azzariti, Lodovico Barassi, Gerolamo Biscaro, Roberto de Ruggiero, Calogero Gangi, Fulvio Maroi, Filippo Vassalli.
Il progetto preliminare (marzo 1936) fu per alcuni aspetti ambizioso, con innovazioni radicali per l’epoca in materia di successione legittima dei figli naturali e del coniuge, ma il comitato ministeriale ristretto (di cui facevano parte Vassalli, Albertario, Azzariti, Venzi) e il Guardasigilli Arrigo Solmi fecero poi marcia indietro, di fronte all’opposizione manifestata da alcuni esponenti dei tre settori in cui si divideva l’opinione pubblica consultata nel corso dei lavori preparatori, formata dalle corti giudiziarie di grado più elevato (Cassazione e corti d’appello; Consiglio di Stato), dalle università e dai sindacati degli avvocati e procuratori, le cui osservazioni, pubblicate nel 1937, restituiscono un quadro piuttosto vivace di opinioni sul tema. Si giunse così al progetto definitivo (1937), che siglò su molti punti un ritorno all’antico, anche se il contributo innovativo del progetto preliminare non andò del tutto perduto. Il dibattito riprese davanti alla commissione parlamentare presieduta da Mariano D’Amelio, che iniziò i suoi lavori il 22 gennaio 1938 per concluderli il 22 febbraio 1939. Dopo un’ulteriore revisione di Filippo Vassalli e Rosario Nicolò, e un altro passaggio in comitato, il libro (ora secondo) fu licenziato, pubblicato separatamente con autonoma numerazione (e annessa relazione a firma del Guardasigilli Dino Grandi), promulgato il 26 ottobre 1939 e reso infine efficace dal 21 aprile 1940(18).
Successione legittima e testamentaria: il problema della gerarchia
Come vedremo nella sintetica esposizione che segue, il lavoro di revisione non comportò solo riformulazioni di regole già esistenti, ma anche creazione di regole nuove.
Il codice, innanzitutto, riconosce espressamente la successione testamentaria accanto alla successione legittima e attribuisce di regola a chiunque il diritto di testare. I compilatori vollero infatti ribadire, fin dall’avvio del loro lavoro, un principio cardine dell’ordine liberale quale il potere di disporre dei propri beni mortis causa, assicurando così, per usare parole di Mengoni, che «fondamento della successione testamentaria è il diritto di proprietà e, in genere, il potere del privato di disporre dei propri beni. L’interesse primario, direttamente tutelato dalle norme sulla successione testamentaria, è dunque l’interesse individuale del testatore»(19).
Anche subito dopo il codice, la dottrina fece rilevare che il testamento era da considerarsi come un’emanazione del diritto di proprietà e che quindi esso serviva a soddisfare anche interessi individuali. Antonio Cicu, ad esempio, che era notoriamente fautore della preminenza della successione legittima sulla testamentaria, poteva affermare che «il diritto di testare, come diritto di disporre dei propri beni per dopo la morte, è, così come il diritto di disporre dei propri beni in vita, inerente al diritto di proprietà privata»(20).
Quanto al rapporto tra successione legittima e testamentaria, il codice, nella sua versione definitiva, mantiene la stessa «formula agnostica», come efficacemente l’ha definita Mengoni, del codice precedente, «fedele al principio romano che attribuisce alla successione legittima il secondo posto, nel senso che essa può aver luogo soltanto quando non si attui la successione testamentaria»(21).
In realtà, ciò è il frutto di un ripensamento. Se l’art. 2 del progetto preliminare contemplava sostanzialmente la stessa formula dell’art. 720, c.c. 1865(22), pur integrata con il riferimento ai limiti imposti dal rispetto dei diritti dei legittimari(23), già nelle osservazioni delle università comparivano accenti critici nei confronti delle scelte individualistiche del progetto preliminare, particolarmente insistenti soprattutto da parte di Antonio Cicu, che reclamava una più decisa affermazione dell’interesse superiore della famiglia a scapito del favor testamenti(24).
Il mutamento di rotta fu sancito dall’art. 2 del progetto definitivo, che affermò a chiare lettere il valore preminente della successione legittima: «L’eredità si devolve per legge. Può anche essere devoluta, in tutto o in parte, per testamento, ma le disposizioni testamentarie non possono in ogni caso pregiudicare i diritti che la legge riserva alle persone indicate nel capo decimo di questo titolo»(25). La relazione giustificò l’innovazione, dicendo che si era voluto sancire in modo più deciso il distacco dal dogma della volontà e del favor testamenti e soprattutto affermare il nuovo orientamento politico del diritto privato, di cui era espressione anche l’abolizione della regola sabiniana in materia di condizioni illecite o impossibili: «la nuova legge sulle successioni, avendo riguardo a quelli che sono i postulati etici e giuridici della dottrina fascista, afferma con giusto rigore che l’attività individuale deve essere sempre diretta a fini socialmente utili»(26).
La formula dell’art. 2 del progetto definitivo, tuttavia, fu abbandonata per le critiche ricevute nella commissione parlamentare. Tra gli argomenti addotti vi era quello che la questione, oltre che dover essere lasciata all’interpretazione dottrinale, non fosse di alcuna utilità pratica(27). L’assunto in realtà si poteva contestare, perché effetti pratici si sarebbero potuti riscontrare riguardo a più di una questione: quanto all’applicabilità del principio di conservazione nell’interpretazione del testamento, ad esempio, oppure al regime delle condizioni impossibili e illecite. L’innovazione comunque cadde(28) e la questione del rapporto tra le due delazioni fu lasciata alle riflessioni della dottrina, che in effetti non mancò di discutere sul punto, preferendo in un primo momento affermare la preminenza della successione legittima sulla testamentaria(29).
Vero è che il testamento, anche nel nuovo codice, non serviva solo a soddisfare interessi individuali. Il potere di deroga alla successione legittima, come si è detto, non era assoluto(30). Il codice infatti riproduceva, nel comma 3 dello stesso art. 2 (poi art. 457(3)), la regola già contenuta nel cod. 1865 secondo cui «le disposizioni testamentarie non possono pregiudicare i diritti che la legge riserva ai legittimari» (art. 457) e conferiva ai legittimari lesi l’azione di riduzione.
Nella relazione al capo Dei diritti degli eredi legittimari del progetto preliminare, Gaetano Azzariti affermò chiaramente che «la Commissione … fu unanime nel ritenere la necessità di mantenere fermo un istituto diretto a rafforzare la famiglia. Ripugnerebbe alla pubblica coscienza la potestà data al padre di famiglia di lasciare tutti i suoi beni ad un estraneo, a danno dei figli o del coniuge. E sarebbe assai strano che la legislazione fascista, ispirata tutta alla saldezza della costituzione familiare, sopprimesse un istituto il quale resistette perfino alle ondate del più esagerato individualismo»(31).
Il divieto dei patti successori
Il progetto preliminare dedicava una sola disposizione ai patti successori, l’art. 72, che vietava i patti rinunciativi. Dopo aver ripetuto tale divieto all’art. 72 del progetto definitivo, il testo finale introduce il divieto generale dei patti successori all’art. 3, anche se sul punto si erano registrate in dottrina opinioni favorevoli ad ammetterli, sull’esempio di altri codici. La relazione al progetto preliminare, tuttavia, non fa cenno a discussioni sul tema.
Nel corso dei lavori, invece, la questione non passò inosservata. A tematizzarla intervenne Fulvio Maroi, commentando a nome dell’Università di Roma l’art. 2 del progetto preliminare (che non menzionava la successione contrattuale), e proponendo di allentare la rigidità del divieto. Egli fece notare che alcuni civilisti si erano già espressi criticamente, auspicando la liceità dell’istituzione contrattuale nel contratto di matrimonio(32). Nel commentare inoltre l’art. 72 del medesimo progetto (divieto di rinunzia all’eredità di una persona vivente) lo stesso Maroi si pronunciò anche a favore della validità dei patti rinunciativi delle figlie, poiché trovava che l’idea secondo la quale “il patrimonio familiare appartiene alla famiglia che è imperitura, e per essa ai rappresentanti più naturali di essa, i figli maschi” meritasse di essere assecondata. Scendeva poi nel concreto ad osservare che in alcune regioni italiane le rinunce delle figlie, benché colpite da nullità, erano una consuetudine radicata nelle famiglie rurali e faceva quindi notare che la rimozione del divieto avrebbe consentito di realizzare scopi socialmente utili come ridurre l’eccessivo frazionamento dei terreni agricoli, assicurandone la proprietà ai maschi(33). Non mancava, infine, di portare ad esempio la legge ereditaria tedesca del 1933 (Reichserbhofgesetz).
La posizione di Maroi va contestualizzata e collegata ad altre sue opinioni espresse nel corso dei lavori preparatori. Egli, infatti, patrocinava anche la causa della differenziazione del diritto ereditario in relazione alla natura dei beni. Più in generale, assegnava alla successione un fondamento politico sociale e familiare, più che individuale. Da qui il favore manifestato verso le sostituzioni fedecommissarie e i patti successori. Il ridimensionamento del divieto dei patti successori, in altri termini, era la conseguenza di una certa visione della famiglia e delle successioni(34). La visuale di Maroi si iscrive inoltre nella sua tendenza a valorizzare le consuetudini, altro motivo conduttore della sua attività. Sotto questo punto di vista, il professore romano sarebbe stato dunque favorevole a limitare il principio di uguaglianza in ambito successorio: un’idea fortemente sostenuta durante i lavori preparatori anche da parte di Marco Tullio Zanzucchi e dell’Università cattolica(35).
La definizione di testamento
Il codice, nella sua versione finale, non innova neppure il concetto di testamento, che rimane sostanzialmente identico a quello del 1865, ponendo l’accento sul suo contenuto patrimoniale.
Anche in questo caso, inizialmente era stata prevista una modifica di ben più ampio respiro. Il titolo delle successioni testamentarie del progetto preliminare si apriva infatti con l’art. 140, che dava una definizione diversa da quella contenuta nell’art. 759 del codice 1865(36): «Il testamento è un atto revocabile, con cui taluno dichiara la sua ultima volontà, da valere dopo la morte, sia mediante disposizioni riguardanti tutte o parte delle proprie sostanze, sia mediante disposizioni non patrimoniali che abbiano carattere giuridico».
Questa soluzione era stata difesa da Ludovico Barassi nella relazione al progetto preliminare: «l’art. 140 del progetto risolve il dubbio determinato dalla formulazione incompleta dell’art. 759, che allude alle disposizioni di carattere patrimoniale come contenuto fisionomico del testamento. D’accordo coi più recenti codici si è invece definito più generalmente il testamento»(37). In un primo momento, dunque, si aveva l’intenzione di allargare il concetto di testamento, ricomprendendovi quello che oggi comunemente, stante il 2° comma dell’art. 587, ma anche criticamente(38), si denomina il suo contenuto atipico(39).
Nel progetto definitivo, tuttavia, l’innovazione fu eliminata(40). La commissione parlamentare, per la verità, avrebbe preferito mantenere la nuova definizione, così da evidenziare che il testamento poteva avere un contenuto tanto patrimoniale quanto non patrimoniale(41). Si preferì invece ribadire la concezione tradizionale, ammettendo però l’efficacia delle disposizioni non patrimoniali disposte nella forma del testamento. Alla soluzione di quest’ultimo problema, che era già discusso sotto il codice del 1865, si pose rimedio con il capoverso dell’art. 587 definitivo(42), come auspicato anche da alcuni di coloro che erano favorevoli al mantenimento del concetto tradizionale di testamento(43).
La definizione mette in rilievo vari elementi, che saranno individuati con precisione dai commentatori più sensibili ad approfondire i profili dogmatici, come Antonio Cicu: revocabilità, il disporre per il tempo della morte, il disporre delle proprie sostanze(44). Erano gli stessi elementi già evidenziati dall’art. 759 del c.c. 1865.
Malgrado la formulazione prescelta, tuttavia, parte della dottrina si mostrò favorevole ad un allargamento del concetto di testamento oltre i confini segnati dal codice. Per Cicu, ad esempio, si poteva parlare di testamento anche di fronte ad un atto di ultima volontà contenente solo disposizioni non patrimoniali e distinguere tra un testamento in senso ampio e in senso stretto(45).
Anche Barassi, pur dichiarando di volersi attenere alla definizione legale, obiettò che essa era superabile, in quanto non imposta dalla logica: si sarebbe dunque potuto benissimo estendere la nozione di testamento anche a un atto avente contenuto interamente non patrimoniale(46). Il fatto che il testamento per il diritto positivo italiano fosse un atto essenzialmente patrimoniale non implicava tuttavia le conseguenze negative che aveva sotto il vecchio codice, per il quale si dubitava se il riconoscimento di figlio naturale, la nomina di tutore, le raccomandazioni sull’educazione dei figli scritte in un testamento privo di disposizioni patrimoniali avessero valore, in quanto non contenute in un testamento.
La definizione dà l’idea della potenziale ampiezza di contenuto del testamento, che può contenere disposizioni anche non patrimoniali. Come quelle patrimoniali, molte di quelle non patrimoniali sono tipiche. Qui sorge tuttavia un problema: se l’autonomia testamentaria possa dare effetto anche a disposizioni patrimoniali atipiche, data la lettera del codice, che sembra riferirsi solo a disposizioni espressamente contemplate dalla legge. La questione veniva affrontata già dai primi commentatori del codice. A fronte della chiusura di Azzariti e Martinez(47), spiccano le aperture di altri. Barassi invocava il principio di autonomia testamentaria(48). Anche Cicu sosteneva l’interpretazione più ampia, pur rimarcando che poteva verificarsi una difficoltà nell’eseguire la volontà del testatore, qualora egli non avesse apposto un modus nel testamento a carico dell’erede o del legatario, non potendo questo onere essere ricavato argomentando dalla disciplina delle disposizioni a favore dei poveri(49). È possibile dunque individuare già in queste prime letture del codice(50) un chiaro orientamento verso la configurazione del testamento come un negozio giuridico che consente di disporre della proprietà ma anche di soddisfare molteplici altre esigenze, affettive e religiose, accreditandosi come uno strumento che ha anche la funzione di esprimere con ricchezza di prospettive la personalità del defunto.
Le forme di testamento
Il progetto preliminare del libro delle successioni del 1936 confermava le forme ordinarie di testamento già accolte nel codice Pisanelli, ma aggiungeva anche, in limitate ipotesi speciali, il testamento orale o nuncupativo(51).
Secondo Barassi, testamento olografo e testamento pubblico avevano «pregi e difetti non trascurabili. Il testamento olografo, se presenta il vantaggio di essere segreto, può però essere trafugato e alterato o addirittura sostituito, almeno fino al momento del deposito. Il testamento pubblico invece non può essere facilmente trafugato o sostituito … ma non si ha certo più la segretezza che è propria dell’olografo, e che è spesso necessaria per impedire propalazioni premature delle ultime volontà di una persona»(52).
Nel prevedere i vari requisiti formali, i compilatori si proposero di troncare vari problemi interpretativi e di allentare le rigide maglie del formalismo, soprattutto riguardo al testamento olografo. Per questo motivo, congegnarono anche un nuovo articolo, che distingueva le varie ipotesi di nullità per mancato rispetto dei requisiti formali (art. 162 pr. prel.; art. 148 pr. def.).
Nel progetto definitivo è da notare innanzitutto la scomparsa del testamento orale, che nel primo progetto, come si è detto, era stato invece ripristinato, seppure in ipotesi speciali. Benché esso fosse riconosciuto dal codice austriaco e dal codice svizzero, la sua eliminazione venne considerata più che opportuna. Barassi, che era stato il relatore di questo capo del codice nel progetto preliminare(53), giudicò poi l’innovazione un «ardimento eccessivo»(54).
Nella sua versione finale il codice conserva invece il testamento olografo, «opera personalissima e intima del testatore»(55), suscitando l’approvazione della dottrina, pur nella consapevolezza che si trattava di una forma testamentaria non priva di inconvenienti (assenza di assistenza legale, trafugabilità, alterabilità), alcuni dei quali tuttavia evitabili(56).
Come scriverà Barassi all’indomani dell’entrata in vigore del nuovo codice, «il carattere essenziale e fisionomico di questa forma di testamento è che sia scritto e sottoscritto di mano del testatore: cioè l’’autografia’, che implica di conseguenza anche la ‘olografia’»(57). Nel nuovo codice diminuiscono tuttavia i rigori formali, che avevano generato sottili controversie nella vigenza del codice precedente. Si esigono infatti la data (giorno, mese ed anno) e la sottoscrizione, ma con la precisazione che «se non è fatta con l’indicazione del nome e cognome è tuttavia valida quando designi con certezza la persona del testatore» (art. 155 pr. prel.; art. 167 pr. def.). Si trattava, per usare la formula barassiana, di un «formalismo attenuato», rispetto ai più rigorosi elementi del testamento pubblico.
Il codice innova rispetto al passato anche nel disciplinare l’effetto dell’apposizione di una data fittizia da parte del testatore. Un siffatto testamento non è da ritenersi nullo e prevale la data vera quando si tratta di decidere una questione come la capacità del testatore o la priorità di data tra testamenti o altra simile (art. 155 pr. prel.). La Commissione reale aveva optato per la soluzione che si era già consolidata in giurisprudenza, anche se non aveva incontrato il consenso unanime della dottrina, come molti fecero notare(58).
Altra innovazione degna di nota riguarda l’obbligo, e non più la facoltà, di deposito del testamento olografo per chi ne sia in possesso e il correlativo obbligo di pubblicazione da parte del notaio. La novità, già presente nel progetto preliminare, è in tale sede spiegata da Barassi e favorevolmente accolta dalla dottrina.
Il nuovo codice conferma il divieto di disposizioni fiduciarie e quindi la nullità della chiamata affidata alla sola coscienza del fiduciario.
Le disposizioni testamentarie patrimoniali
Anche nel nuovo codice le principali disposizioni patrimoniali che possono essere contenute nel testamento sono le istituzioni d’erede, le sostituzioni, i legati. La successione testamentaria, come per tradizione, può essere a titolo universale o a titolo particolare.
I compilatori del codice, in questa materia, optano per alcune soluzioni che danno maggiore rilevanza alla volontà del testatore. Superando precedenti dubbi, ad esempio, essi stabiliscono espressamente che anche l’istituzione d’erede possa essere sottoposta a condizione risolutiva, con una soluzione sostanzialmente condivisa dagli interpreti(59).
La disciplina dei legati risulta minuziosa, a detta di un esperto come Calogero Gangi, che partecipò ai lavori preparatori del codice e presentò la relazione a questa parte del libro delle successioni, dichiarando che «le modificazioni e le innovazioni che il progetto apporta in questa sezione ai corrispondenti articoli del codice vigente, sono ancor più numerose di quelle da esso apportate nelle sezioni precedenti»(60). La lacuna più grave era considerata la materia dell’accettazione e della rinuncia del legato: disciplina che tuttavia, nel progetto definitivo, venne stralciata.
Il codice, nella sua versione originale, introduce anche una deroga al divieto delle sostituzioni fedecommissarie (art. 692). Questa riforma, tuttavia, a parte il precedente del codice civile francese(61), non può considerarsi una novità concepita solo per tutelare maggiormente la volontà del testatore. L’innovazione, già prevista dal progetto preliminare (art. 287), fu spiegata in quella sede da Fulvio Maroi, con un discorso anche visibilmente politico, che ne rivelava le finalità: «conciliare le esigenze della libera circolazione dei beni con un maggiore ossequio alla volontà del defunto, sempre che ispirata non ad uno scopo egoistico ma ad un superiore interesse familiare o sociale ritenuto degno di tutela»(62).
Non si voleva far rivivere la sostituzione pupillare, considerata incompatibile con la configurazione della patria potestà e con il carattere personale del testamento. Per la sostituzione fedecommissaria, invece, il discorso era diverso. Ammettendola, pur entro certi limiti, si intendeva assecondare la “coscienza sociale”, di cui si era resa interprete la giurisprudenza, che aveva procurato di allentare i rigori del codice civile del 1865. Il divieto del codice civile era apparso rigoroso e superabile, anche se ammettere la sostituzione fedecommissaria poteva sembrare un’inaccettabile concessione all’individualismo e al liberismo: argomento allora di caratura non esclusivamente tecnica. Ed è qui che il discorso di Maroi, per l’appunto, si tinge dei colori della politica: «nel nuovo clima politico del Fascismo non si giustifica la eredità di un istituto così decisamente ispirato a principi di un intollerante liberismo economico e che è in contrasto non solo con la politica demografica del Regime, ma altresì con tutte le provvidenze dirette a difendere e rafforzare economicamente il nucleo familiare, a conferirgli nuova forza di espansione»(63).
Ne consegue che la sostituzione fedecommissaria fu ammessa solo a favore dei figli dei figli e dei figli di fratelli e sorelle del testatore, soltanto sui beni costituenti la disponibile e solo se a favore di tutti i figli nati e nascituri(64).
Lo scopo dichiarato era quello di consentire la creazione di una sorta di patrimonio a sostegno dell’unità della famiglia, anzi dell’organismo familiare, come lo qualificavano molti tra cui Barassi(65), che approvò l’innovazione, ritenendola in linea con la tendenza delle codificazioni moderne, che ammettevano le sostituzioni fedecommissarie purché ristrette nel tempo e per finalità di tutela della famiglia legittima o di pubblica assistenza(66).
Gangi, tuttavia, avrebbe voluto che la sostituzione fedecommissaria potesse essere disposta anche a favore dei figli di altre persone o parenti, e criticò inoltre la prevista estensione a tutti i nipoti, ispirata ad un’esigenza di uguaglianza tra gli eredi a suo avviso superabile(67).
Le reazioni delle università al progetto preliminare furono tutte favorevoli, come attestano le testimonianze di Leonardo Coviello jr. (Bari), Rosario Nicolò (Catania); Giorgio Bo (Genova); Francesco Degni (Messina); Alberto Montel (Parma); Francesco Ferrara (Pisa). Solo Mario Allara (Torino) avrebbe voluto veder riprodotto nel codice il divieto dei fedecommessi a livello di regola generale(68).
L’interpretazione del testamento
Anche il nuovo libro delle successioni non prevede disposizioni generali sull’interpretazione del testamento. Non mancano invece norme interpretative speciali, alcune delle quali di grande importanza. Tale è, ad esempio, l’art. 588, con cui si dispone che la qualificazione di una disposizione mortis causa, se a titolo universale o a titolo particolare, non dipende da criteri letterali, bensì dalla volontà del testatore(69).
Il codice ribadisce inoltre la regola secondo cui l’erronea indicazione dell’erede o del legatario o della cosa oggetto della disposizione testamentaria non determina la nullità della disposizione, se dal testamento o altrimenti risulta in modo certo la persona o la cosa alle quali il testatore voleva riferirsi: una disposizione della quale la dottrina si avvalse anche per affermare il principio secondo cui l’interprete, per ricostruire la volontà del defunto, era autorizzato ad utilizzare anche elementi esterni al testamento, purché unicamente allo scopo di attribuire significato alle dichiarazioni contenute nello scritto: a fini di chiarimento della volontà manifestata dal defunto e non di integrazione di una volontà lacunosa o inesistente(70). Questa linea continuerà ad essere sostenuta anche in relazione al nuovo libro delle successioni(71).
La scelta del legislatore di non prevedere norme generali sull’interpretazione del testamento stimola la prosecuzione dell’intenso dibattito, già iniziato sotto il codice precedente, intorno all’estensione analogica delle regole stabilite per l’interpretazione del contratto (e più in generale del negozio giuridico) e sulla diversa rilevanza ermeneutica della volontà in campo testamentario (per usare un’espressione bettiana) rispetto ai negozi inter vivos, con scontri memorabili in questa prima fase di applicazione del codice: si può ricordare, ad esempio, la linea compatta di opposizione a Cicu, che si era opposto all’applicazione analogica del principio di conservazione(72). Si tratta di una questione sulla quale incidevano anche le posizioni degli autori sul favor testamenti nell’interpretazione.
L’invalidità del testamento
Il regime dell’invalidità nel libro delle successioni viene riordinato e assume un volto in parte diverso da quello che aveva nel 1865.
Calogero Gangi, nell’introdurre i nuovi articoli riguardanti la nullità del testamento per vizi di forma e l’annullabilità delle disposizioni testamentarie per errore, violenza e dolo (art. 189 e ss. pr. prel.), affermò la necessità di colmare la lacuna del codice, per l’impossibilità di «argomentare senz’altro per analogia dalle norme concernenti la dichiarazione di volontà nei contratti»(73). In effetti, il punto aveva sollevato grandi dispute nella dottrina anteriore al codice(74).
Una norma diversamente formulata rispetto all’art. 828 del codice del 1865 è quella secondo cui la disposizione può essere annullata anche per errore sul motivo, purché questo risulti dal testamento(75). Per la capacità di disporre per testamento, la regola generale è la capacità, l’eccezione l’incapacità. Tra le ipotesi di incapacità di testare, il codice regola espressamente anche il caso dell’incapacità naturale (art. 143 pr. prel.; art. 133 pr. def.). In caso di violazione delle disposizioni sull’incapacità di disporre per testamento la sanzione prevista espressamente dal codice è l’annullabilità del testamento, che si applica quindi anche all’incapacità naturale.
La soluzione venne contestata da Gangi, che avrebbe preferito il più radicale effetto della nullità(76). Già nella relazione al progetto preliminare, invece, Barassi, pur consapevole del fatto che la soluzione prevalente in dottrina era la nullità(77), aveva ritenuto che la soluzione dell’annullabilità fosse da preferire: «se anche la cosiddetta logica giuridica sembri soffrirne, da un punto di vista pratico e del favore del testamento questa è sembrata la soluzione più opportuna. Un testamento formalmente valido, finché non sia impugnato, deve ritenersi secondo l’apparenza cosa sacra»(78). L’innovazione venne conservata, benché avesse suscitato molteplici osservazioni critiche da parte delle università interpellate(79).
Il codice mantiene tuttavia una serie di incapacità di succedere per testamento a tutela della famiglia legittima, ereditate da una lunga tradizione e considerate ancora meritevoli di essere conservate. Questo limite dipende dal fatto che il testamento non era fondato solo sull’interesse individuale del testatore, ma anche sull’interesse della famiglia legittima. Per realizzare questo obiettivo, considerato politicamente primario, con una riaffermata scelta discriminatoria, venne ridotta la capacità di ricevere per testamento dei figli naturali riconosciuti, dei figli naturali riconoscibili e non riconosciuti, del coniuge del defunto e dei figli non riconoscibili (adulterini e incestuosi), ai quali il codice, peraltro, assegnava maggiori diritti nella successione intestata. Sono limiti che il codice ribadisce, pur allentando le maglie della disuguaglianza, in ossequio alla direttiva politica di fondo del progetto, che era comunque quella di rafforzare la famiglia legittima.
Il codice conferma la nullità delle disposizioni fatte a favore di incerta persona (e quindi genericamente, art. 197 pr. prel.), ma solo qualora la persona non possa essere specificamente determinata attraverso l’interpretazione del testamento.
Viene tuttavia modificata, a questo riguardo, la disciplina delle disposizioni a favore dell’anima (art. 198 pr. prel.), già molto discussa in dottrina e fonte di un animato dibattito anche durante la preparazione del codice(80).
Le disposizioni sulla nullità introducono anche controlli sull’autonomia testamentaria.
Ad esempio, la disposizione secondo la quale «il motivo illecito rende nulla la disposizione testamentaria, quando risulta dal testamento ed è il solo che ha determinato il testatore a disporre», che corrispondeva a un convincimento di Gangi, come l’autore dichiarò nelle lezioni universitarie milanesi del 1939-1940, dedicate all’esposizione del contenuto del nuovo libro delle successioni(81).
Non ebbe invece alcun seguito la proposta di Cicu e Osti di prevedere una forma ulteriore di limite alla libertà testamentaria, consistente nell’imporre che il testamento perseguisse «fini seri e socialmente degni di tutela giuridica», a pena di invalidità(82). Questo è senza dubbio l’esito più rilevante da evidenziare nel valutare il nuovo regime dell’invalidità.
Il codice modifica anche il regime delle condizioni impossibili e illecite. La regola sabiniana, secondo cui le condizioni impossibili ed illecite sono da considerarsi come non apposte alla disposizione testamentaria, è ora limitata dalla riserva che fa salva la diversa volontà del testatore in caso di condizione illecita, recependo l’interpretazione più seguita dalla dottrina, in contrasto con la giurisprudenza(83). La nullità non si estende alla disposizione testamentaria alla quale è apposta la condizione illecita, salvo che non risulti che la condizione illecita sia stata motivo unico della disposizione.
Il progetto preliminare (art. 202 p. pr.), in realtà, conservava la regola tradizionale senza riserve. Ma già Gangi, nella sua copia personale, aveva annotato «salvo che risulti che il testatore non avrebbe fatto la disposizione senza la condizione apposta»(84). Sul mantenimento della regola sabiniana, in seguito, si erano manifestate perplessità, perché la si riteneva espressione di un obsoleto favor testamenti. Ciò indusse i compilatori del progetto definitivo a sopprimerla, salvo poi riammetterla, dopo la discussione in commissione parlamentare, ma con la riserva che, trattandosi di condizione illecita, fosse consentito provare che essa costituiva per il testatore unico motivo determinante della disposizione: in tal caso la disposizione testamentaria doveva considerarsi nulla.
Qualche considerazione conclusiva
I compilatori del nuovo libro delle successioni (questa la denominazione finale) lavorarono anche in materia testamentaria sullo sfondo del dibattito dottrinale e giurisprudenziale, nel cui ambito, in molti casi, è possibile rinvenire la matrice delle soluzioni accolte nel codice. Molte delle scelte effettuate si possono considerare risposte del legislatore a questioni controverse. Altre opzioni si possono ritenere appuntamenti mancati, frutto della volontà di mantenersi nel solco della tradizione, senza spinte innovatrici (ad esempio, la considerazione per i patti successori).
In altra occasione ho osservato che, riguardo al problema più politico di tutti, cioè la posizione successoria dei figli naturali e del coniuge, il codice adottò soluzioni compromissorie. Posta come doverosa l’attenuazione del rigore del codice Pisanelli, per colmare il divario tra legge e realtà, su una base di prudente pragmatismo si realizzarono anche riforme di un certo rilievo, come la riduzione al quarto grado dei casi di concorso del coniuge con i parenti nella successione intestata, l’attribuzione di un assegno vitalizio ai figli non riconosciuti e non riconoscibili, l’aumento delle quote successorie, la quota di fatto dei figli naturali e il diritto degli stessi alla successione legittima nei confronti dell’ascendente legittimo del proprio genitore(85).
D’altra parte, la stessa retorica - il riferimento alla coscienza sociale italiana o ai costumi della popolazione in quel determinato momento storico - si prestò a frenare innovazioni ancor più favorevoli al coniuge o ai figli naturali.
Si ritornò pertanto, nella vocazione necessaria, alla quota del coniuge in solo usufrutto, pure in mancanza di figli legittimi, contraddicendo a ciò che in un primo momento era stato stabilito nel progetto preliminare, eludendo i desiderata di una parte della dottrina e l’esempio di alcuni codici stranieri. Mentre nella vocazione legittima, la quota in usufrutto fu confermata solo nell’ipotesi di concorso con i figli legittimi. Si ribadì il diritto di commutazione a favore dei figli legittimi nei confronti del coniuge e dei figli naturali. Si lasciarono sussistere le tradizionali incapacità relative di ricevere per testamento in sfavore dei figli naturali.
Il codice volle pertanto muoversi ancora nell’orbita della logica della disuguaglianza temperata per non indebolire la famiglia legittima (e quindi lo Stato). Solo in parte, quindi, si può dire che la concezione del legislatore del 1942 fosse moderna e al passo con i tempi. Non si volle assolutamente spezzare quello che è stato giustamente chiamato il “legame privilegiato” tra famiglia e ordine sociale(86), che prevedeva che il modello della famiglia legittima fosse non tanto proposto, quanto imposto: un’osservazione da sottoscrivere anche per l’esperienza italiana totalitaria.
Se in materia di successione dei figli naturali del coniuge il nuovo libro presenta contraddizioni, frutto di divisioni e spaccature, anche nella materia testamentaria è possibile rinvenire l’effetto di spinte contrapposte. Anche nell’elaborazione di questi argomenti si assiste a ripensamenti e retrocessioni come quelli avvenuti nella formazione del libro delle persone e dei titoli sulla successione legittima e necessaria, benché di segno diverso e con esito differente, la cui valutazione sarà demandata agli interpreti. Non è questa la sede per un bilancio, ma credo che si debbano comunque mettere in rilievo alcuni punti forti della riforma, la cui matrice si è tentato di indagare, e che rappresentano ancora oggi scelte fondamentali della disciplina: nell’ordine in cui sono stati esposti nelle pagine precedenti, la rinuncia a fissare la gerarchia tra successione legittima e testamentaria; l’estensione della libertà testamentaria nei confronti delle disposizioni non patrimoniali; la rinnovata fiducia nel testamento olografo e il ridimensionamento del formalismo testamentario; il riordino delle ipotesi di invalidità del testamento. Una modernizzazione del diritto testamentario che cercò di contemperare due esigenze: da un lato il più intenso rispetto della volontà del defunto e dall’altro l’aumento degli obblighi di solidarietà familiare, che qualcuno avrebbe voluto tuttavia ancora più accentuati(87).
Una riforma dunque nel segno della tradizione, ma originale(88), poiché con gli strumenti della tecnica giuridica mirava a inserirsi nel tessuto del discorso dottrinale e giurisprudenziale. Proprio per questo motivo tra i magistrati furono nel complesso più numerose le lodi che le critiche. Solo il Consiglio di Stato ebbe a lamentare che i compilatori non avevano voluto fare una «nuova opera di codificazione» ma «una revisione del codice vigente», mentre la Cassazione, come la Corte d’Appello di Roma, espresse, proprio per questo, il suo sostegno(89).
(1) Per la produzione del primo v. i riferimenti completi in G. CHIODI, Pacifici-Mazzoni, Emidio, in Dizionario biografico degli italiani, 80, Roma 2014, p. 124-127. Per gli altri v. F. FILOMUSI-GUELFI, Diritto ereditario, I, 3^ edizione riveduta e completata, Roma 1909 (senza dimenticare le riflessioni già svolte in ID., Enciclopedia giuridica ad uso di lezioni, Terza ed. riveduta ed ampliata, Napoli 1885); N. COVIELLO, Corso completo del diritto delle successioni, 2^ ed. curata dal Prof. Leonardo Coviello, v. II, Successioni legittime e testamentarie, Napoli, 1915.
(2) C. GANGI, I legati nel diritto civile italiano, Parte generale, I, Padova, 1933 (II ed.); Parte generale, II, Padova 1932.
(3) M. ALLARA, Il testamento, Padova, 1934.
(4) N. STOLFI, Diritto civile, v. VI, Il diritto delle successioni, Torino, 1934.
(5) V. POLACCO, Delle successioni, Seconda ed. a cura di A. Ascoli e E. Polacco, v. I, Successioni legittime e testa-mentarie, Milano-Roma, 1937.
(6) F. DEGNI, Lezioni di diritto civile. La successione a causa di morte, I. Successione legittima, Anno scolastico 1930-31, Padova, 1935 (II ed.); ID., II. La successione testamentaria, v. II, Padova, 1936 (II ed.); ID., Successioni testamentarie, in Nuovo Dig. it., XII, 1, 1940, p. 1034-1118.
(7) L. BARASSI, La successione testamentaria, Milano, 1936.
(8) C. GANGI, La successione testamentaria secondo il nuovo codice. Lezioni tenute nella R. Università di Milano nell’anno accademico 1939-1940 raccolte e compilate dal dott. Fernando Cisotti, Milano,1940; ID., La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, voll. I-II, Seconda ed. riveduta e ampliata, Milano, 1952; L. BARASSI; Le successioni per causa di morte, Milano, 1944 (II ed.); 1947 (III ed.); A. CICU, Le successioni, Parte generale, Milano, 1945 (III ed.); ID., Le successioni. Parte generale - Successione legittima e dei legittimari - Testamento, Milano 1947; ID., Testamento, Milano, 1951 (II ed.).
(9) F.S. AZZARITI - G. MARTINEZ - G. AZZARITI, Successioni per causa di morte e donazioni, Padova 1948 (II ed.).
(10) Sempre più uguali. I diritti successori del coniuge e dei figli naturali a 70 anni dal Codice civile, a cura di G. Chiodi, Milano, 2013.
(11) Anche nella storiografia: R. BONINI, Disegno storico del diritto privato italiano: dal Codice civile del 1865 al Codice civile del 1942, terza edizione aggiornata, Bologna, 1996, p. 146- 147; C. GHISALBERTI, La codificazione del diritto in Italia. 1865-1942, Roma-Bari, 1995, p. 266.
(12) Commissione Reale per la riforma dei codici. Sottocommissione per il codice civile. Codice civile. Terzo libro. Successioni e donazioni. Progetto e relazione, 23 Marzo 1936, Roma, 1936, Relazione al progetto, p. 1.
(13) M. D’AMELIO, Caratteri generali del diritto di successione per causa di morte nel nuovo codice, in Codice civile. Libro delle Successioni per causa di morte e delle Donazioni, Commentario, a cura di A. Azara, M. D’Amelio, F. Degni, P. D’Onofrio, E. Eula, C. Grassetti, A. Manca, F. Maroi, S. Pugliatti, G. Russo, F. Santoro-Passarelli, diretto da M. D’Amelio, Firenze 1941, p. 2.
(14) Ivi, p. 8, dove si legge anche un altro passo interessante: «Questa aritmetica giuridica sembra la parte più arida e quasi meccanica del diritto successorio e racchiude, invece, un senso così vivo di giustizia, una valutazione così attenta dei rapporti familiari che il legislatore in questo momento ci si presenta come l’ideale buon padre di famiglia».
(15) F. VASSALLI, Motivi e caratteri della codificazione civile, in ID., Studi giuridici, v. III, t. II, Studi varî (1942-1955), Milano, 1960, p. 611 (riproduce il testo apparso nella Rivista italiana per le scienze giuridiche del 1947). Tali rilievi sono richiamati e considerati esatti da R. NICOLÒ, Codice civile, in Enciclopedia del diritto, VII, (1960), p. 245. Vassalli, nel suo intervento, si dimostrò critico nei confronti delle riforme attuate in materia di successione dei figli naturali e del coniuge.
(16) L. BARASSI, Le successioni …, cit., p. 3: «questa modificazione nel collocamento non esclude che la successione per causa di morte sia un modo d’acquisto della proprietà. Ma esalta - al disopra di questo arido tecnicismo giuridico - la fondamentale ragion di essere autonoma di questa branca del diritto civile, che assicura il vigore alle famiglie e la loro compattezza anche nell’interesse nazionale. Sarà inutile aggiungere che questa recentissima elaborazione legislativa è un prodotto, ottimo sotto ogni punto di vista, dei tempi nuovi. Si è tenuto largamente conto delle nuovissime esigenze e insieme si è rispettata la tradizione giuridica fin dove ciò è stato possibile».
(17) Ivi, p. 48: «non è possibile sostenere che tutto il diritto successorio sia permeato dal principio oggettivo (tutela della famiglia). Quindi bisogna far il debito posto alla volontà del defunto, che (in confronto al codice Napoleone) nel nostro codice ha un più energico riconoscimento».
(18) Per le tappe cronologiche della formazione del libro delle successioni rimando a N. RONDINONE, Storia inedita della codificazione civile, Milano, 2003, p. 61-65, 149- 153, 183-190.
(19) L. MENGONI, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, Milano, 1961, p. 10. Diverso è invece, per lo stesso Autore, il fondamento della successione legittima e della successione necessaria: gli interessi individuali dei parenti e del coniuge nel primo caso, l’interesse superiore (collettivo o istituzionale) della famiglia nel secondo (ivi, p. 14).
(20) A. CICU, Testamento, Milano, 1951 (II ed.), p. 2. Ma v. già Osservazioni e proposte sul progetto del libro terzo successioni e Donazioni, v. II, Roma 1937, II, p. 10: «il potere di disporre dei beni per dopo la morte va conservato come conseguenza logica e ragione intima dell’istituto della proprietà», Per quanto concerne il pensiero di Barassi, v. i passi citati nelle precedenti note. È quanto si afferma comunemente anche oggi. V. ad es. P. RESCIGNO, Nozioni generali, in Trattato breve delle successioni e donazioni, diretto da P. Rescigno, coordinato da M. Ieva, vol. I, Seconda ed., Padova, 2010, p. 731: «il testamento, nel rispetto dei doveri di solidarietà familiare assicurati attraverso le norme della successione necessaria, è manifestazione - l’ultima, se si considera che prende efficacia con la morte - del potere di disporre dei beni spettante al proprietario».
(21) L. MENGONI, op. cit., rispettivamente p. 15 e p. 6.
(22) Art. 720. La successione si devolve per legge o per testamento. Non si fa luogo alla successione legittima se non quando manchi in tutto od in parte la testamentaria.
(23) Art. 2. La successione si devolve per legge o per testamento. Salvi i diritti di coloro ai quali la legge riserva una quota di eredità, non si fa luogo alla successione legittima se non quando manchi in tutto o in parte la te- stamentaria.
(24) Si suggeriva l’introduzione di un apposito articolo che sancisse l’inefficacia del testamento in caso di dubbio nell’interpretazione della volontà del testatore o sull’esistenza dei suoi requisiti di validità (Ministero di Grazia e Giustizia. Lavori preparatori per la riforma del codice civile. Osservazioni e proposte sul progetto del libro terzo Successioni e Donazioni, v. I, Roma 1937, p. 471).
(25) Ministero di Grazia e Giustizia. Codice civile. Libro terzo. Progetto definitivo e Relazione del Guardasigilli on. Solmi, Roma, 1937. La formula fu giudicata eccessiva da Francesco Santoro-Passarelli, che pur condivideva l’opzione per la superiorità della successione legittima sulla testamentaria e aveva redatto uno schema sulle successioni legittime: ID., Vocazione legale e vocazione testamentaria [1942], in ID., Saggi di diritto civile, Introduzione di P. Rescigno, Napoli 1961, p. 581-594, p. 589 nt. 23.
(26) Ivi, p. 4.
(27) Atti della Commissione parlamentare chiamata a dare il proprio parere sul progetto del libro terzo del codice civile “Delle successioni a causa di morte e delle donazioni” (art. 2 della legge 30 dicembre 1923-II, n. 2814 e art. 2 e 3 della legge 24 dicembre 1925-IV, n. 2260), Roma 1939, verb. n. 2 (28 gennaio 1938), p. 27-32.
(28) Non furono quindi accolte le istanze di Cicu, come ha fatto notare L. FERRI, Innovazione e tradizione nel regime delle successioni, in Per i cinquant’anni del codice civile, a cura di M. Sesta, Milano 1994, p. 63-75, p. 74-75.
(29) Per una ricostruzione delle interpretazioni dottrinali v. soprattutto M. BIN, La diseredazione. Contributo allo studio del contenuto del testamento, Torino 1966, p. 74-138. Per l’equiparazione si espresse tuttavia Gangi, che in polemica con Cicu sostenne di conseguenza l’applicabilità del principio di conservazione nell’interpretazione del testamento (La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, I, cit., p. 8-10, 493-495). Del dibattito dottrinale successivo al codice sia permesso di riportare solo due interventi significativi. Secondo Luigi Mengoni il valore preminente della successione legittima si può argomentare dal diverso fondamento politico dei due tipi di successione: «la natura individuale dell’interesse direttamente tutelato dalle norme della successione legittima ne spiega la derogabilità da parte del testatore, cioè la loro posizione come norme dispositive … ma la coincidenza di questo interesse con l’interesse sociale alla tutela della famiglia conferisce alla successione legittima una preminenza di valore, un titolo di maggior favore» (Successione legittima, cit., p. 14-15). Per Pietro Rescigno, viceversa, «appare oggi sterile la disputa su una pretesa gerarchia di valori, da istituire tra vocazione legale e vocazione testamentaria. … La dottrina moderna avverte la difficoltà e al tempo stesso la scarsa utilità pratica del problema e rinuncia a chiarire se debba considerarsi preminente la legge o il testamento nella vicenda ereditaria» (Introduzione al Codice civile, Roma-Bari 20012, p. 90-91). V. anche ID., La successione a titolo universale e particolare, in Trattato breve, cit., p. 11-12.
(30) V. anche L. MENGONI, op. cit., p. 7.
(31) Relazione al progetto, cit., p. 10-11.
(32) Così in effetti F. FILOMUSI-GUELFI, op. cit., p. 43-44. In realtà, parte della dottrina era favorevole all’abolizione assoluta del divieto dei patti successori, considerandolo non giustificato dal punto di vista razionale: cf. ad es. G. GIORGI, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano, v. III, Quarta ed., Firenze, 1895, p. 405; N. COVIELLO, Corso completo del diritto delle successioni, 2^ edizione curata dal Prof. Leonardo Coviello, v. I, Parte generale, Napoli, 1914, p. 106-107 (con lode per il codice civile germanico). Cf. anche M. V. DE GIORGI, I patti sulle successioni future, Napoli 1976, p. 57.
(33) Osservazioni, I, cit., art. 2, p. 25; art. 72, p. 231. Sulla ratio del divieto dei patti successori istitutivi, dispositivi e rinunciativi nella dottrina posteriore al codice v. ora l’approfondita indagine di V. BARBA, I patti successorî e il divieto di disposizione della delazione. Tra storia e funzioni, Napoli, 2015, passim.
(34) È utile, a tal proposito, rileggere le considerazioni generali espresse da Maroi sullo spirito del progetto: Osservazioni, cit., v. I, p. 13-15.
(35) Come emerge chiaramente da Osservazioni, I, cit., p. 11.
(36) Art. 759. Il testamento è un atto rivocabile, col quale taluno, secondo le regole stabilite dalla legge, dispone per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse in favore di una o di più persone.
(37) Relazione al progetto, cit., p. 34.
(38) Da ultimo, V. BARBA, op. cit., p. 171-172.
(39) Il riferimento è in primo luogo a G. GIAMPICCOLO, Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell’atto di ultima volontà, Milano, 1954.
(40) Progetto definitivo, cit., p. 58 (relazione) e art. 130. Mario Allara suggerì di eliminare del tutto la definizione del testamento: Osservazioni, I, cit., p. 480.
(41) Atti della Commissione parlamentare ..., cit., verb. n. 23 (14 maggio 1938) e n. 24 (20 maggio 1938), p. 200-210.
(42) Art. 587. Il testamento è un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse. Le disposizioni di carattere non patrimoniale, che la legge consente siano contenute in un testamento, hanno efficacia, se contenute in un atto che ha la forma del testamento, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale.
(43) In questo senso Francesco Romano per conto dell’Università di Firenze e Guido Tedeschi per conto dell’Università di Genova (Osservazioni, I, cit., p. 475 e p. 477).
(44) A. CICU, Testamento, cit., p. 5.
(45) Ivi, p. 10.
(46) L. BARASSI, Le successioni …, cit., p. 306: «In tutti questi casi di cui al 2° comma, art. 587, non vi è vero testa- mento, come tipo di negozio quale è determinato dal 1° comma di quella disposizione»; ma v. anche ivi, p. 307: «che questa conclusione sia anche imposta dalla logica o dalla convenienza si può discutere: astrattamente non è inconcepibile (e lo prova il cod. civ. germ.) un testamento come tipo a sé e generale di negozio giuridico a prescindere dal suo contenuto, eventualmente non patrimoniale». Approvano invece la concezione patrimoniale del testamento F. DEGNI, Successioni testamentarie, cit., p. 1028 e C. GANGI, La successione testamentaria secondo il nuovo codice, cit., p. 31.
(47) F.S. AZZARITI - G. MARTINEZ - G. AZZARITI, op. cit., p. 346.
(48) L. BARASSI, Le successioni …, cit., p. 303.
(49) A. CICU, Testamento, cit., p. 11-12.
(50) V. anche C. GANGI, La successione testamentaria secondo il nuovo codice, cit., p. 33-34. La questione sarebbe stata con più decisione argomentata da G. GIAMPICCOLO, op. cit., p. 11-14.
(51) V. ora sul tema la ricostruzione storica di U. BRUSCHI, Old Questions, Old Answers? Testamentsformen in Italy from the Beginning of the Ars Notaria to the 1942 Civil Code, in Europäische Testamentsformen, Hrsgb. von M. Schmoeckel, G. Otte, Nomos, Baden-Baden 2011, p. 155-209.
(52) L. BARASSI, Le successioni …, cit., p. 364.
(53) Progetto preliminare, cit., p. 42: «la Commissione si è attenuta alle tre forme ordinarie già accolte nel codice, e sottolineate quindi da una ormai sufficiente tradizione che le ha consacrate come le più idonee ad esprimere le ultime volontà del testatore. Ma è stata pure accolta una proposta tendente a restaurare entro limiti molto cauti e con un carattere soprattutto di eccezionalità la forma nuncupativa, di cui all’articolo 166 del progetto».
(54) L. BARASSI, Le successioni, cit., p. 335.
(55) Ivi, p. 353.
(56) Ivi, p. 340.
(57) Ivi, p. 341.
(58) F. DEGNI, Successioni testamentarie, cit., p. 1071; F.S. AZZARITI - G. MARTINEZ - G. AZZARITI, op. cit., p. 359.
(59) A. CICU, Le Successioni, cit., p. 199-200; L. BARASSI, Le successioni …, cit., p. 407; F.S. AZZARITI - G. MARTINEZ - G. AZZARITI, op. cit., p. 473-474; C. GANGI, La successione testamentaria secondo il nuovo codice, cit., p. 237-239. In questo senso già la dottrina prevalente e la giurisprudenza sotto il vecchio codice: F. DEGNI, Successioni testa-mentarie, cit., p. 1099.
(60) Relazione al progetto, cit., p. 57.
(61) Cf. ad es. L. BARASSI, Le successioni …, cit., p. 444.
(62) Relazione al progetto, cit., p. 71.
(63) Ivi, p. 72.
(64) Era lecita anche la sostituzione fedecommissaria a favore di un ente pubblico.
(65) L. BARASSI, Le successioni …, cit., passim.
(66) Ivi, p. 447 e già ed. 1936, p. 389-393. V. anche F.S. AZZARITI - G. MARTINEZ - G. AZZARITI, op. cit., p. 496.
(67) C. GANGI, La successione testamentaria secondo il nuovo codice, cit., p. 276-277.
(68) Ministero di Grazia e Giustizia. Lavori preparatori per la riforma del codice civile. Osservazioni e proposte sul progetto del libro terzo Successioni e Donazioni, v. II, Roma, 1937, p. 205-209.
(69) Essa costituisce un’innovazione introdotta dal progetto definitivo. Cfr. Progetto preliminare, art. 188: Le disposizioni testamentarie si possono fare a titolo di istituzione di erede o di legato, qualunque sia la denominazione o l’espressione usata dal testatore. Progetto definitivo, art. 131: Le disposizioni testamentarie che comprendono l’universalità o una quota dei beni del testatore sono a titolo universale e attribuiscono la qualità di erede. Le altre disposizioni sono a titolo particolare e attribuiscono la qualità di legatario. La indicazione di beni determinati o di un complesso di beni non esclude che la disposizione sia a titolo universale quando risulti che i beni sono stati assegnati dal testatore come quota del patrimonio.
(70) Per questo risultato nella dottrina anteriore v. ad es. L. BARASSI, Le successioni …, cit., p. 385 e p. 336.
(71) Cf. ad es. ex multis F. DEGNI, Successioni testamentarie, cit., p. 71: «non mi pare esatta una dottrina largamente diffusa secondo cui l’indagine della volontà reale del testatore debba sempre ed esclusivamente desumersi dallo stesso testamento, non aliunde».
(72) A. CICU, Testamento, cit., p. 120. V. ad es. G. OPPO, Profili dell’interpretazione oggettiva del negozio giuridico, Bologna 1943, anche in ID., Obbligazioni e negozio giuridico, Scritti giuridici, III, Padova 1992, p. 137-140. La controversia è ricostruita da M. BIN, op. cit., p. 128-132.
(73) Progetto preliminare, cit., p. 50.
(74) L. BARASSI, Le successioni …, cit., p. 386.
(75) Ivi, p. 381.
(76) C. GANGI, La successione testamentaria secondo il nuovo codice, cit., p. 18.
(77) Come aveva sostenuto egli stesso nell’edizione cit.. del 1936 del suo volume sulle successioni, p. 65-67.
(78) Relazione al progetto, cit., p. 37. Cf. L. BARASSI, Le successioni …, cit., p. 333; F.S. AZZARITI - G. MARTINEZ - G. AZZARITI, op. cit., p. 310.
(79) Contrarie le università di Catania (Rosario Nicolò), Osservazioni, I, cit., p. 501; Perugia (Gino Gorla), p. 505; Torino (Mario Allara), p. 506. Favorevoli le università di Firenze (Francesco Romano), p. 501; Pisa (Francesco Ferrara), p. 505; la Cassazione (p. 496) e il Consiglio di Stato (p. 499). Si espresse positivamente anche F. DEGNI, Successioni testamentarie, cit., p. 1045.
(80) L. BARASSI, Le successioni …, cit., p. 395.
(81) C. GANGI, La successione testamentaria secondo il nuovo codice, cit., p. 120. Il motivo illecito per rilevare non deve più risultare espresso nel testamento: L. BARASSI, Le successioni …, cit., p. 381.
(82) Osservazioni, II, cit., p. 10.
(83) L. BARASSI, Le successioni …, cit., p. 409.
(84) Progetto preliminare, cit., p. 49 (copia Università Statale Milano.
(85) G. CHIODI, Sempre più uguali …, cit, p. XXXV-XXXVII.
(86) A. LEFEBVRE-TEILLARD, Introduction historique au droit des personnes et de la famille, Paris, 1996, p. 393.
(87) In prima linea, oltre alla facoltà giuridica bolognese, la Cattolica di Milano e l’Università di Roma: Osservazioni, I, cit., p. 11 e 13.
(88) Come disse Nicola Stolfi, ivi, p. 9.
(89) «Molto opportunamente il Progetto si è mantenuto lontano sia da semplici modificazioni di secondaria im- portanza sia da innovazioni radicali, capaci di intaccare le basi del sistema del vigente c.c. …» (ivi, p. 7).
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