Le convivenze “di fatto” tra normativa di tutela e regime opzionale
Le convivenze “di fatto” tra normativa di tutela e regime opzionale
di Salvatore Patti
Ordinario di Diritto privato, Università di Roma La Sapienza
Premessa
La definizione delle conseguenze giuridiche derivanti dalla convivenza (e l’individuazione del loro fondamento normativo) ha determinato difficoltà già negli anni immediatamente successivi alla riforma del diritto di famiglia. Così, in un ampio studio di uno dei migliori civilisti del secolo scorso, si afferma che la convivenza tra uomo e donna «può formare un nucleo di rapporti vari e complessi di carattere praticamente molto analoghi a quelli che sorgono dal rapporto matrimoniale»(1), precisando tuttavia che «gli obblighi che vengono in considerazione, a differenza del rapporto matrimoniale, non sono gli obblighi inerenti alla convivenza che sia considerata come fatto obbligatorio, bensì alla convivenza come pura situazione di fatto». Quindi: da un lato gli obblighi (pur molto analoghi) non sono quelli che nascono dall’unica convivenza che si considera come «fatto obbligatorio», ma d’altra parte nascono comunque da una analoga forma di convivenza anche essa generatrice di obblighi. Una certa contraddizione ed analoga difficoltà nel negare rilevanza giuridica alla convivenza «di fatto» si riscontra altresì, nelle pagine dello stesso studioso con riferimento al risarcimento «dovuto per l’uccisione di un convivente more uxorio»(2).
Infatti, pur ammettendo il diritto del convivente al risarcimento del danno si nega che da ciò possa trarsi un argomento per sostenere «una certa giuridicità» della situazione di fatto, concludendo che essendo il rapporto estraneo ad ogni vincolo giuridico, il diritto al risarcimento deriva da «un fatto che esiste al di fuori del riconoscimento giuridico»(3).
La disciplina delle unioni civili e la disciplina delle convivenze: modelli e problemi
Come si evince dalle considerazioni sopra ricordate, disciplinare mediante legge la convivenza di persone unite stabilmente da legami affettivi non è semplice, e comunque è molto più complesso che
«istituire» le c.d. unioni civili.
Nel secondo caso il compito del legislatore è anzitutto quello di determinare il grado di «avvicinamento» al matrimonio. Esclusa infatti l’estensione dell’istituto matrimoniale alle persone dello stesso sesso, occorre decidere se predisporre una disciplina che sostanzialmente attribuisca gli stessi diritti o quali siano le differenze opportune e accettabili per gli interessati. Questi ultimi, in genere, desiderano unirsi in matrimonio e la diversa «unione» messa a disposizione dalla legge - come è avvenuto in altri ordinamenti giuridici - risulta accettabile (e non si pone il contrasto con la Costituzione) nella misura in cui le differenze siano minime e trovino una giustificazione. Ma la disciplina «di base» esiste: è quella del matrimonio, ed alcune delle differenze riscontrabili nella nuova legge (n. 76 del 2016), ad es. in materia di nome della coppia e di scioglimento del rapporto, risultano invero giustificate o perfino opportune alla luce del principio di eguaglianza nonché di esigenze di celerità e di semplificazione, tanto che può prospettarsi un problema di legittimità costituzionale per la disparità di trattamento nei confronti delle coppie unite in matrimonio(4). L’esperienza di altri paesi dimostra peraltro che leggi analoghe sulle «unioni civili» sono state abrogate a seguito della riconosciuta «ammissione» delle persone dello stesso sesso al matrimonio, ammissione spesso decisa sulla base della considerazione che la sostanziale identità di disciplina non giustifica la previsione di due istituti(5).
In Italia gli interessati non possono «unirsi» in matrimonio ma si possono «unire» (civilmente) in base alla legge 76/2016, mediante dichiarazione di volontà da rendere dinanzi all’ufficiale dello stato civile (art. 1, comma 1). In altri termini, la legge ha creato un nuovo istituto, molto simile al matrimonio, e gli interessati possono dichiarare nelle forme previste di volerlo utilizzare.
La contraddizione insita nella disciplina delle convivenze e le norme di tutela di origine giurisprudenziale o legislativa
Nel caso delle convivenze occorre in primo luogo superare una (almeno apparente) contraddizione: da un lato gli interessati, pur quando non sussistano impedimenti, rifiutano l’istituto del matrimonio (oppure, deve oggi aggiungersi, quello dell’unione civile), dall’altro - almeno alcuni di essi - richiedono una disciplina del loro rapporto che in parte maggiore o minore coincide o è simile a quella dettata per il matrimonio(6).
Questa contraddizione spiega l’atteggiamento di diversi ordinamenti giuridici che non hanno predisposto una normativa - o comunque una normativa di carattere generale - per le convivenze eterosessuali, seguendo in tal modo il detto, di origine napoleonica, secondo cui i concubini si disinteressano della legge e la legge non si cura di loro(7).
L’esperienza di alcuni decenni, più o meno simile in diversi paesi, ha tuttavia dimostrato che - venuto meno l’antico disfavore sociale per tali forme di organizzazione dell’esistenza - l’ordinamento giuridico ha accolto singole istanze, garantendo di volta in volta la tutela richiesta mediante diritto giurisprudenziale o interventi del legislatore relativi a specifiche problematiche. Così, ad esempio, da tempo è stato riconosciuto il diritto del convivente a subentrare nel contratto di locazione o di ottenere il risarcimento del danno nel caso di uccisione dell’altro convivente ed è stata estesa al convivente la tutela prevista per il coniuge nel caso di fecondazione medicalmente assistita, di amministrazione di sostegno o di violenza in famiglia.
Peraltro, dato il carattere episodico degli interventi legislativi, non si scorge una linea del tutto coerente, soprattutto per quanto concerne le caratteristiche della convivenza, richiedendosi a volte una convivenza «stabile» e in altri casi una durata minima che essa deve presentare per essere presa in considerazione(8).
In termini generali, tuttavia, si riscontra il riconoscimento di una serie di interessi e di aspirazioni che - a ben vedere - possono anche coincidere con quelli tutelati dalle norme sul matrimonio, ma che comunque riguardano persone unite da rapporti affettivi che vivono (o hanno vissuto) insieme e chiedono all’ordinamento giuridico di tener conto di questa situazione.
Così, nel caso del subentro nel contratto di locazione o del risarcimento del danno per l’uccisione del convivente, hanno acquistato rilevanza interessi che - pur riconosciuti nel caso del matrimonio - non sono legati alle caratteristiche tipiche ed essenziali di questo istituto, ed infatti, correttamente, sono stati piuttosto ricondotti all’idea delle formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost.(9)
Peraltro, come appare in particolar modo evidente quando la convivenza è caratterizzata dalla presenza di figli - e si tratta di un fenomeno di rilevanza ormai equiparabile al matrimonio non soltanto nei paesi del nord Europa(10 )- può parlarsi sicuramente di «famiglia», soprattutto alla luce della recente equiparazione dei figli nati in circostanza di matrimonio o fuori dal matrimonio. Pertanto risulta ovvio che almeno alcuni aspetti della formazione sociale «convivenze di fatto» vengano (eventualmente) disciplinati utilizzando la disciplina già predisposta dall’ordinamento giuridico per la famiglia fondata sul matrimonio.
La scelta tra normativa di tutela e regime opzionale
Posto, quindi, che le norme di riferimento devono - o, almeno, possono - essere (una parte di) quelle dettate per il matrimonio, occorre compiere una scelta di fondo, scelta della quale non sembra essere stato del tutto consapevole il legislatore in occasione della emanazione delle legge 76/2016. Seguendo l’esempio francese del Pacte civil de solidarité(11), il legislatore può prevedere un regime opzionale, rispetto al matrimonio, al quale i conviventi accedono - se lo desiderano - mediante un atto di volontà. In altri termini, l’ordinamento giuridico pone a disposizione degli interessati non uno - il matrimonio - ma due modelli di regolamentazione del rapporto(12). Il secondo può essere definito matrimonio light o in altro modo, ma in ogni caso rappresenta un regime alternativo, più elastico, che determina minori diritti ed obblighi, idoneo comunque a garantire la disciplina (minima) del rapporto, richiesta dalla coppia (nel caso dei Pacs eterosessuale o omosessuale)(13).
Diversa è la soluzione quando l’ordinamento giuridico non mette a disposizione un regime opzionale bensì prevede una serie di norme, in genere di natura cogente, che hanno il fine di tutelare i conviventi o, a volte, uno dei conviventi ricorrendo determinate fattispecie. Così, la legge, può stabilire che i conviventi (o il convivente) godono di specifiche prerogative, che possono riguardare aspetti personali (ad es. visita in ospedale o in penitenziario) o economici (ad es. diritto agli alimenti o al riconoscimento del lavoro prestato nell’impresa familiare). In questi casi la normativa di tutela trova applicazione sulla base del fatto della convivenza, prescindendo cioè da un atto di volontà degli interessati. La legge, seguendo questo modello, deve stabilire quali sono i presupposti di rilevanza della convivenza (stabilità, coabitazione, durata minima, etc.) e la normativa trova applicazione pur in assenza di una manifestazione di volontà dei conviventi e addirittura anche contro la volontà di uno di essi: si pensi alla tutela del lavoro prestato oppure al diritto agli alimenti.
In definitiva, si tratta di due diverse tecniche di attribuzione di rilevanza al fenomeno, ciascuna di esse presenta vantaggi e svantaggi, ma occorre chiarezza sulla strada intrapresa. Nell’ordinamento giuridico italiano fino all’approvazione della legge 76/2016 si è proceduto con interventi episodici, legati alle esigenze del momento e delle singole problematiche, movendo comunque dal fatto della convivenza e dalle specifiche esigenze di tutela. La nuova legge - pur lacunosa - ha indubbiamente l’ambizione e il fine di disciplinare la materia in modo organico rappresentando il frutto di una piena e consapevole accettazione a livello sociale e politico del fenomeno delle convivenze.
Il fenomeno della famiglia di fatto, rispetto a quello della famiglia basata sul matrimonio si differenzia, pertanto, sotto il profilo della quantità e della sistematicità delle norme ad esso dedicate. I rapporti tra i conviventi di fatto sono anzitutto sottoposti alle norme che si dirigono a tutti i consociati e, in particolare ai consociati che vivono una forma associativa. Sono inoltre disciplinati da alcune norme specifiche, tra cui quelle contenute nella legge in esame. Ai suddetti rapporti, viceversa, non trovano applicazione altre norme dedicate esclusivamente ai soggetti che si trovano in una determinata e diversa situazione (es. coniugio)(14).
La mancanza di chiarezza riscontrabile nella legge italiana 76/2016 e il dibattito sulla natura dell’iscrizione all’anagrafe
Una sufficiente chiarezza circa la scelta di fondo prima indicata non si riscontra tuttavia neanche nel nuovo testo normativo, come sembra confermato dal dibattito che si è sviluppato su uno dei punti di maggiore rilevanza. L’art. 1, comma 37, prevede infatti l’iscrizione all’anagrafe dei conviventi e si discute se a tale iscrizione debba riconoscersi carattere “costitutivo” della convivenza oppure se si tratti di un mero indice probatorio della sua esistenza.
Prima di affrontare il problema e di indicare la soluzione che si ritiene corretta, occorre rilevare che gli stessi protagonisti del suddetto dibattito non hanno messo in luce le conseguenze dell’adesione ad una tesi o all’altra.
Precisamente, se si aderisce all’opinione secondo cui l’iscrizione all’anagrafe presenta carattere costitutivo della convivenza(15), (tutta) la nuova disciplina acquista il carattere di un regime opzionale, che trova applicazione a seguito di una dichiarazione di volontà degli interessati: la suddetta iscrizione. Se invece si segue la seconda tesi, largamente prevalente in dottrina(16), e già accolta in giurisprudenza(17), la disciplina non rappresenta un regime opzionale ma una normativa di tutela che deve essere applicata quando sussistono i presupposti indicati.
Peraltro, la consapevolezza delle conseguenze del significato da attribuire all’art. 1, comma 37, aiuta nella sua interpretazione. Il problema, infatti, non è (soltanto) quello di attribuire certezza ad una situazione attraverso un atto formale; trattandosi, in primo luogo, di individuare il corretto significato della nuova disciplina, riconoscendo la natura di regime opzionale rispetto al matrimonio, oppure quello di normativa di tutela che prescinde da un atto di volontà (indispensabile nel caso del matrimonio e dei Pacs) e trova applicazione sulla base del fatto (convivenza).
La normativa di tutela di cui all’art. 1, commi 36-49
Diversi elementi inducono a ritenere che sia esatta la seconda soluzione, ma ciò soltanto per quanto riguarda l’art. 1, commi 36-49 (nonché, come si vedrà, il comma 65). Posto, infatti, che la definizione di “conviventi di fatto”, di cui all’art. 1, comma 36 si riferisce - per espressa previsione dello stesso comma - a tutte le disposizioni successive, e ad essa occorre attribuire la funzione di delimitare l’ambito della fattispecie, l’art. 1, comma 37, stabilisce che «ferma restando la sussistenza dei presupposti» di cui al comma precedente, «per l’accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica …» e pertanto alla suddetta dichiarazione non può attribuirsi altra natura e funzione se non quella probatoria, poiché essa, in mancanza dei presupposti previsti e cioè degli stabili «legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale», per fermarci a quelli di ordine positivo, non potrebbe determinare la configurabilità della fattispecie. Da ciò consegue inoltre che può ben sussistere una convivenza di fatto, ai sensi della normativa in esame, pur in mancanza della suddetta iscrizione se ricorrono i richiesti presupposti di ordine positivo e negativo(18).
I commi 38-49 nonché il comma 65 prevedono una serie di diritti dei conviventi o di un convivente, eventualmente nei confronti dell’altro che trovano fondamento unicamente nella sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, cioè nel fatto della convivenza stabile. Così, i commi 38 e 39 attribuiscono ai conviventi di fatto gli stessi diritti previsti per i coniugi nelle ipotesi disciplinate dall’ordinamento penitenziario oppure in caso di malattia o di ricovero(19); il comma 40, con disposizione moderna e innovativa, attribuisce al convivente di fatto la possibilità di designare l’altro suo rappresentante con poteri pieni o limitati in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute, e in caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie; ed il comma 48 prevede la possibilità, invero in parte già disciplinata dalla legge, che il convivente di fatto venga nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno; il comma 42, in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza, attribuisce al convivente di fatto superstite il diritto di continuare ad abitare nella stessa per un certo periodo di tempo; il comma 44 nei casi di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione della casa di comune residenza attribuisce al convivente di fatto il diritto (la norma parla di facoltà) di succedergli nel contratto; il comma 45 equipara la convivenza di fatto all’appartenenza ad un nucleo familiare per l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare; il comma 46 attribuisce determinati diritti al convivente di fatto che ha prestato stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente; ed infine il comma 49 disciplina, invero in modo parziale, la fattispecie dell’illecito, stabilendo che in caso di decesso del convivente di fatto, derivante dall’illecito di un terzo, per stabilire il danno risarcibile al convivente superstite, si applicano i medesimi criteri utilizzati per il risarcimento del danno al coniuge superstite(20).
In tutte le ipotesi sopra brevemente elencate, la normativa di tutela dei conviventi o del convivente - eventualmente nei confronti dell’altro - si applica sulla base del fatto, cioè di una convivenza che presenti le caratteristiche indicate dalla legge, a prescindere da una dichiarazione di volontà dei conviventi ed anzi anche contro la volontà di (uno di) essi. La soluzione, per quanto concerne le fattispecie disciplinate nei commi sopra indicati, segue pertanto la scelta di fondo operata in occasione di tutti gli interventi (episodici) del legislatore negli anni recenti, che peraltro possono considerarsi ancora in vigore, in particolare con riguardo alle convivenze di fatto che non presentano le caratteristiche indicate dalla legge in esame, ad esempio per quanto concerne lo stato libero dei conviventi(21). Trattandosi di una normativa di tutela anche (e per certi aspetti esclusivamente) di un convivente nei confronti dell’altro, fondata sul fatto della convivenza, che presenti le caratteristiche previste, non sembrano condivisibili le posizioni dottrinali che ammettono la possibilità per i conviventi di escluderne l’applicazione(22). Proprio perché la legge non richiede alcuna forma di adesione degli interessati, appare ben difficile ipotizzare che, ricorrendo i presupposti relativi alla convivenza di cui alla legge in esame, ad esempio, possa non trovare applicazione la norma di cui al comma 46, che ha introdotto l’art. 230-ter, al fine di tutelare il convivente di fatto che ha prestato la propria opera lavorativa (senza ricevere alcun corrispettivo) all’interno dell’impresa dell’altro convivente, sia pure in un’ipotesi in cui i conviventi abbiano espressamente escluso l’applicabilità della suddetta disciplina.
Il regime opzionale di cui all’art. 1, commi 50-64.
Dopo il gruppo di norme che trovano applicazione sulla base del fatto (la convivenza stabile), e quindi a prescindere da una dichiarazione negoziale degli interessati ed anzi anche contro la volontà di (uno di) essi, il legislatore - più o meno consapevolmente - ha altresì predisposto un regime opzionale, al quale gli interessati possono accedere stipulando il contratto di convivenza di cui all’art. 1 comma 50, posto che sussistano i presupposti di cui al comma 36(23).
Seguendo la lettura che si propone, si perviene pertanto alla conclusione secondo cui la legge italiana offre in materia di convivenze una disciplina tendenzialmente completa, che in primo luogo attribuisce rilevanza alla convivenza, purché caratterizzata dai requisiti indicati, garantendo una tutela minima per una serie di situazioni ai “conviventi di fatto”, così definiti perché non rileva un atto di volontà ai fini dell’applicazione della disciplina. Al primo gruppo di norme, segue un vero e proprio regime opzionale (al matrimonio o all’unione civile) basato - come ad esempio avviene in Francia con i Pacs - su un atto di volontà degli interessati che decidono di stipulare il contratto di convivenza.
Molteplici argomenti - ad avviso di chi scrive - sorreggono l’interpretazione proposta. Anzitutto, nella seconda fattispecie, a ben vedere, la convivenza - con i requisiti di cui al comma 36 - non rileva (soltanto) quale presupposto per l’applicazione delle norme di cui ai commi 51-64 bensì la sua mancanza come ipotesi di “nullità insanabile” del contratto (comma 57, b), che risulta privo di causa concreta se le parti non convivono. Ancora, il comma 57 prevede la nullità insanabile nel caso (tra l’altro) di presenza di un vincolo matrimoniale, di un’unione civile o di un altro contratto di convivenza(24).
Dal punto di vista letterale, inoltre, appare decisivo che l’espressione conviventi “di fatto”, presente nei commi precedentemente esaminati, relativi alla normativa di tutela, ricorre ancora nel comma 50, cioè nella norma, che segna il passaggio al secondo gruppo di commi, ove è previsto che i conviventi possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune mediante un contratto di convivenza. L’espressione conviventi “di fatto” - o convivenza “di fatto” - non è invece mai utilizzata nei commi 51-64, indice inequivocabile che non si tratta di una normativa di tutela basata su un mero fatto, bensì di una vera e propria disciplina opzionale, la cui applicazione dipende da un atto di volontà dei conviventi. Si consideri, ad esempio, il comma 52, ove si fa riferimento al «comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe», al quale «il professionista che ha ricevuto l’atto in forma pubblica o che ne ha autenticata la sottoscrizione … deve provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmettere copia»(25), oppure i commi 53 e 56 ove si parla di “parte” o di “parti” del contratto. In definitiva, i commi 51-64 non disciplinano situazioni attinenti a conviventi “di fatto” bensì i rapporti di conviventi che hanno deciso di utilizzare il nuovo contratto introdotto nell’ordinamento giuridico italiano con la legge 76/2016(26). Così come non si può parlare di un rapporto di lavoro di fatto se è stato stipulato un (valido) contratto di lavoro, non può parlarsi di conviventi di fatto o di convivenza di fatto se la fattispecie è disciplinata dal (nuovo) contratto messo a disposizione dei conviventi dalla legge(27). Sotto tale profilo deve apprezzarsi il rigore terminologico e la coerenza della nuova normativa.
Non sembrano pertanto del tutto condivisibili le osservazioni critiche rivolte alla legge in esame da numerosi autori per quanto concerne l’uso dell’espressione “conviventi di fatto”(28). Essa si riferisce, infatti, unicamente ai casi in cui la legge trova applicazione sulla base del fatto “convivenza”, mentre il legislatore ha accuratamente evitato l’uso della suddetta espressione nei casi in cui gli interessati abbiano stipulato un contrato di convivenza, operando in tal modo mediante un atto di volontà una scelta favorevole al regime opzionale di cui ai commi 50-64, che consente di disciplinare i loro rapporti patrimoniali, ferma restando la tutela garantita dai commi 36-49 per le fattispecie da queste norme prese in considerazione.
Nell’ambito del regime opzionale ben si spiega, tra l’altro, la norma di cui al comma 53, che indica il possibile contenuto del contratto di convivenza, secondo il modello del regime matrimoniale: così per quanto riguarda le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo (cfr. art. 143, comma 3, c.c.), oppure alla scelta del regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del libro primo del codice civile. Ben si spiega, inoltre, la disposizione - già ricordata - di cui al comma 52, secondo cui, ai fini dell’opponibilità ai terzi, il professionista che ha ricevuto l’atto in forma pubblica o che ne ha autenticato la sottoscrizione ai sensi del comma 51 deve provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmettere copia al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe. Si tratta infatti di una forma di pubblicità, sia pure non del tutto idonea a rendere nota l’esistenza del regime opzionale di convivenza.
Poco coerente, soprattutto nell’ottica di un vero e proprio regime opzionale, l’assenza di una disciplina degli aspetti successori(29), almeno sul piano contrattuale: come è stato osservato, l’occasione sarebbe stata propizia per prevedere una deroga al divieto di stipulare patti successori di cui all’art. 458 c.c.(30)
La normativa di tutela, in tema di alimenti, di cui all’art. 1, comma 65
Alcune brevi considerazioni si impongono, infine, per quanto concerne, il comma 65, l’ultimo che disciplina le convivenze, prescindendo dai commi destinati agli aspetti finanziari e di bilancio. In questo caso, infatti, ricompare l’espressione “convivenza di fatto”, con riferimento alla sua cessazione, e si prevede il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. La scelta terminologica non appare casuale, poiché ritornando ad attribuire rilevanza al mero “fatto” della convivenza il legislatore - ad avviso di chi scrive - ha inteso attribuire carattere inderogabile alla norma relativa all’obbligo alimentare: qualsiasi accordo stipulato nel contratto di convivenza non può far venire meno la tutela in esame se sussistono le caratteristiche della convivenza stabile indicate dalla legge nell’art. 1, comma 36.
Nella fase immediatamente precedente all’approvazione della legge è stata invece eliminata la previsione di un obbligo di mantenimento. Si tratta di una scelta da condividere perché un siffatto obbligo avrebbe rappresentato una limitazione eccessiva della libertà degli interessati di scegliere modalità di vita comune che non comportino la nascita di gravosi obblighi reciproci(31). A ciò deve aggiungersi che l’obbligo di mantenimento ha conosciuto profonde limitazioni in tutti i paesi europei già con riferimento ai coniugi, essendosi affermata l’idea dell’ “autoresponsabilità”, per cui - a prescindere da particolari situazioni legate ad es. alla malattia o all’età avanzata - ciascuno degli ex coniugi deve provvedere in modo autonomo al proprio mantenimento dopo la fine del rapporto. L’obbligazione alimentare tra ex conviventi rappresenta invece un equilibrato riconoscimento della rilevanza della convivenza, soprattutto alla luce della previsione di un termine finale, posto che gli alimenti devono essere assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza (comma 65, seconda frase).
Convivenze e presunzione di legittimità dei figli
La nuova normativa sulle convivenze in connessione con quella, di poco più antica, che ha introdotto nell’ordinamento giuridico italiano lo stato unico dei figli, induce a chiedersi se la presunzione di legittimità dei figli nati da una coppia unita in matrimonio (art. 231 e ss. c.c.) non debba estendersi anche a favore dei figli nati in costanza di una convivenza di persone eterosessuali che presenti i requisiti previsti dal comma 36, cioè nel caso in cui ricorrano stabili legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, quindi di una formazione sociale che, al di là della prudenza terminologica del legislatore, rappresenta una famiglia(32).
La questione ha invero dato vita ad un primo dibattito, ritenendosi da alcuni che sia ormai necessaria l’unificazione delle regole di accertamento della filiazione(33), mentre altra dottrina sostiene che sia il matrimonio dei genitori a giustificare l’attribuzione automatica dello stato di figlio dei coniugi, alla luce dell’obbligo reciproco di fedeltà previsto dall’art. 143 c.c., che consente di stabilire la presunzione di paternità di cui all’art. 231 c.c.(34 )E, si noti, perfino la dottrina che ha autorevolmente ispirato e guidato la riforma della filiazione sostiene che l’affermazione dell’unicità dello status, stabilita dall’art. 315 c.c. e l’attribuzione degli stessi diritti ai tutti i figli non comporta una totale equiparazione, ritenendosi giustificati trattamenti diversi alla luce del principio di eguaglianza sostanziale e della ragionevolezza. I diversi criteri di accertamento non determinerebbero quindi discriminazioni essendo giustificati dalla «diversità insita nella distinzione tra filiazione all’interno o fuori del matrimonio»(35).
Ad avviso di chi scrive, il problema deve essere affrontato movendo anzitutto dal principio dell’unicità dello stato di figlio e quindi dell’eguaglianza di tutti i figli. Unicità dello stato e eguaglianza determinano già dei dubbi circa l’ammissibilità di una diversa disciplina che si vorrebbe giustificata da una situazione che non riguarda i figli bensì i genitori. Ma, a parte questo rilievo, non sembrano del tutto corrette le argomentazioni che portano a considerare ammissibile la presunzione di legittimità soltanto nel caso di figli nati all’interno del matrimonio. A giustificare la presunzione sarebbe infatti l’obbligo di fedeltà, previsto nel caso del matrimonio e non invece nel caso della convivenza. Tuttavia, a prescindere dal ridotto significato sociale che oggi viene attribuito al suddetto obbligo(36), esso - se inteso nel significato più moderno e attuale di lealtà reciproca - sembra discendere dalla previsione del comma 36, secondo cui i conviventi sono persone unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale. Si consideri inoltre, che tradizionalmente non è stato l’obbligo di fedeltà il fatto che ha giustificato la presunzione di legittimità, bensì la coabitazione(37). Non rileva quindi l’obbligo di fedeltà, che ovviamente sussiste anche se i coniugi non coabitano, ma il fatto della coabitazione per fondare la presunzione di legittimità di cui all’art. 232 c.c. Anche nel caso della convivenza, la coabitazione(38 )giustifica quindi - e ne costituisce la base - la presunzione di legittimità. Rimane da valutare se sia preferibile un’applicazione analogica degli art. 231 e ss. oppure la costruzione di una presunzione semplice di cui all’art. 2729 c.c. Ma, in ogni caso, risulta corretta la concisa affermazione secondo cui «il problema non è tanto quello di cancellare le presunzioni» (per realizzare la parità di trattamento), «ma di estenderne la portata là dove vi siano uguali presupposti»(39).
(1) A. TRABUCCHI, «Natura legge famiglia», in Riv. dir. civ ., 1977, I, p. 18.
(2) A. TRABUCCHI, op. cit., p. 18.
(3) A. TRABUCCHI, op. loc. cit.
(4) Sul problema, in termini generali, v. l’ampia trattazione di M.N. BUGETTI, «Il cognome comune delle persone unite civilmente», in Fam. e dir., 2016, p. 911 e ss.
(5) In Germania, a seguito delle numerose modifiche del Lebenspartenerschaftsgesetz imposte dalla Corte costituzionale o attuate dal legislatore nel corso di circa quindici anni, la disciplina è sostanzialmente identica a quella del matrimonio, tanto da spingere parte della dottrina a interrogarsi sull’opportunità di abrogare la legge e di inserire nel BGB un unico articolo che stabilisca l’applicazione per le coppie omosessuali della stessa disciplina prevista per il matrimonio. In argomento si rinvia a S. PATTI, «Le unioni civili in Germania», in Fam. e dir., 2015, p. 958 e ss.; C. CARICATO, «Le convivenze registrate in Germania: quindici anni di applicazione e di riforma», in Familia, 2016, p. 71 e ss.; F. AZZARRI, Le unioni civili nel diritto tedesco: quadro normativo e prospettive sistematiche», in Nuove l. civ. comm., 2016, p. 1105 e ss.
(6) Sull’affermazione di molteplici modelli di convivenza già alla fine del secolo scorso, v. S. PATTI, I modelli di famiglia e di convivenza, in Manuale di diritto privato europeo, a cura di C. Castronovo e S. Mazzamuto, I, Milano, 2007, p. 223 e ss.
(7) Sostanzialmente in senso analogo J. CARBONNIER, L’hypothèse du non-droit, in Archives de philosophie du droit, 1963, ora in Flexible droit, Paris, 1969, p. 34 e ss.: «ils refusent de s’engager dans la situation de droit, et se placent dans la situation de non droit correspondante».
(8) Cfr., ad esempio, l’art. 408 c.c. («Scelta dell’amministratore di sostegno») fa riferimento alla «persona stabilmente convivente»; l’art. 5, L. 19 febbraio 2004, n. 40, in materia di procreazione medicalmente assistita, con riferimento ai requisiti soggettivi di accesso alle tecniche, indica semplicemente «coppie di maggiorenni di sesso diverso coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi».
(9) Secondo l’insegnamento, in primo luogo, di P. RESCIGNO, Persona e comunità, Bologna, 1966.
(10) Sulle ragioni che negli ultimi decenni hanno determinato un crescente interesse per la convivenza, v. S. PATTI, I modelli di famiglia e di convivenza, cit., p. 223 e ss.
(11) Cfr. La legge francese sul Pacs: il testo, in Riv. crit. dir. priv., 2000, 151 ss. Di recente, sulla «institutionnalisation du Pacs», v. S. FULLI - LEMAIRE, «La privatisation du droit de la famille en France. Perspectives comparatives», in Rev. int. dr. comp., 2016, p. 405 e ss., spec. p. 418 e ss.
(12) Si noti che in base alla disciplina dei Pacs - come secondo la legge italiana 76/2016 - è richiesto lo stato libero dei conviventi.
(13) Per alcuni esempi di regolamentazione, v. l’approfondita disamina di A. DUTTA, «Paarbeziehungensregime jenseits der Ehe», in AcP 216 (2016), p. 609 e ss., spec. p. 629 e ss.
(14) Come è stato osservato (J. RAZ, Between Authority and Interpretation, in Rechtstheorie, a cura di Grundmann, Micklitz, Renner, I, Tübingen, 2015, p. 115), la norma giuridica determina quale tipo di condotta è appropriato nei rapporti tra i consociati. Alcune norme si riferiscono in modo particolare ai rapporti tra determinati soggetti, ad esempio tra genitori e figli, contribuendo a caratterizzare la loro relazione, ma in ogni caso il precetto giuridico non determina tutti gli aspetti del rapporto, in parte configurato dagli stessi soggetti.
(15) In questo senso, tra gli altri, M.C. GATTO, C. CECCHELLA, M. PALADINI, Relazioni svolte all’incontro di studio “Unioni civili e convivenze”, Scuola Superiore della Magistratura, Aiaf Lombardia, Camera Civile di Brescia, Rezzato, 11 ottobre 2016.
(16) V., tra gli altri, M. TRIMARCHI, «Unioni civili e convivenze», in Fam. e dir., 2016, p. 859 e ss., 866; M. BLASI, La disciplina delle convivenze di fatto omo e eteroaffettive, in M. BLASI, R. CAMPIONE, A. FIGONE, F. MECENATE, G. OBERTO, La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, Torino, 2016, p. 189.
(17) Cfr. Trib. Milano, ord. 31 maggio 2016, in www. Il caso. it, secondo cui «la definizione normativa che il legislatore ha introdotto per i conviventi è scevra da ogni riferimento ad adempimenti formali»; la dichiarazione anagrafica «è richiesta dalla legge 76/2016 per l’accertamento della stabile convivenza … cioè per la verifica di uno dei requisiti costitutivi ma non anche per appurarne l’effettiva esistenza fattuale».
(18) Cfr. L. BALESTRA, «La convivenza di fatto. Nozione, presupposti, costituzione e cessazione», in Fam. e dir., 2016, p. 919 e ss., p. 927. In senso analogo M. PARADISO, «Navigando nell’arcipelago familiare. Itaca non c’è», in Riv. dir. civ. , 2016, p. 1306 e ss., p. 1312, il quale tuttavia ritiene che la dichiarazione anagrafica, mera dichiarazione di scienza e non atto negoziale, sia obbligatoria.
(19) Correttamente, si ritiene che siffatti diritti debbano essere garantiti a tutti i conviventi more uxorio, anche in mancanza dei requisiti di cui alla legge in esame: cfr. M. TRIMARCHI, op. cit., p. 867.
(20) Per quanto riguarda invece l’illecito all’interno della famiglia, un opportuno richiamo all’art. 342-ter c.c., introdotto dalla legge n. 254/2001, misure contro la violenza nelle relazioni familiari, che equipara le posizioni del coniuge e del convivente, in caso di condotta pregiudizievole, ai fini dell’emanazione degli ordini di protezione, tra cui l’allontanamento dalla casa familiare, è presente in M. DOGLIOTTI, «Dal concubinato alle unioni civili e alle convivenze (o famiglie?) di fatto», in Fam. e dir., 2016, p. 868 e ss., p. 873.
(21) Coesistono pertanto due normative di tutela: quella costituita da tutte le disposizioni (di origine giurisprudenziale e legislativa) che hanno preceduto la legge 76/2016, applicabili sulla base della ricorrenza dei presupposti di volta in volta richiesti, e quella predisposta dalla nuova legge, applicabile soltanto per le convivenze di fatto che presentano le caratteristiche richieste.
(22) Cfr., in tal senso, tra gli altri, G. BONILINI, «La successione mortis causa della persona “unita civilmente”, e del convivente di fatto», in Fam. e dir., 2016, p. 980 e ss., p. 989.
(23) Sul punto v. G. DI ROSA, «I contratti di convivenza», in Nuove l. civ. comm., 2016, p. 694 e ss., p. 696: secondo cui non è il contratto «ad essere costitutivo del rapporto ma è sul contratto che, presupposto il rapporto (fondato a sua volta sul fatto della convivenza), si fonda la (possibile) regolamentazione dell’àmbito patrimoniale».
(24) Per una interpretazione non letterale del comma 57 in connessione con il comma 36, v. G. VILLA, «Il contratto di convivenza nella legge sulle unioni civili», in Riv. dir. civ., 2016, p. 1319 e ss., p. 1335 e ss.
(25) Concorde la critica della dottrina circa l’insufficienza del suddetto sistema di “opponibilità”, posto che i registri anagrafici presso i quali deve iscriversi il contratto di convivenza svolgono prevalentemente funzioni statistiche e amministrative essendo destinati dal D.P.R., 30 maggio 1989, n. 223 a raccogliere le iscrizioni riguardanti la popolazione residente: cfr., tra gli altri, T. AULETTA, «Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio: evoluzione o morte della famiglia? », in Nuove l. civ. comm., 2016, p. 367 e ss., 397; DI ROSA, op. cit., p. 702.
(26) Il Ministero dell’interno, come previsto dalla legge in esame, in data 1 giugno 2016 ha emanato la circolare n. 7, la quale stabilisce che, in base alle (richiamate) disposizioni rilevanti della legge 76/2016, l’attività degli uffici dell’anagrafe avrà ad oggetto l’iscrizione delle convivenze di fatto, la registrazione dell’eventuale contratto di convivenza e il rilascio delle relative certificazioni. L’iscrizione della convivenza di fatto risulta quindi necessaria quando si aderisce al regime opzionale e si stipula un contratto di convivenza.
(27) Nel senso che si tratti di un nuovo contratto tipico, v. tra gli altri G. OBERTO, «La convivenza di fatto. I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza», in Fam. e dir., 2016, p. 943 e ss., p. 946. Sulla natura del contratto v. già L. BALESTRA, «Convivenza more uxorio e autonomia contrattuale», in Giust. civ., 2014, p. 133 e ss., p. 146.
(28) Cfr., tra gli altri, M. SESTA, Manuale di diritto di famiglia, 7ª ed., Padova, 2016, p. 227.
(29) In caso di morte di un convivente di fatto il comma 42 prevede soltanto il diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza, nel caso in cui il defunto ne fosse proprietario, per due anni o per un periodo pari alla convivenza, in caso di durata superiore a due anni, ma comunque non oltre un quinquennio. Inoltre il comma 44 prevede il diritto di succedere nel contratto per la locazione della casa di comune residenza. In argomento v. F. PADOVINI, «Il regime successorio delle unioni civili e delle convivenze», in Giur. it., 2016, p. 1817 e ss.
(30) Cfr. E. QUADRI, «“Unioni civili tra persone dello stesso sesso” e “convivenze”: il non facile ruolo che la nuova legge affida all’interprete», in Corr. giur., 2016, p. 893 e ss., p. 902; F. MACARIO, «Nuove norme sui contratti di convivenza: una disciplina parziale e deludente», in Giustiziacivile.com, 2016, 6, p. 13 e ss.
(31) In questo senso L. LENTI, «Convivenze di fatto. Gli effetti: diritti e doveri», in Fam. e dir., 2016, p. 931 e ss., p. 938.
(32) Sulla configurabilità di una famiglia concordano i contributi più meditati: cfr., ad es., T. AULETTA, op. cit., p. 398 e ss.
(33) L. LENTI, «La sedicente riforma della filiazione», in Nuove l. civ. comm ., 2013, p. 201.
(34) M. SESTA, «L’accertamento dello stato di figlio dopo il decreto legislativo n. 154/2013», in Fam. e dir., 2014, p. 454.
(35) M. BIANCA, «Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico», in La riforma del diritto della filiazione, a cura di C.M. Bianca, VI, in Nuove l. civ. comm., 2013, p. 518 e ss.
(36) Una recente proposta di legge della Senatrice Laura Cantini (Partito democratico), attualmente al vaglio della commissione giustizia del Senato, ne prevede addirittura la soppressione.
(37) Nel senso che fedeltà reciproca e coabitazione rappresentano criteri di riconoscibilità delle convivenze, quali tratti identificativi che devono desumersi dal modello matrimoniale, v. S. DELLE MONACHE, «Convivenza more uxorio e autonomia contrattuale (Alle soglie della regolamentazione normativa delle unioni di fatto) », in Riv. dir. civ., 2015, p. 944 e ss., p. 951.
(38) Da intendersi peraltro quale coabitazione “abituale”, cioè con possibili intervalli dovuti ad esigenze di lavoro o personali. Sulla questione v. C. BONA, La disciplina delle convivenze, in C. BONA, P. CARELLO, G. CASABURI, I. GRIMALDI, I. E. PIPPONZI, A. ZEN, Unioni civili e convivenze , 2016, p. 137 e ss.
(39) Così Mir. BIANCA, L’unicità dello stato di figlio, in La riforma della filiazione, a cura di C.M. Bianca, Padova, 2015, p. 15.
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