Per un avvicinamento tra le forme di testamento
Per un avvicinamento tra le forme di testamento
di Enrico Marmocchi
Notaio in pensione
Il titolo del convegno ci invita a considerare la ‘crisi’ del testamento. Ma francamente non ho mai sentito così spesso pronunciare la parola ‘testamento’ nel linguaggio comune. Testamento biologico, lasciti testamentari, testamento solidale, testamento morale, testamento politico, testamento spirituale. Si può quasi dire che non esista area della conoscenza nella quale la persona non possa lasciare la propria traccia «per il tempo in cui avrà cessato di vivere». E questo ha certamente contribuito ad estendere il significato nell’uso quotidiano della parola ‘testamento’.
Ma anche a considerare il linguaggio tecnico dei giuristi si perviene ad analoga sensazione. Dal sito del Ministero della Giustizia - Statistiche riguardanti il Registro Generale dei Testamenti (in seguito Rgt), risulta che le pubblicazioni dei testamenti (in massima parte olografi e pubblici con qualche decina di segreti) sono passate da 43.727 dell’anno 1989 (anno di attivazione del Registro generale dei testamenti) a 71.921 dell’anno 2012, ultimo dato disponibile. Con una progressione pressoché costante di oltre mille schede ad anno, ma con un balzo di rilievo di ben 4.600 pubblicazioni in più tra gli ultimi due anni (dal 2011 al 2012).
Ritornerò su questi numeri ma vien da chiedersi. Ma cos’è questa crisi?
Per aver contribuito alla scelta del tema del convegno, è una domanda che mi sono posta più volte. Con alcune considerazioni che ci riportano indietro nel tempo.
Nell’anno 1972 venivano pubblicati, per cura di Vincenzo Ferrari, i risultati di una indagine sociologica sull’uso del testamento nella nostra società (Successioni per testamento e trasformazioni sociali, Milano, 1972). Da quella documentata ricerca e da una successiva indagine statistica (DOXA, «Indagine sul Testamento», in Boll. Doxa, 1992, n. 21-22) prendiamo due dati. Su un campione di 2.052 intervistati, solo una percentuale fra il 3% e il 4% risultava aver fatto testamento nella forma olografa alla quale il sondaggio si riferiva. L’indagine (p. 168) si concludeva testualmente nel senso che «le osservazioni empiriche non solo mettano in luce un declino dell’istituto, ma che tale declino sia ancor più accentuato di quello che una prima impressione lascerebbe supporre». Così confermando le precedenti (e successive, IEVA) opinioni della dottrina.
Veniva in particolare constatata la «funzione socialmente secondaria» del testamento (ibidem), nonostante il rilievo costituzionale offerto dall’art. 42, ultimo comma. Più ampiamente (attualizzando quei dati), la negazione di una funzione sociale tout court del testamento confluisce nella ulteriore considerazione, ugualmente avvertita e consolidata, che esclude che allo stesso diritto ereditario «possa riconoscersi nel sistema una funzione sociale nel senso in cui la formula è usata per le istituzioni giuridiche» (ancor di recente, P. RESCIGNO, «Intervento» al Convegno dell’Università europea, in Riv. not., 2015, p. 730 e ss.). Nel senso cioè di fenomeno destinato allo sviluppo della persona (com’è adesso per la famiglia e per la proprietà).
E non è senza significato che in questo ormai lungo tempo che ci separa dalle codificazioni, civile e costituzionale, siano stati profondamente modificati istituti fondanti del nostro ordinamento - come la famiglia, la proprietà, l’impresa - ma non sia stata mai toccata, se non marginalmente ed in modo indiretto, la struttura del diritto ereditario (penso al patto di famiglia) e meno che mai del testamento. Forse per rispetto della sua secolare tradizione storica? Forse per carenza di adeguata funzione sociale? Aspetti certamente da considerare ma sui quali il notaio ha ben poche possibilità di incidere, pur rendendosi conto che, nel meccanismo successorio, e nella materia testamentaria, vi è qualcosa che non funziona e che pur lo riguarda direttamente (il Certificato successorio europeo non ne è che un segnale). È il problema della ‘forma’; o, più esattamente, delle ‘forme’ di testare.
Pur nella «eguale dignità delle forme» (secondo la locuzione impiegata da Pietro Rescigno già sul finire degli anni ’80, «Ultime volontà e volontà della forma», in Vita not., 1987, p. 17), non v’è dubbio che i due documenti in che consistono la forma olografa e quella pubblica siano diametralmente opposti, per natura e finalità perseguite.
Del tutto informale e libera la prima, pur qualificata come «dichiarazione a forma vincolata»; minuziosamente e compiutamente regolata la seconda. Duttile il primo documento; rigido il secondo. Questa diversità - è ben noto - ha inciso profondamente sul loro indice di gradimento, se si considera, ritornando alle risultanze del Rgt, che dei 71.921 testamenti pubblicati nel 2012 ben 56.009, pari al 78%, sono olografi, con un dato costante negli ultimi anni ma in sensibile aumento rispetto al 74% della metà degli anni ’90. Riprendo questa dato da un mio lavoro di quegli anni sulla prima applicazione del Rgt. («Il testamento olografo tra segretezza e sicurezza», in Riv. dir. civ., 1998, II, p. 115 e ss.) sul quale tornerò più avanti. Arrotondando quel dato, oggi si può ben dire che quattro testamenti su cinque rivestono la forma olografa.
Viene allora da pensare che la parola ‘crisi’, che accompagna nel sentire comune l’intero fenomeno successorio, non riguardi direttamente né il diritto ereditario generalmente inteso - la successione della persona - né il testamento come istituto - il cui ambito di elasticità è per sé limitato - ma la ‘disponibilità’ stessa della forma testamentaria, nei due tipi in assoluto più praticati. I quali, in nome di un accesso generalizzato al testamento, si dividono le finalità in modo troppo rigido e distaccato - e per questo non più attuale, come si dirà - riconducibile, con costante riguardo al testamento come ‘documento’, per l’uno alla ‘segretezza’ e per l’altro alla ‘sicurezza’, secondo le loro comuni accezioni giuridiche.
In un confronto, un po’ malizioso, ricordavo allora, dalla parte del notaio, «questi straccetti di carta in che consistono normalmente gli olografi che impunemente riescono a penetrare e superare una cortina normalmente invalicabile di blocchi formali e di controlli pubblicitari senza nessuna garanzia di autenticità». Oggi, all’opposto, dalla parte dell’olografo, osservo criticamente il minuzioso formalismo del pubblico, la presenza necessaria dei testimoni, i costi di redazione.
Le due forme di testare sono troppo distanti tra loro per garantire operativamente quella “pari dignità”, pur nobilmente indicata. E questo spiega il diverso gradimento per la forma più agile, più economica e di più immediata modificabilità.
Occorre allora ricercare un avvicinamento che renda le due forme più equilibrate e parimenti appetibili, pur sempre nel rispetto della rispettiva natura giuridica - di atto pubblico e di scrittura privata - destinate a convergere il più possibile in un documento che rivesta comuni caratteri di autenticità, segretezza e sicurezza. Una convergenza che - almeno per ora - deve ritenersi non riuscita con l’introduzione della “forma internazionale” del testamento, se si considera che, dai dati statistici richiamati, risulta che nel 2012 sono stati pubblicati soltanto tre testamenti internazionali (e, rispettivamente, uno e due, negli anni precedenti).
Un documento che, pur con requisiti diversi, sia egualmente idoneo - nell’atto di sua formazione ma anche nella sua circolazione post mortem - a realizzare quella ‘canalizzazione’ (channeling function) del traffico giuridico in che consiste la funzione più intensa della forma degli atti in genere.
Si aprono qui alcune considerazioni, necessariamente soggettive, che il tema del convegno mi induce a riprendere da quel ricordato lavoro; e di svolgere e ampliare per questa occasione. Nella considerazione che, attenendo esse alla forma del documento nella sua ‘definizione’ materiale di res signata, non potranno che avere carattere indicativo e propositivo.
Il primo avvicinamento - in direzione dell’olografo verso il pubblico - riguarda il deposito obbligatorio del testamento olografo da parte del testatore. Che si intende qui riproporre - come è noto - dopo l’ultima occasione mancata con il Rgt (era l’anno 1981), che ha limitato la registrazione ai soli olografi «depositati formalmente presso un notaio» (art. 4, comma 1, n. 4, L. 307/1981). Così di fatto svuotando quel «sistema di registrazione dei testamenti», cui pur si riferiva la Convenzione istitutiva del registro. Limito queste note alle sole ragioni portate a favore del deposito obbligatorio, e dibattute, ma non accolte, sia nella preparazione del codice del 1865 sia in quella del codice del 1942. Osservava per quest’ultimo Nicola Stolfi (Diritto civile, Torino, 1934, VI, p. 542): «Non si può infatti disconoscere, che tale obbligatorietà non soltanto eliminerebbe i giudizi di falsità divenuti oramai frequenti e di difficile risoluzione, ma farebbe diminuire anche il numero dei giudizi di nullità di testamento, e renderebbe impossibile la distruzione della scheda testamentaria».
Ma prevalse sempre la soluzione contraria, del deposito facoltativo; sempre nel nome della intangibilità della forma dell’olografo, come vessillo della assoluta spontaneità e libertà del volere del testatore. A quasi un secolo di distanza, l’immobilità dell’olografo, sia pur soltanto come res signata, ne ha anche preservato tutti i problemi richiamati dall’autore. Con l’aggiunta che i «dubbi gravi» che erano insorti nel Pisanelli nella preparazione del codice del 1865 (vi ritornerò in fine) - pensando al testatore che “viaggi e si trovi in campagna”; ovvero a chi “vecchio e ammalato”, voglia riporre il testamento in un luogo sicuro o affidarlo ad un amico - sembrano oggi riflettere situazioni divenute del tutto marginali, in una «società della registrazione … nella quale ogni comunicazione sarebbe un atto sterile se non fosse accompagnata dalla registrazione» (M. FERRARIS, Il documento notarile e l’avvenire della memoria, in Unità d’Italia e tradizione notarile - Relazioni storiche, Roma, 2012, p. 250). Nella valutazione tra ‘segretezza’ e ‘sicurezza’ del documento, si deve allora «conchiudere - ancora con parole di Stolfi (op. loc. cit.) - che i vantaggi suddetti soverchiano di gran lunga il fastidio del deposito e l’inconveniente della probabile divulgazione del testamento, e sarebbe quindi opportuno rendere obbligatoria la detta formalità».
Per taluni aspetti, anche il corrispondente avvicinamento della forma pubblica verso quella olografa può considerarsi una ri-proposta, in quanto inquadrabile nella tendenza - da tempo avvertita in dottrina e applicata in giurisprudenza - ad un progressivo sfrondamento e attenuazione del “formalismo testamentario”, inteso come l’insieme dei requisiti propri delle singole forme di testamento. La tendenza riguarda entrambe le primarie forme di testare. Per quella olografa si portano i casi del testamento epistolare, del regime riguardante la data, delle condizioni di validità della sottoscrizione. Per la forma pubblica si indicano normalmente, la possibile predisposizione dell’atto; la non necessità di “forme sacramentali”; l’interpretazione della falsa dichiarazione del testatore di non potere sottoscrivere; le modalità di apposizione delle sottoscrizioni. Lo stesso progressivo abbandono della forma segreta - fra tutte certamente quella più complessa per prescrizioni formali - è indice, sia pure per paradosso, di questa tendenza allo “sfrondamento formale”. E la riduzione al minimo delle prescrizioni di forma è un espresso intendimento del testamento ‘internazionale’. A questi segnali se ne può ora aggiungere un altro, che pur richiede, come il precedente, un intervento normativo, com’è d’obbligo per ciò che riguarda la forma degli atti.
Il testamento pubblico è rimasto uno dei pochi atti per i quali è indispensabile che sia «ricevuto dal notaio in presenza di due testimoni» (art. 603, comma 1). La norma non è stata toccata, se non di riflesso, dalla recente riforma (L. 28 novembre 2005, n. 46) - rientrando a pieno titolo, assieme a quella in tema di ‘segreto’, tra gli «altri casi previsti per legge» per cui «è necessaria la presenza dei testimoni» (art. 48 L.N.) - e si deve quindi fare riferimento in generale alla funzione stessa dei testimoni negli atti notarili, sempre oggetto di dibattito nella trattatistica notarile, dalla quale ricaviamo peraltro utili indicazioni.
Il generale affievolimento storico della figura dei testimoni; la loro sempre più ridotta utilità, limitata alla semplice e silenziosa osservazione oggettiva degli accadimenti, «senza poter sindacare l’attività del notaio e i criteri che questi, quale responsabile dell’atto, ritenga di dovere adottare» (come osserva Cass., 9 febbraio 1963, n. 243, in Foro it., 1963, I, c. 1196); l’esigenza di una sempre maggiore semplificazione operativa; e reciprocamente - per chi abbia esperienza diretta del lavoro notarile -, la difficoltà di fissare l’appuntamento congiunto assieme al testatore. Sono tutte ragioni che, a completamento del proposto avvicinamento, mi inducono a questo (modesto, a mio avviso) ulteriore intervento normativo sulla presenza dei testimoni negli atti di ultima volontà. Con l’abbandono di una secolare ‘sacralità’ e - come si è detto - in assenza di una funzione sociale dell’istituto.
Quel confronto tra “vantaggi e fastidi”, che induceva lo Stolfi a schierarsi per il deposito obbligatorio dell’olografo, si può oggi rinnovare optando per l’esclusione della presenza dei testimoni anche per gli atti di ultima volontà.
Pur riguardando forme così diverse di testare, le due proposte sono meno distanti di quanto si pensi. E condividono vicende che possiamo chiamare “di prossimità normativa”, in quanto entrambe - pur lontane per tempi e occasioni - hanno ‘sfiorato’ la traduzione in norme positive.
Per il deposito obbligatorio, ho già ricordato il pensiero di quell’autore. Aggiungo questo passo della Relazione ministeriale Pisanelli datata 15 luglio 1863: «Consultati al riguardo i magistrati, risposero concordemente che, conservandosi la forma olografa di testare, fosse mestieri una qualche solennità certificante, che risollevasse il credito delle cedole testamentarie, e conferisse alle medesime la debita onoranza».
La vicenda della rinuncia ai testi è così recente da non richiedere particolari integrazioni. Possiamo dire che il legislatore si sia fermato un attimo prima, sull’orlo del burrone rappresentato dalla (pretesa) ‘sacralità’ del testamento, e così dalla ‘intangibilità’ del documento. Né l’analogia, né l’interpretazione estensiva, sono qui possibili, pur essendo lì ad un passo.
E questo induce a valutare nuovamente - sempre tra ‘autenticità’, ‘segretezza’ e ‘sicurezza’ - quei «vantaggi e fastidi e inconvenienti» del passo dello Stolfi e la «debita onoranza» della relazione Pisanelli.
A ben vedere entrambe le forme sono accomunate dal rispetto di quella ‘sacralità’ del testamento, che deriva certamente dalla sua storia ma di cui si può dubitare che persista immutata anche presso di noi. Nella quale, anzi, per comune opinione, non vi è più nulla di intoccabile che si appoggi a principi immutabili. Nella sintesi di Natalino Irti: «La decisione si chiude e appoggia in se stessa, e trae da sé le proprie ragioni, e non da altro viene legittimata» (Il salvagente della forma, Bari, 2007, p. 43). Una decisione che oscilla unicamente nel dilemma “utile-disutile”, “vantaggi e fastidi”. E il testamento, al cui formalismo si dirigono queste timide proposte, non fa eccezione a «codesta insensibilità o neutralità della forma rispetto al contenuto» (op. cit., p. 42).
Postilla
Una notazione aggiuntiva a chiusura del convegno. I dati statistici escludono possa parlarsi di ‘crisi’ del testamento, se non come anomala distribuzione delle forme testamentarie.
Si avverte, invece, la tendenza ad un più ampio riconoscimento della autonomia negoziale del testatore, favorita dallo svolgersi del requisito di patrimonialità da una funzione dispositivo-attributiva (collegata ai beni) ad una funzione programmatico-regolamentare (incentrata sugli interessi).
Questa estensione del testamento-negozio si riflette sul testamento-documento come «atto cornice» (CIAN, 2007) o come «atto contenitore» (BARTOLI LANGELI, 2006, con riguardo all’instrumentum), rispettoso e garante di quella neutralità della forma ricordata nel testo.
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