Disposizione di beni digitali
Disposizione di beni digitali
di Ugo Bechini
Notaio in Genova
Di successione digitale il Notariato si è occupato per primo in Italia: nel 2006 venne elaborato uno studio ufficiale del Consiglio Nazionale del Notariato che venne pubblicato l’anno successivo, cui fece seguito alcuni anni più tardi un piccolo lavoro divulgativo, un decalogo per gli utenti che è stato ripreso da decine di quotidiani e settimanali.
Sino a pochi anni, per la stragrande maggioranza degli utenti della Rete, Internet voleva dire fondamentalmente due cose: la posta elettronica e la consultazione di siti web. Le evoluzioni che il mondo online ha avuto in questi anni sono incalcolabili, ma qui una in particolare ci interessa: attraverso la Rete si accede a materiali digitali che possiedono un valore economico intrinseco. Che sia la musica acquistata presso i siti specializzati, piuttosto che le immagini scattate da un fotografo professionista od il progetto di un architetto, conservati su server remoti accessibili via Internet (il cosiddetto cloud). In alcuni casi sarà significativo anche il valore morale dei dati.
L’uso di archiviare online materiale anche assai delicato ed economicamente significativo è sempre più diffuso, e solo a prima vista si tratta di una scelta scriteriata: difficile semmai dar torto a chi considera l’eventualità di un’intrusione in tali sistemi prospettiva meno preoccupante della curiosità di colleghi, addetti alla manutenzione, partners e coniugi. In determinati casi (immaginiamo un fotoreporter che stia coprendo eventi delicati in Medio Oriente, e sia costantemente a rischio di sequestro dell’attrezzatura) caricare i dati ogniqualvolta possibile su risorse remote pare una scelta quasi obbligata. McAfee ha recentemente affermato che l’utente medio conserva online dati del valore di 35.000 dollari. Non è molto chiaro come siano arrivati a tale cifra, ma fornisce un ordine di grandezza.
Bisogna sgombrare il campo da un’ipotesi che, a quanto l’esperienza professionale sul campo suggerisce, sembra indurre spesso una certa confusione: i conti correnti online. Qui non siamo di fronte ad un bene digitale, ma ad un normale rapporto di dare ed avere con la propria Banca: che questo venga gestito recandosi personalmente allo sportello (face2face, faccia a faccia, come usa dire), attraverso corrispondenza cartacea o sistemi online, oppure ancora (come normalmente sarà) utilizzando di volta in volta canali diversi, poco o nulla cambia.
Restano al di fuori del concetto propriamente detto di eredità digitale gli aspetti non economici. Non che questi siano in assoluto meno importanti, richiedono solo un trattamento diverso. Immaginiamo che venga ucciso in combattimento un foreign fighter dell’Isis che ha un suo spazio in un social network. I familiari (che siano tecnicamente eredi o meno, qui poco importa) potrebbero desiderarne l’immediata soppressione, per evitare che lo spazio si trasformi in un punto di raccolta per chi condivide gli (assai dubbi) ideali del defunto. I servizi segreti potrebbero magari desiderare invece che lo spazio sopravviva, per intercettare (non si sa mai) qualche informazione preziosa. Si tratta comunque di interessi e valori governati da principi diversi da quelli del diritto successorio propriamente detto. È un aspetto recentemente ben affrontato dal notaio Gea Arcella in un convegno a Pordenone, e per un inquadramento generale torna utile un bel libro di Alessio Zaccaria del 1988: Diritti extra-patrimoniali e successioni; dall’unità al pluralismo nelle trasmissioni per causa di morte.
La sindrome di Santa Clara
Assunto fondamentale del lavoro del 2006 (così come del successivo decalogo) era l’estrema difficoltà di risolvere il problema dell’eredità digitale attraverso un’interazione con gli operatori del settore.
Che si parli di posta elettronica, di Cloud o di fornitori di musica, i principali operatori si trovano per lo più negli USA, in ampia maggioranza nella Silicon Valley. Nomalmente le condizioni generali del servizio dichiarino applicabile la legge della California, sotto la giurisdizione esclusiva della Contea di Santa Clara. È evidente che far valere in un simile contesto il proprio status (ad esempio) di erede, può rivelarsi un esercizio estremamente complicato ed anche estremamente costoso: la parcella di un avvocato californiano è in grado di far apparire francescane le tariffe dei professionisti di casa nostra. Le filiali italiane dei grandi operatori, da parte loro, negavano in genere qualunque competenza intorno ai servizi offerti su Internet, che venivano presentati come insediati in Paesi terzi, che è lecito immaginare scelti anche e soprattutto in relazione alla loro fiscalità favorevole. Oggi, come vedremo negli ultimi paragrafi, la situazione sta evolvendo.
V’è poi un altro ostacolo: alcuni operatori (non molti, per la verità) prevedono, nelle condizioni generali da loro predisposte, che in caso di morte l’account venga chiuso e reso inaccessibile a chiunque. L’idea che le condizioni generali possano condurre alla distruzione irreversibile di dati che possono essere provvisti di un valore economico o morale è giudicata difficilmente accettabile da molti giuristi, ed in diversi casi giudici statunitensi hanno ordinato ai providers di fornire egualmente i dati agli eredi; si tratta peraltro, ancora una volta, di una via complicata e costosa.
Questioni analoghe per i siti che permettono lo scaricamento di musica ed altri contenuti. Le condizioni di iTunes di Apple, ad esempio, parlano di un diritto personale, non esclusivo, non trasferibile e limitato di accedere al sito e utilizzarlo. Il divieto di trasferimento, che nel lessico giuridico standard italiano abbraccerebbe anche i fenomeni ereditari (si parla infatti di trasferimento mortis causa) sembrerebbe in verità riguardare i trasferimenti volontari, mentre la trasmissione ereditaria dei materiali già scaricati non dovrebbe incontrare limitazioni.
In questo come in altri campi, si sta però probabilmente assistendo all’insorgere di una nuova forma di diritto transnazionale, alimentato da una moltitudine di fonti diverse, che non trova attuazione in norme rigide e puntuali (si parla talora di soft law, diritto morbido) ma non per questo meno capace di indirizzare a livello globale il comportamento degli operatori. Se è dato individuare una tendenza, è nel senso del diritto degli eredi alle risorse del defunto. Ma tale trend non sembra (e men che meno sembrava nel 2006) giunto ad un punto di perfetta maturazione.
Il mandatario post mortem
La strategia prescelta nel 2006 puntava dunque a fare a meno di ogni interazione con i providers. Il consiglio era quello di fornire riservatamente le proprie credenziali d’accesso ad una persona (o più persone) di fiducia, con istruzioni scritte sul da fare in caso di decesso: consegnare i dati agli aventi diritto, o magari cancellarli in tutto od in parte. Dal punto di vista giuridico, questo approccio ha antiche e solidissime basi: i giuristi lo chiamano mandato post mortem.
Un aspetto merita però la massima attenzione: il mandato post mortem non può realizzare attribuzioni in sede successoria; in altre parole, non si può utilizzare questa tecnica per lasciare un bene a qualcuno. Ad esempio: un medico può incaricare un amico di cancellare in caso di decesso tutta la corrispondenza con la signorina X, di eliminare ogni riferimento al sito Vivalabirra (che segretamente dirigeva), di consegnare tutti i files relativi a pazienti all’Ordine dei Medici, e di rimettere tutto il resto alla famiglia. Tutto questo non ha valore patrimoniale; i dati dei pazienti forse possiedono qualche risvolto economico indiretto, ma possiamo immaginare che la soluzione prescelta prevenga l’insorgere di responsabilità. Il mandatario potrà anche essere incaricato di prelevare dal conto corrente diecimila euro per restituirli a Tizio che glieli aveva prestati: così facendo non si realizza un’attribuzione, ma si salda un debito preesistente. Non potrà invece incaricarlo di prelevare centomila euro da consegnare alla signorina X: la ripartizione della “torta” ereditaria si può operare solo con testamento.
È raccomandabile che le istruzioni siano per iscritto, a tutela dell’incaricato in caso di controversia. Nel nostro esempio la famiglia potrebbe ad esempio contestare la restituzione dei diecimila euro a Tizio: l’istruzione scritta del defunto lo metterà al riparo da addebiti. Qualora l’interessato cambi periodicamente le password (pratica tanto lodevole quanto trascurata) dovrà ricordarsi di aggiornare ogni volta le istruzioni.
Decisamente sconsigliabile è invece affidare le proprie password al partner. Non c’è nulla di malizioso in questa indicazione: chi utilizza la posta elettronica per comunicare con l’amante non ha bisogno di alcuna consulenza per concludere che rivelare le proprie password al coniuge non è una buona idea. L’osservazione è assai più amara: in caso di separazione, persone note per l’esemplare correttezza sono capaci di colpi bassi inimmaginabili. L’accesso alle credenziali consente (molto banalmente: cambiando all’improvviso password) di assumere il controllo di tutta la vita online del partner, dialogando via mail e pubblicando sui social networks a suo nome. Una prospettiva che in determinati contesti può rivelarsi devastante.
Altra pessima idea sarebbe indicare le password in un testamento, anche se redatto e conservato da notaio. Chiunque può ottenere accesso al testamento esibendo un certificato di morte del defunto, e quindi le credenziali sarebbero alla mercé del più lesto a passare all’azione. Ricordiamo poi che le password sono un metodo d’accesso, non un bene provvisto di valore economico proprio. Non è quindi particolarmente utile parlare, come qualcuno pure ha fatto, di lascito (tecnicamente: legato) di password, così come non si usa parlare di legato di chiavi: si lascia in eredità un appartamento, non le chiavi.
Siti specializzati
Svariati siti da tempo offrono servizi automatizzati di conservazione delle credenziali. Il funzionamento è per lo più il seguente: il sito invia periodicamente una email all’iscritto. Se non c’è risposta entro un certo termine, ne vengono inviate altre, a ritmo sempre più serrato; dopo un periodo di silenzio predeterminato (per esempio: tre mesi) che l’iscritto in genere può stabilire a suo piacimento, si assume che sia accaduto l’irreparabile e le credenziali vengono poste a disposizione della persona preventivamente indicata dall’iscritto. Alcuni servizi hanno già cessato l’attività, e nulla esclude che ciò possa ripetersi in futuro, ma probabilmente non è questo l’inconveniente maggiore: se la scomparsa del sito non coincide con la scomparsa del cliente, quest’ultimo avrà tempo e modo di trovare un rimpiazzo. Il principale problema è sul fronte sicurezza: ha senso affidare le proprie preziosissime password a siti operati da soggetti la cui affidabilità non sia particolarmente nota? Può probabilmente farsi un’eccezione per il servizio offerto da Google, lo Inactive Account Manager, da molti detto in modo semiserio Death Manager, manager della morte. Com’è noto, siamo qui dinanzi ad infrastrutture e tecnici tra i migliori del pianeta, il che è di per sé rassicurante, ma la considerazione più importante è forse un’altra: se già usiamo i servizi Google, il Manager non aggiungerà un nuovo varco di potenziale vulnerabilità informatica. Resta comunque il problema più serio: il fattore tempo. Tre mesi possono sembrare una buona opzione, ma in determinati casi un simile ritardo nell’acquisizione dei dati da parte degli aventi diritto può comportare danni significativi. Accorciare di molto il termine è pericoloso: una lunga degenza, ad esempio, potrebbe portare ad un’attivazione indesiderata. La classica coperta troppo corta, insomma, contro la quale neppure le migliori tecnologie possono far molto.
E non è finita qui. Sulle pagine giapponesi di Yahoo (ending.yahoo.co.jp), a quanto ho potuto apprendere attraverso le traduzioni automatiche, oltre a servizi analoghi a quelli di Google sono offerti prodotti non virtuali, come funerali e tombe. Da parte loro, le multinazionali del caro estinto progettano di offrire ai sopravvissuti anche servizi legali e tecnologici. Come in altri campi, immobiliare non escluso, i players dalle spalle più larghe muovono dalle loro posizioni per impadronirsi di un’intera filiera, espellendo gli operatori indipendenti.
Una piccola rivoluzione a nome Google España
La strategia del 2006 aveva una lacuna evidente: non era in alcun modo d’aiuto qualora il defunto non avesse provveduto in vita.
Nella primavera 2014 è però accaduto un fatto nuovo. La Corte di giustizia dell’Unione europea ha reso una sentenza di grande risonanza intorno al cosiddetto diritto all’oblio: i gestori dei motori di ricerca sono ormai tenuti ad escludere dalle liste dei risultati determinate pagine web; ad esempio la notizia di una remota accusa cui abbia fatto seguito l’assoluzione. La decisione della Corte contiene però un’altra affermazione non meno importante: la responsabilità della filiale locale (in quel caso, Google España). Se Google offre servizi ad utenti spagnoli attraverso pagine per loro create e vende spazi pubblicitari a clienti spagnoli attraverso un sistema di vendita insediato in Spagna, ha ragionato la Corte, è pretestuoso invocare immunità dalle leggi e dai giudici della Spagna e dell’Unione europea. Se, come tutto fa pensare, questo trend verso la localizzazione dei servizi Internet proseguirà, si può immaginare che gli europei possano in un prossimo futuro rivolgersi a sportelli locali, nella propria lingua ed applicando la propria legge. Questo non potrà che applicarsi anche alle successioni digitali. Possiamo quindi immaginare un sistema in cui, qualificandosi presso il provider in sede locale, gli eredi possano ottenere accesso ai dati digitali del defunto sulla base della propria legge. Come può però l’erede dimostrare il suo diritto?
La questione ha due profili principali. Occore dimostrare che:
• l’erede di Mario Rossi è Giovanna Rossi;
• l’account mrossi42@provider.tld apparteneva proprio a Mario Rossi, anzi: a quel Mario Rossi. A complicare la faccenda, riferiscono i principali operatori del settore, solo raramente gli utenti, anche se espressamente richiesti, forniscono in sede di apertura dell’account dati sufficienti ad identificarli con certezza.
Il certificato successorio europeo e l’atto notorio
Il regolamento dell’Unione europea numero 650 del 2012, in vigore dal 17 agosto 2015, prevede (tra l’altro) la creazione di un certificato successorio europeo, strumento unificato per dimostrare la qualità d’erede in tutta l’Unione. Il regolamento demanda ai Paesi Membri la designazione dell’Autorità, e nella grande maggioranza (Italia compresa) tale Autorità è il notaio. Nulla impedisce che il certificato venga rilasciato in formato XML con firma digitale: in Italia suonerebbe anzi strano il contrario, atteso che tutti gli atti notarili vengono ormai da anni trasmessi ai pubblici uffici competenti solo in tale formato digitale. A questo punto, per quanto concerne la prima questione, il più sembra fatto, nel senso che i providers possono ricevere dal notaio i dati relativi al defunto ed agli aventi diritto con modalità standardizzata a livello europeo.
Resta la seconda questione: come collegare l’identità fisica del defunto all’account. Frugando nella cassetta degli attrezzi del notaio, uno strumento verosimilmente idoneo si trova: l’atto di notorietà. Due persone, non interessate alla successione, confermano che una determinata risorsa apparteneva al defunto. Per un indirizzo email, potrebbero ad esempio dichiarare di aver utilizzato quella casella per corrispondere col defunto, di cui avevano anche conoscenza diretta, e di non avere alcuna ragione per immaginare che la casella appartenesse ad altri e fosse soltanto accessibile da parte del defunto.
La crisi del paradigma proprietario?
Mentre noi ragioniamo, la Rete però evolve, e lo fa, come sempre, molto velocemente. In un intervista rilasciata a Wired nel 2000 (fascicolo 8.12), poco prima della sua uscita di scena, il Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton riportò una battuta del suo omonimo Gates durante un colloquio alla Casa Bianca: the problems between the high tech community and the government were largely rooted in the fact that they worked on a schedule that was three times faster than regular private-sector economics, and we worked on a schedule that was three times slower, and that put us out of sync by a factor of nine.
Uno degli elementi che più ha contribuito ad attirare l’attenzione del pubblico sul tema dell’eredità digitale è quello della musica online. Anni fa si sparse addirittura la voce che l’attore Bruce Willis avesse iniziato una controversia con Apple per vedere affermato il proprio diritto a lasciare ai suoi figli la sua colossale collezione di musica su iTunes. La notizia si rivelò falsa, non senza aver prima aver destato un certo interesse mediatico. La crescente disponibilità di connettività, tra gli altri fattori, sta però cambiando le regole del gioco. In alcuni settori di nicchia, come la musica classica, i principali providers specializzati tendono a non offrire più una tariffazione a pezzo ma abbonamenti che permettono di accedere a tutto l’archivio per un tempo determinato. Se tale paradigma si affermerà, il problema della successione resterà probabilmente più circoscritto.
Il trend ha peraltro probabilmente valenza generale, ricollegandosi al più generale fenomeno della shared economy, in cui il godimento tende a sganciarsi dalla proprietà: pensiamo al fenomeno del car sharing.
|
|
|