Rent to buy di partecipazioni sociali e di azienda
Rent to buy di partecipazioni sociali e di azienda
di Marco Maltoni
Notaio in Forlì
Inquadramento della questione
Vi sono definizioni che, per la loro forza espressiva, forse accentuata dalla lingua impiegata, e grazie anche alla forza propagatrice della divulgazione giornalistica, entrano a far parte del linguaggio corrente.
Non vi è dubbio che una di esse sia “rent to buy”, utilizzata per indicare in forma breviloquente un’operazione economica che consiste nella concessione in godimento oneroso di un bene e che è caratterizzata dalla compresenza di un diritto (o di un obbligo) di acquisto del bene goduto a favore (o a carico) del concessionario, con imputazione a prezzo di una parte (o dell’intero ammontare) dei canoni corrisposti per il godimento (che di fatto vengono defalcati dal prezzo di acquisto).
Come noto, il legislatore è intervenuto a disciplinare la fattispecie limitatamente ai «contratti di godimento in funzione della successiva alienazione di immobili» (art. 23 D.l. 12 settembre 2014, n. 133 convertito con L. 11 novembre 2014, n. 164), ed ha così introdotto nell’ordinamento una serie di regole funzionali alla soluzione dei conflitti di interesse che possono sorgere fra le parti in pendenza della vicenda economica che le coinvolge; regole pensate qualora oggetto del rapporto negoziale sia un bene immobile.
Stante la specialità della disciplina di diritto positivo, vi è l’esigenza di capire tramite quali strumenti negoziali sia possibile attuare il medesimo programma economico allorché oggetto del rapporto siano partecipazioni sociali o un’azienda e se la disciplina racchiusa nell’art. 23 del D.l. 133/2014 sia suscettibile di applicazione estensiva o analogica a diverse fattispecie contrattuali.
Fissato l’obiettivo, sembra utile a chi scrive individuare, in primo luogo, le norme offerte dall’ordinamento per disciplinare il godimento temporaneo dei beni indicati, e poi verificare se la funzione, impressa dalle parti, di favorire il futuro acquisto da parte del concessionario in godimento comporti la necessità di disapplicare, integrare, o diversamente interpretare quelle norme in quanto inidonee o insufficienti a regolare il nuovo e diverso assetto di interessi che, in tesi, si è venuto a creare fra le parti medesime.
Tratti rilevanti della disciplina dell’art. 23 del D.l. 133/2014
Il metodo di indagine proposto presuppone consapevolezza della disciplina contenuta nell’art. 23 del D.l. 133/2014, paradigma delle soluzioni volute dal legislatore a fronte dei conflitti di interesse che la natura dell’affare può alimentare.
Sul piano dei rapporti fra contraenti, due scelte mi sembrano particolarmente significative. Innanzitutto, quella di normare i reciproci diritti ed obblighi rispetto al bene attingendo alla disciplina dell’usufrutto, mediante la tecnica del rinvio espresso. Ne consegue l’effetto, che forse ne è stato il movente, di impedire l’applicazione della disciplina delle locazioni, che in campo immobiliare ha natura speciale (dalla L. 392/1978 alla L. 431/1998) e che è generalmente orientata a favorire l’interesse del conduttore rispetto a quello del proprietario.
In secondo luogo, quella di definire - e mi sembra una novità - il criterio di imputazione al prezzo di acquisto delle somme corrisposte in pendenza del godimento, criterio fondato sulla necessità di distinguere fin dall’origine quanto spetta quale corrispettivo per il godimento e quanto trova ragione nell’aspettativa di acquistare il bene. Regola che rappresenta, a sua volta, il presupposto di applicazione di altre contenute nella stessa disciplina (per esempio: nel comma 1-bis, o nel comma 5 dello stesso art. 23), funzionali ad un equo contemperamento dei contrastanti interessi delle parti.
Si rileva altresì che la norma del secondo comma («il contratto si risolve in caso di mancato pagamento, anche non consecutivo, di un numero minimo di canoni, determinato dalle parti, non inferiore ad un ventesimo del loro numero complessivo») rappresenta nella sostanza la riproposizione di quella contenuta nell’art. 1525 c.c. e risponde alla medesima logica di privilegiare la parte potenziale acquirente allorché il contratto è funzionalmente orientato a favorire l’acquisto del bene come esito finale dell’operazione.
Ai nostri fini non mi pare necessario soffermarsi sulle regole di soluzione dei conflitti che possono sorgere con gli interessi dei terzi, perché dipendenti dal sistema di pubblicità tipico della circolazione immobiliare o da deroghe all’ordinaria disciplina fallimentare, che presuppongono una scelta espressa del legislatore.
Rent to buy di partecipazioni sociali?
Assumendo la disciplina dell’art. 23 D.l. 133/2014 come paradigma di riferimento, mi pare che l’indagine debba muovere da una constatazione fin troppo ovvia: l’ordinamento non contempla alcuna forma di godimento di partecipazioni sociali di natura obbligatoria.
La temporaneità del godimento può essere realizzata solo mediante la costituzione del diritto di usufrutto, come previsto dall’art. 2352 c.c. a cui rinvia l’art. 2471-bis c.c., né vi è spazio per scelte diverse di autonomia privata.
L’ostacolo invalicabile è rappresentato dai principi sulla legittimazione all’esercizio dei diritti sociali con pieno effetto verso l’organizzazione comune.
Per chiarirsi occorre considerare in primo luogo che l’operazione di “rent to buy” si realizza mediante la concessione in godimento immediato del bene al potenziale acquirente, a fronte di un canone oneroso, e, secondariamente, che godere di una partecipazione sociale significa esercitare i diritti patrimoniali ed amministrativi connessi. Il che significa, detto in altri termini, che il diritto al voto, il diritto agli utili, e gli altri diritti amministrativi (ex art. 2352, ultimo comma, c.c.) dovrebbero essere esercitati da un soggetto diverso dal proprietario delle azioni o delle quote con pieno effetto verso l’organizzazione sociale.
Sennonché, per opinione pacifica, è preclusa all’autonomia privata la possibilità di scindere la partecipazione sociale con rilevanza verso l’organizzazione sociale al di fuori delle modalità consentite espressamente dalla legge(1): ed in tal senso non si può che rilevare che nel nostro ordinamento la legittimazione all’esercizio del diritti sociali è collegata alla titolarità di un diritto reale, sia esso proprietà, usufrutto o pegno(2).
Dato atto che l’unica modalità ammessa per scindere il godimento dalla proprietà della partecipazione è rappresentata dalla costituzione del diritto di usufrutto, si potrebbe immaginare di attuare il “rent to buy” mediante attribuzione di tale diritto a tempo determinato, con pagamento di un corrispettivo rateizzato, attribuzione collegata ad un contratto di opzione di acquisto o ad un contratto preliminare di acquisto della piena proprietà della medesima partecipazione sociale.
Sennonché, la qualificazione del diritto di godimento come usufrutto conduce, sul piano del titolo costitutivo, ovvero del tipo contrattuale che ne è fonte, ad una conseguenza molto significativa ai fini della nostra indagine.
Qualora la costituzione del diritto reale parziale avvenga verso corrispettivo in denaro, il contratto si qualifica come vendita.
Nulla a che vedere con l’operazione economica chiamata “rent to buy”.
Le rate nelle quali è frazionato il corrispettivo non rappresentano, in termini giuridici (nemmeno dal punto di vista del diritto tributario), canoni di godimento assimilabili a quelli corrisposti allorchè oggetto del contratto è un diritto di godimento di natura obbligatoria; costituiscono frazioni del prezzo, inteso nell’accezione di cui all’art. 1470 c.c.
Ne deriva che le somme pagate a fronte della costituzione dell’usufrutto esauriscono integralmente la loro funzione causale nell’ambito del contratto di cui sono oggetto, e non sono in parte imputabili al prezzo di una successiva, ulteriore vendita del diritto di piena proprietà della medesima partecipazione. Certamente le parti potranno convenire che il prezzo della successiva vendita della piena proprietà sia determinato in misura tale da tener conto di quanto già corrisposto dall’usufruttuario, come se si trattasse di uno “sconto”, e che quindi sia solo determinabile al momento della conclusione del contratto di opzione o del contratto preliminare; altrettanto certamente, tuttavia, quanto già pagato non potrà essere “imputato”, una seconda volta, a prezzo.
Atteso ciò, qualora il contratto debba avere ad oggetto partecipazioni sociali, sembra che la finalità del “rent to buy”, intesa come possibilità di godimento immediato a fronte di un pagamento dilazionato del prezzo, possa essere perseguita, forse meno macchinosamente, ricorrendo a modelli negoziali diversi, che nulla hanno a che vedere con l’assetto di interessi disciplinato nell’art. 23 D.l. 12 settembre 2014 n. 133, che abbiamo eletto a paradigma di riferimento.
Si può pensare, innanzitutto, al contratto di vendita con riserva di proprietà, rispetto al quale solo di recente la dottrina ha rimosso il sospetto di incompatibilità con il trasferimento di una partecipazione sociale(3).
In via alternativa, la prassi ricorre alla vendita con condizione risolutiva di inadempimento, ormai pacificamente ammessa. Occorre tuttavia avere ben presenti le “caratteristiche” effettuali della prospettata soluzione rispetto al ricorso alla clausola risolutiva espressa prevista nell’art. 1456 c.c., anche al fine di poter apportare correttivi, nei limiti consentiti, facendo appello all’autonomia privata, e quindi mediante un’accorta tecnica negoziale.
Posta a confronto con l’ordinaria clausola risolutiva espressa, la condizione risolutiva di esame si distingue innanzitutto per l’irrilevanza dell’imputabilità dell’inadempimento, che determina un vantaggio per la parte venditrice, rendendo certa, sotto tale profilo, la tutela dei suoi interessi(4).
Un secondo profilo distintivo, è rappresentato dall’automatismo dell’effetto risolutivo, che si produce al verificarsi dell’evento a prescindere da una manifestazione di volontà del soggetto leso, al contrario di quanto previsto nella disciplina della clausola risolutiva espressa, la cui operatività dipende da una dichiarazione recettizia di volersi avvalere del rimedio avverso l’inadempimento di controparte.
Nella logica del confronto competitivo fra vendita con riserva di proprietà e vendita condizionata all’inadempimento dell’acquirente mi pare che il descritto frammento di disciplina non debba essere trascurato e porti punti a favore della prima soluzione negoziale.
Infatti, se il necessario ricorso agli ordinari rimedi di tutela (postulato dalla disciplina della vendita della riserva di proprietà) può risultare un fardello per il venditore, sull’altro piatto della bilancia va posta l’impossibilità di indulgere a comportamenti dilatori che talora, sul piano pratico, potrebbero risultare in definitiva funzionali all’esito felice del programma negoziale, esito che entrambe le parti erano interessate a conseguire al momento della conclusione del contratto. Dunque, la scelta del contratto di vendita con riserva di proprietà consente al venditore una “gestione” più elastica dell’inadempimento dell’acquirente, che potrebbe anche essere temporaneo e provvisorio, ferma la tutela dell’indisponibilità del bene oggetto di contratto.
Di qui l’opportunità di arricchire l’evento condizionante di fatti ulteriori, come, per esempio, la scadenza di un termine ulteriore senza che sia stata revocata la clausola condizionale da parte del venditore(5) oppure la necessità di una diffida ad adempiere entro un termine congruo inviata dal venditore.
Occorre inoltre pattuire espressamente il diritto ad una pretesa risarcitoria del venditore in caso di inadempimento dell’acquirente, poiché non soccorre l’art.1526 c.c. e la giurisprudenza sembra diversamente orientata, avendo già deciso che «nel caso in cui al contratto sia stata concordemente ed espressamente apposta una condizione risolutiva d’inadempimento, il comportamento della parte che non esegue la prestazione, costituendo legittimo esercizio di una potestà convenzionalmente attribuita, non integra un illecito contrattuale e non è dunque fonte d’obbligazione risarcitoria ai sensi dell’art.1223 c.c.»(6).
Sembra allora quantomeno opportuno, al fine di eliminare profili di incertezza interpretativa sul piano del rapporto fra contraenti, stipulare un patto di indennizzo a carico dell’inadempiente, come penale(7), non trascurando l’indicazione proveniente dall’art. 1526 c.c. in merito alla determinazione del quantum, trattandosi di norma di cui non può escludersi l’applicazione analogica, in consonanza con il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia di leasing traslativo(8).
L’interesse del venditore a ricondurre convenzionalmente il mancato pagamento all’area della condotta antigiuridica, e non del legittimo esercizio di una potestà contrattuale (secondo l’indicazione di una giurisprudenza invero non sensibile alle ragioni della prassi), alimenta un’ulteriore suggestione interpretativa, che non pare fino ad oggi valutata.
Come notato, la vendita condizionata all’inadempimento si presta a perseguire, con tecnica alternativa, finalità alle quali è tipicamente dedicato sia il contratto di vendita con patto di riservato dominio sia, in definitiva, il contratto di godimento in funzione della successiva alienazione di immobili di cui all’art.23 del D.l. 133/2014.
L’equivalenza funzionale non consente allora di escludere a priori l’applicabilità analogica anche dell’art. 1525 e dell’art.23 comma due D.l. 133/2014, poiché non sembra impossibile ravvisare anche nella fattispecie condizionata la ricorrenza di quegli stessi interessi sostanziali che le norme richiamate mirano a tutelare. Ne consegue, sul piano della tecnica redazionale, l’opportunità di valutare l’importanza dell’inadempimento anche alla luce del criterio offerto dalla disciplina del contratto di vendita con riserva di proprietà, per evitare una potenziale declaratoria di nullità del meccanismo condizionale per frode alla legge.
Rent to buy di azienda?
Da tempo si assiste nella prassi alla conclusione di contratti di affitto di azienda a cui accede pattiziamente il diritto (o talora l’obbligo) dell’affittuario di acquistare l’azienda medesima imputando integralmente il canone di affitto al prezzo di acquisto(9).
Lo schema ricalca indubbiamente quello del rent to buy immobiliare, disciplinato dall’art.23 D.l.133/2014: da qui l’interrogativo se la sostanziale coincidenza strutturale e funzionale ha qualche ricaduta sul piano della disciplina applicabile al contratto avente ad oggetto il godimento dell’azienda. Mi pare che il metodo di indagine corretto per rispondere al quesito sia quello di valutare, norma per norma, la ragione per la quale il legislatore ha optato per una determinata soluzione del conflitto di interessi disciplinato.
Si sospetta(10), innanzitutto, che lo scopo del programma negoziale che connota un’operazione definibile “rent to buy”, ovvero quella di consentire all’affittuario di acquistare il bene, renda plausibile, se non necessaria, l’applicazione immediata della disciplina dell’art. 2560 c.c. in tema di responsabilità per i debiti relativi all’azienda ceduta, norma pacificamente inapplicabile in caso di affitto di azienda(11).
Se si accettano le ragioni che secondo la dottrina dominante(12) fondano l’estensione all’acquirente della responsabilità per i debiti aziendali, la risposta non può che essere negativa.
È tesi comune, infatti, che la scelta normativa sia mossa dall’intento di consentire ai creditori di agire esecutivamente sul complesso aziendale, nel presupposto che sovente rappresenti la componente patrimoniale più consistente del debitore. L’estensione di responsabilità all’acquirente consente pertanto ai creditori dell’imprenditore cedente di continuare a godere della medesima garanzia patrimoniale o comunque di poter agire in via esecutiva su tale complesso di beni anche successivamente alla sua alienazione, senza necessità di esperire preventivamente l’azione pauliana.
Se tale è la ragione della scelta normativa, l’anticipata applicazione dell’art. 2560 c.c. in caso di contratto che non trasferisce la proprietà sarebbe infruttuosa, se non contradditoria con la ratio della norma, che pretende tale trasferimento: effetto che nell’operazione di rent to buy è eventuale, e quantomeno rinviato alla conclusione di un successivo contratto(13).
Per la stessa ragione, ovvero per l’eventualità dell’acquisto, mi pare che, in assenza di diversa pattuizione, si debba ritenere applicabile l’art. 2561 c.c.: nella fase prodromica dell’operazione, caratterizzata dal godimento obbligatorio del compendio aziendale, persistono gli stessi interessi che il legislatore ha inteso tutelare con la norma richiamata. Starà alle parti adottare una diversa soluzione del loro potenziale conflitto di interessi.
Volendo indagare quale sia il ricavo interpretativo che può trarsi dalla disciplina dell’art. 23 D.l. 133/2014 rispetto alla fattispecie in esame, si è già evidenziata la scelta legislativa di affidare la soluzione dei conflitti di interesse fra contraenti alle norme in materia di usufrutto e non a quello in materia di affitto o di locazione di immobili.
La medesima opzione è già a regime in caso di godimento temporaneo dell’azienda, in virtù del rinvio operato dall’art. 2562 c.c. all’art. 2561 c.c.: dunque, sotto tale profilo, non è necessario invocare l’applicazione della nuova disciplina del “rent to buy”.
Rimanendo sul piano della soluzione dei conflitti fra contraenti, occorre ricordare che, fermo quanto disposto dall’art. 2562 c.c., la dottrina si è interrogata sull’applicabilità all’affitto di azienda delle norme che disciplinano l’affitto di un bene produttivo (artt. 1616 e ss. c.c.) pervenendo generalmente alla conclusione affermativa, anche se non generalizzata ma selettiva, previa valutazione di compatibilità. Sembra necessario, nella prospettiva della presente indagine, recuperare gli esiti interpretativi a cui è pervenuta la dottrina, al fine di valutare la compatibilità delle norme sull’affitto di bene produttivo applicabili all’affitto di azienda con la funzione economica dell’operazione palesata dalla clausola accessoria fonte di un diritto (o di un obbligo) di acquisto.
Si ritengono comunemente applicabili gli articoli 1615, 1617, 1618, 1624, 1625 e 1627 c.c.(14)
Di questi, gli unici incoerenti con la funzione dell’operazione complessivamente considerata potrebbero essere gli articoli 1625 e 1627 c.c.
Il primo, invero, si applica solo qualora a monte vi sia una scelta di autonomia privata, peraltro incompatibile con il programma negoziale che definiamo “rent to buy”: non sarebbe infatti razionale che in tale circostanza le parti introducano una clausola che prevede la risoluzione del contratto qualora l’affittante venda a terzi. Ai fini della presente indagine è sufficiente rilevare che l’art. 1625 c.c. non contiene una disposizione applicabile al contratto a prescindere dalla volontà delle parti, e pertanto il significato della sua disapplicazione è irrisorio.
Di maggior interesse è invece l’art. 1627 c.c. che si occupa della morte dell’affittuario, concedendo al locatore e agli eredi dell’affittuario deceduto di recedere dal contratto. Ci si può chiedere se, essendo l’operazione funzionale a consentire l’acquisto a credito del bene, sia coerente consentire al locatore di por termine ad essa in via unilaterale. Nella valutazione occorre ponderare adeguatamente gli interessi confliggenti: da un lato quello dell’affittante a non porre a rischio la capacità produttiva dell’azienda qualora gli eredi siano inesperti o incapaci; dall’altro l’interesse di questi ultimi a non rimetterci quella parte del canone che dovrà poi essere imputata a corrispettivo. Nessuno dei due interessi può essere trascurato; nemmeno quello del locatore/affittante, poiché la vendita dell’azienda non è risultato certo, come si è più volte già ricordato, ed è quindi suo interesse, meritevole di tutela, assicurarsi il recupero di un bene non privato di valore.
Mi pare che la mediazione possa essere trovata confermando il diritto del locatore/affittante a recedere dal contratto, ma imponendo allo stesso di restituire la parte di canone da imputare a prezzo, in coerenza con la soluzione che emerge, per casi simili, dall’art. 23, comma cinque, D.l. 133/2014. Quest’ultimo richiamo ci riconduce all’interrogativo iniziale: quali fra le regole contenute nell’ art. 23, D.l. 133/2014 sono suscettibili di applicazione estensiva o analogica qualora il programma negoziale abbia ad oggetto un’azienda (e non un bene immobile)?
Come già emerso nel corso della trattazione, mi pare che possano assumere rilevanza, in via di principio, due disposizioni.
Mi riferisco, innanzitutto, a quella che impone di stabilire in contratto la parte di canone da imputare a corrispettivo del trasferimento, regola che mira ad assicurare un equo assetto di interessi, specialmente a fronte del mancata raggiungimento dello scopo del rapporto(15), ma anche a salvaguardare l’autonomia causale dei due contratti (godimento/affitto e vendita) in cui necessariamente si articola l’operazione. Mi pare che la stessa esigenza ritorni anche qualora l’operazione di rent to buy abbia ad oggetto un’azienda, come già evidenziato.
Può venire in gioco, infine, la previsione del secondo comma dell’art. 23, D.l.133/2014, che a mio avviso deve essere collegata sistematicamente all’art. 1525 c.c.: entrambe le disposizioni integrano le regole generali sull’inadempimento a tutela di colui che è tenuto al pagamento in funzione di un futuro acquisto (anche se conseguente a meccanismi effettuali diversi), ed agiscono al contempo come limite all’autonomia privata nella determinazione delle clausole risolutive espresse e come limite al potere del giudice di concedere la risoluzione ex art. 1453 c.c., per carenza del requisito della non scarsa importanza dell’inadempimento.
Ciò che rileva, ai fini della presente indagine, è la reiterazione della soluzione a fronte di due rapporti contrattuali funzionalmente simili, in quanto entrambi orientati a favorire l’acquisto del bene a credito: soluzione espressione di un favor per l’acquirente da salvaguardare anche qualora oggetto del “rent to buy” sia l’azienda. D’altra parte, l’art. 1525 c.c. trova applicazione qualunque sia l’oggetto della vendita con riservato dominio, e l’art. 23 comma cinque D.l. 133/2014 dimostra la volontà di privilegiare l’interesse del concessionario in godimento/potenziale acquirente anche qualora l’operazione sia scissa in due momenti negoziali distinti (contratto di godimento - affitto di azienda e successiva compravendita).
All’esito dell’indagine sembra di poter concludere che l’affitto di azienda con patto accessorio di opzione di acquisto a favore dell’affittuario resta disciplinato dalle norme ordinariamente applicabili, perché capaci di risolvere in maniera coerente i conflitti di interessi fra le parti che la fase di godimento obbligatorio può sollevare, con la sola integrazione delle due disposizioni da ultimo ricordate.
(1) C. ANGELICI, «Sulla “inscindibilità” della partecipazione azionaria», Riv. dir. comm., 1985, p. 123. Con espresso riferimento al diritto di voto si veda G. RESCIO, I sindacati di voto, in Trattato delle Società per Azioni, diretto da Colombo e Portale, 3*, Torino, 1994, 486 e ss.
(2) Emblematiche in tal senso anche le discipline del riporto e della vendita a termine di azioni, che collegano invariabilmente l’esercizio del diritto di voto alla proprietà, anche temporanea, delle azioni.
(3) Il ricorso a tale modello contrattuale per la vendita di una partecipazione sociale potrebbe richiedere un sforzo interpretativo o contrattuale aggiuntivo, per disciplinare vicende incidenti sul contenuto del diritto di garanzia del venditore stesso, quali, per esempio, l’azzeramento del capitale sociale per perdite, con l’estinzione dell’oggetto della riserva di proprietà; gli effetti della riduzione reale del capitale attuata con rimborso del conferimento; l’esercizio del diritto di recesso; il diritto agli incrementi della partecipazione determinati da sottoscrizioni del capitale a pagamento da parte del compratore (legittimate dall’acquisto della partecipazione del venditore), e altre situazioni. Si dovrà quindi attingere dalla scarna disciplina della vendita con riserva di proprietà, che, per esempio, pone i rischi di perimento del bene a carico del compratore, da cui desumere, in caso di azzeramento del capitale, la sussistenza di un suo obbligo di reintegrare il capitale (anche se, a ben vedere, l’esito potrebbe dipendere dall’avversa decisione degli altri soci), o comunque la permanenza dell’obbligo di pagare il residuo prezzo; o in alternativa, ricorrere all’applicazione analogica delle norme che disciplinano l’usufrutto della quota, attesa l’assimilazione talora operata dalla dottrina fra la posizione del compratore con riserva di proprietà e quella dell’usufruttuario. In tal senso A. PAOLINI, «Vendita con riserva di proprietà di quote di Srl», studio n. 99-2012/I, in Studi e materiali, 2013, p. 965 e ss.
(4) Il confronto fra clausola risolutiva espressa e condizione risolutiva di inadempimento è oggetto della sentenza Cass. 15 novembre 2006, n. 24299, in Riv. not., 2007, II, p. 1206. In proposito anche R. LENZI, Art. 1353, Dei contratti in generale, a cura di Navarretta - Orestano, in Commentario al Codice civile, diretto da Gabrielli, 2011, p. 252.
(5) Così G. PETRELLI, «Clausole condizionali e prassi notarile», in Notariato, 2001, p. 275.
(6) Cass. 24 novembre 2003, n.17859, in Riv. not. 2004, II, p. 528. Il medesimo orientamento è stato più di recente ribadito da Cass. 21 aprile 2010, n. 9504, in Rass. nov. - giur., a cura del Consiglio Nazionale del Notariato.
(7) In tal senso anche R. LENZI, op. cit., p. 255.
(8) Ex multiis: Cass. 11 luglio 1992, n. 8454 in Arch. de jure; Cass. 10 settembre 2010, n. 19287 in Arch. de jure; Cass. 13 maggio 2008 n.11893 in Arch. de jure.
(9) Allo schema contrattuale si ricorre sovente in caso di affitto di azienda preconcorsuale, ovvero concluso da affittante in procinto di essere coinvolto in una procedura concorsuale, sia essa il fallimento o il concordato preventivo.
(10) In tal senso A.C. NAZZARO, «Il rent to buy tra finanziamento e investimento», in Riv. dir. banc., 2015, p. 5.
(11) Si vedano, per un’ampia rassegna delle diverse tesi, F. MARTORANO, L’azienda, in Trattato di Diritto commerciale, fondato da Vincenzo Buonocore, diretto da Renzo Costi, Torino, 2010, p. 328; G.E. COLOMBO, L’azienda e il suo trasferimento, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da Francesco Galgano, III, Padova, 1979, p. 255.
(12) Si vedano G.E. COLOMBO, op. cit., p. 50; F. MARTORANO, op. cit., p. 233.
(13) A diversa conclusione dovrebbe forse pervenirsi se si aderisce alla tesi secondo la quale la ratio delle norme dell’art. 2560 c.c. non deve essere reperita nella prospettiva esecutiva, poiché sovente i titoli giuridici in forza di quali l’imprenditore gode dei beni aziendali non sono funzionali e comunque non riescono ad assicurare soddisfazione alle ragioni creditorie in tal contesto; la ratio sembra piuttosto quella della conservazione delle chances di soddisfazione del credito attraverso la forma fisiologica dell’adempimento, possibile attraverso i flussi di reddito prodotti dall’azienda stessa. In proposito si veda F. MARTORANO, op. cit., p. 233. Non mi pare, peraltro, che la tesi sia convincente per almeno due motivi: in primo luogo perché se tale fosse la ratio della norma, dovrebbe ammettersi pacificamente la sua applicazione anche all’affitto di azienda, il che non è; in secondo luogo, perché l’idoneità del complesso aziendale, comunque formato, a generare un ricavo in sede di esecuzione forzata capace di soddisfare i creditori sociali trova conferma nella disciplina fallimentare, e segnatamente nelle norme degli artt. 104, 104-bis e 105 L.fall., che disciplinano la vendita da parte del curatore dell’azienda del fallito, preoccupandosi di conservarne il valore anche tramite l’esercizio provvisorio, in funzione del miglior realizzo.
(14) G.E. COLOMBO, op. cit., p. 287.
(15) Mi riferisco, in particolare, al comma 1-bis dell’art. 23 D.l. 133/2014, ai sensi del quale «le parti definiscono in sede contrattuale la quota dei canoni imputata al corrispettivo che il concedente deve restituire in caso di mancato esercizio del diritto di acquistare la proprietà dell’immobile entro il termine stabilito» e al comma 5 del medesimo articolo, ai sensi del quale «in caso di risoluzione per inadempimento del concedente, lo stesso deve restituire la parte dei canoni imputata al corrispettivo, maggiorata degli interessi legali».
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