Prospettive di una disciplina delle convivenze: tra fatto e diritto
Prospettive di una disciplina delle convivenze: tra fatto e diritto (*)
di Marco Rizzuti
Assegnista di Ricerca in Diritto civile, Università degli Studi di Firenze

Premesse

L’iter parlamentare del ben noto disegno di legge presentato dall’On.le M. Cirinnà si è appena concluso, in un clima contrassegnato dalle forti contrapposizioni ideologiche, che hanno riguardato soprattutto la parte dell’ipotizzata normativa dedicata all’istituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso(1). In questa sede vorremmo, però, concentrare l’attenzione sugli altri contenuti del medesimo progetto di legge, di non minore rilievo sul piano sistematico e su quello dei possibili effetti per la prassi giuridica.
Occorre, infatti, ricordare che il disegno di legge in discorso è nato come un testo unificato che si proponeva quale sintesi di una pluralità di proposte da tempo dibattute nella società, oltre che nelle aule parlamentari. Com’è noto, alcuni ritenevano necessaria, alla luce degli ormai numerosi precedenti stranieri, l’apertura dell’istituto matrimoniale anche alle coppie omosessuali(2), o quanto meno l’introduzione di un istituto quanto più possibile simile al matrimonio che consentisse un pieno riconoscimento di tali relazioni(3). Altri proponevano, invece, di istituire una distinzione fra il matrimonio tradizionale, che sarebbe dovuto rimanere l’unico a poter godere di uno statuto di rilievo anche pubblico, e le altre forme di unione che avrebbero dovuto trovare nell’autonomia privata, e nel ricorso al ministero notarile, la via per una loro diversa giuridificazione(4). Altri ancora puntavano piuttosto, secondo una linea di sviluppo tracciata già dalla giurisprudenza degli ultimi decenni, su una disciplina che conferisse quanto più possibile rilievo giuridico al mero fatto della convivenza, prescindendo dall’identità di genere dei soggetti coinvolti e dagli schemi formali eventualmente utilizzati(5).
Il disegno di legge unificato, dunque, ha ritenuto di individuare una posizione su cui far convergere il più ampio consenso parlamentare, scegliendo di introdurre tutti e tre gli istituti proposti: il quasi matrimonio per le coppie omosessuali, il cosiddetto contratto di convivenza, la disciplina della convivenza come mero fatto. Naturalmente, aver messo assieme delle soluzioni che in origine si ponevano come alternative non poteva non generare qualche frizione. Ad una non piena armonia delle sistemazioni giuridiche elaborate ha poi contribuito un dibattito, come si diceva, particolarmente sbilanciato verso i profili ideologici della questione, che ha forse sinora impedito un’approfondita meditazione delle scelte di mera tecnica legislativa.

Lo statuto delle convivenze

Venendo dunque all’esame degli istituti della seconda parte del disegno di legge, quelli che prescindono dall’orientamento sessuale dalle parti coinvolte, ci troviamo anzitutto di fronte alla figura della convivenza come situazione di mero fatto.
Come emerge anche ad una prima lettura, buona parte delle disposizioni che la riguardano rappresenta essenzialmente un’operazione di opportuno restatement degli orientamenti già consolidatisi, o comunque in via di consolidamento, nella nostra giurisprudenza. Siamo, dunque, di fronte, ad uno di quei momenti della storia giuridica, in cui regole ordinanti che sono già diritto vivente, grazie all’elaborazione della prassi e degli interpreti(6), si fanno anche diritto vigente, in quanto recepito dal conditor legis. Troviamo, così, la traduzione in norme di legge delle statuizioni giurisprudenziali, anche piuttosto risalenti, in materia di successione del convivente nel rapporto locatizio(7 )o di risarcibilità del danno cagionato dal decesso del convivente stesso(8). In altri casi vengono, invece, consolidati esiti più recenti dell’elaborazione giurisprudenziale, come nel caso della disciplina della crisi del rapporto di fatto, in cui si è accolta l’impostazione che aveva ammesso la possibilità di riconoscere ad uno dei conviventi diritti sulla casa familiare di proprietà dell’altro(9), o sui profitti conseguiti dal partner grazie al lavoro comune(10), e si è inoltre introdotto un vero e proprio obbligo alimentare(11). In alcune ulteriori ipotesi, peraltro, il restatement viene portato a termine con l’inserimento nel nuovo testo dedicato alla disciplina generale delle convivenze di soluzioni già prospettate in ambiti normativi più specifici, come gli ordinamenti penitenziari(12 )e sanitari(13), o le discipline in tema di edilizia popolare(14), ed in un caso anche nello stesso codice civile(15).
Appaiono invece molto più innovativi quei commi, stranamente non rimasti coinvolti nell’aspro dibattito che ha interessato il disegno di legge, con i quali si è tentato di fornire una risposta alla delicata questione del cosiddetto testamento biologico, in un senso tendenzialmente contrastante con la soluzione cui era pervenuto negli ultimi tempi il diritto vivente(16). Prescindendo dal merito della questione, che esula da quanto interessa in questa sede, occorre però rimarcare che, nella non peregrina ipotesi in cui le proposte di legge sul fine-vita conoscano un iter parlamentare ancor più accidentato di quello che è toccato in sorte al disegno di legge Cirinnà(17), si profilerebbe uno scenario, di dubbia ragionevolezza e forse anche di dubbia costituzionalità, in cui fondamentali profili della dignità personale, per se del tutto estranei alla dimensione dei rapporti di coppia, finirebbero per essere soggetti a due contrapposte discipline. La prima, per i soli conviventi, sarebbe quella dettata dalla nuova legge, mentre l’altra, determinata dagli esiti attinti dalla giurisprudenza, sempre che questa non sia indotta dal mutato quadro sistematico a modificare la propria posizione, per i coniugati, per gli uniti, per i singles e più in generale per chiunque non sia riconducibile alla figura legale del convivente. Un altro strumento messo a disposizione dei conviventi dalla nuova disciplina si rinviene in quel peculiare negozio che viene denominato contratto di convivenza(18 )e che è probabilmente, fra i vari istituti del disegno di legge in esame, quello che presenta le maggiori difficoltà di inquadramento sistematico, dovute essenzialmente alla ricordata vicenda della trasformazione di almeno tre differenti prospettive in un testo unificato. Infatti, da una parte, l’introduzione di una disciplina che riconosce effetti giuridici al mero fatto della convivenza, e fa anzi di questo il presupposto dell’eventuale stipula del contratto, toglie a questo la possibile funzione di mezzo con cui le parti scelgano se giuridificare o meno il loro rapporto: del resto, la gran parte di tali effetti ha un senso proprio in quanto finisce per coinvolgere posizioni di terzi, su cui non si sarebbe potuto incidere in via contrattuale, mentre, laddove si tratti di attribuzioni patrimoniali, realizzabili tramite contratti tipici o atipici(19), non occorrevano evidentemente nuove disposizioni di legge. Dall’altra parte, la scelta di introdurre l’unione civile omosessuale implica il superamento dell’ipotesi per cui determinate relazioni non avrebbero potuto godere di un riconoscimento pubblico, ma si sarebbero dovute accontentare dello strumento contrattuale. Al legislatore, ed all’interprete, è rimasto, quindi, il non semplice compito di stabilire quale concreta funzione attribuire al nuovo negozio di cui si prospetta comunque l’introduzione. Sul piano meramente tecnico potrebbe anche risultare convincente la scelta, esplicitata dal disegno di legge, di farne uno strumento per instaurare tra i conviventi il regime di comunione legale dei beni, com’è noto ben diverso da quello di una comunione ordinaria che chiunque può costituire(20). In tal modo si è dunque evitato di far dipendere il sorgere di un regime che ha importanti riflessi sulla circolazione dei beni dalla mera fattualità della convivenza, senza però riservarlo a chi sceglie il matrimonio o l’unione civile, in cui esso costituirebbe l’ipotesi di default. Sul piano pratico, però, non si riesce a resistere alla tentazione di domandarsi, in un contesto in cui la normalità è rappresentata dalla fuga dei coniugati verso la separazione dei beni, chi mai potrebbe volere la comunione, ed i suoi incomodi, senza il matrimonio o l’unione.
Le altre ipotesi divisate suscitano ancor maggiori perplessità. Si parla, infatti, di un contratto con cui si stabiliscano la residenza o le modalità di contribuzione al ménage familiare, tramite il lavoro professionale o domestico(21), e subito potrebbero sorgere dubbi sulla coerenza con i principi costituzionali di un impegno contrattuale che vincoli a risiedere o a non risiedere in una certa località, oppure a intraprendere o a non intraprendere una data attività lavorativa(22), ovvero, ancor peggio, ad un vincolo in ordine alle modalità di esplicazione dell’affettività di coppia o dei doveri di assistenza(23). Beninteso, i dubbi si sciolgono subito, non appena si prenda atto che tali impegni non sono vincolanti ma liberamente revocabili(24), solo che a questo punto si affaccia l’altro dubbio, più tecnico, sulla coerenza del richiamo all’istituto del contratto per quanto attiene ad impegni che non sono, né invero potrebbero essere, vincolanti in senso contrattuale. Questo secondo dubbio si rafforza poi se consideriamo come il negozio in esame venga assoggettato ad un regime delle invalidità ben diverso da quello che vige in materia contrattuale, ma molto vicino a quello tipico del matrimonio(25), con un sistema di impedimenti(26), e addirittura con un divieto di apporre condizioni o termini(27), che risulta davvero difficile da conciliare con il nostro concetto dell’autonomia privata in materia patrimoniale. Del resto, un ragionamento analogo si potrebbe condurre anche con riferimento al peculiare regime pubblicitario congegnato per il negozio in parola, che fa leva su di un meccanismo, forse unico nel panorama della circolazione dei beni, di opponibilità conseguibile in sede anagrafica(28). Oltretutto, la complessiva anomalia della figura è stata vieppiù rafforzata dall’intersezione dell’iter parlamentare del disegno di legge Cirinnà con quello di un, meno fortunato, tentativo di riforma del riparto delle competenze fra le professioni legali(29), che sembrerebbe però aver generato in questa sede una strana combinazione fra le attribuzioni dell’avvocato e quelle del notaio(30).
Emerge, dunque, la netta differenziazione tra il cosiddetto contratto di convivenza ed il negozio oggetto di un’altra ipotizzata riforma di cui si è pure avviato l’esame in sede parlamentare, quella che dovrebbe condurre all’introduzione dei patti prematrimoniali(31), recependo importanti indicazioni della prassi e del diritto giurisprudenziale(32). In tal caso, infatti, saremmo di fronte ad un vero contratto, la cui funzione sarebbe proprio quella di costituire fra le parti un vincolo destinato ad operare quando non andranno più d’accordo, esaltando peraltro il ruolo antiprocessuale del ministero notarile(33). Invero, la maggiore utilità pratica che si possa ritrarre da un contratto stipulato fra conviventi dovrebbe consistere appunto in una predeterminazione dei profili patrimoniali della eventuale crisi del rapporto familiare di fatto, volta ad evitare successivi contenziosi(34). Il contratto di convivenza del disegno di legge Cirinnà non è, però, idoneo a svolgere tale funzione, in quanto è stato costruito come privo di vincolatività ed incapace di sopravvivere alla crisi del rapporto, che dunque non potrà certo pretendere di regolamentare, con quella che sarebbe peraltro una condizione da reputare, in quanto tale, pro non scripta. Il rischio è, dunque, che, qualora il disegno di legge sui prenuptial agreements vada in porto, tale strumento venga introdotto solo per le unioni coniugali e non anche per i rapporti di convivenza, che pure potrebbe semmai avere un senso configurare come più, e non meno, aperti alla disponibilità in via negoziale con riferimento alla crisi familiare, evento che del resto potremmo forse ritenere più fisiologico in un rapporto non connotato dallo scambio di solenni promesse di stabilità.

La definizione di convivenza

La costruzione di uno statuto delle convivenze, con le sue luci e le sue ombre, ha implicato però anche un’altra operazione, certamente innovativa, che il passaggio di tutta una serie di figure dal diritto vivente a quello vigente ha reso inevitabile: l’elaborazione di una nuova definizione della fattispecie cui riferire gli effetti sinora delineati, ed insomma della fattispecie di famiglia per il diritto. Infatti, il codice civile, in linea con una scelta tipica della modernità giuridica, sia della Chiesa postridentina(35 )sia poi degli Stati laici, aveva preso in considerazione solo il matrimonio, inteso come negozio solenne inserito in un procedimento pubblicistico, lasciando ogni altra espressione della vita familiare ed affettiva in una posizione di identica irrilevanza per il diritto, ben espressa dal noto adagio napoleonico «les concubins se passent de la loi, la loi se désintéresse d’eux». In tal modo, il paradigma moderno aveva preso nettamente le distanze da quello del diritto romano, in cui il matrimonium era stato una situazione di fatto rilevante per il diritto, in un senso analogo a quello che noi continuiamo ad utilizzare ad esempio per il possesso, e si distingueva da ulteriori e diverse situazioni, pure esse fattuali, munite di una diversa rilevanza giuridica, quali il concubinatus o il contubernium(36). La più radicale sconfessione di tale mentalità giuridica si è avuta, invero, nella nota formulazione tipicamente moderna per cui il matrimonio di fatto non è solo illecito o invalido ma addirittura inesistente, per cui senza una celebrazione con intervento della pubblica autorità non si ha alcun matrimonio(37). Negli ultimi decenni, però, il paradigma è di nuovo cambiato, con la riemersione della famiglia di fatto come realtà rilevante per il diritto(38), il che ha riproposto la questione di una sua definizione.
Infatti, se dal punto di vista dell’originario impianto codicistico poteva essere del tutto irrilevante distinguere le varie forme di tutto ciò che non è matrimonio, in quanto comunque si trattava di realtà del tutto irrilevanti per il diritto familiare, la successiva giurisprudenza, che alla famiglia di fatto ha invece riconosciuto una sempre più ampia rilevanza, ha dovuto necessariamente domandarsi di volta in volta se quella singola formazione sociale che si presentava all’attenzione dei giudici potesse essere qualificata come tale. Ora che la disciplina generale della convivenza passa, però, dal diritto vivente a quello vigente, tale processo di qualificazione non può più essere realizzato in maniera casistica, ma il legislatore sente la necessità di definire, in via appunto generale, che cosa sia la convivenza rilevante per il diritto. Beninteso, non si tratta di un’operazione banale, in quanto ogni definizione, non solo giuridica, impone di fare delle scelte e di porre dei confini, attività che esprime del resto il significato, anche etimologico, della definitio: si passa, insomma, da un continuum indistinto ad una linea di demarcazione rispetto alla quale qualcosa è dentro e qualcosa è fuori, e forse anche per questo «omnis definitio in iure periculosa est»(39).
Emerge, dunque, il profilo più interessante e problematico della nostra questione, in quanto non tutte le situazioni che la giurisprudenza aveva avuto modo di qualificare come famiglia di fatto potranno ora rientrare nel nuovo concetto legale di convivenza. Pertanto, si porrà un ulteriore interrogativo circa la sorte delle situazioni escluse: dovremo ritenere che un’opzione, almeno implicita, del legislatore le abbia ricacciate nell’assoluta irrilevanza, oppure dovremo ipotizzare di costruire accanto alla convivenza di diritto, rilevante per legge, delle convivenze di mero fatto, cui la giurisprudenza possa continuare a riconoscere una, magari diversa, rilevanza giuridica? Naturalmente, le risposte potranno variare a seconda di quale profilo della nuova definizione legale si voglia prendere in considerazione, e si dovrà tenere presente che nel diritto positivo esistono ulteriori riferimenti a convivenze che potrebbero anche non essere intese nello stesso modo di quelle del disegno di legge Cirinnà(40).
Il primo, e più evidente, elemento da considerare si ravvisa nel richiamo legislativo alla stabile coabitazione, risultante a livello anagrafico, tra persone vincolate da legami affettivi(41): ne derivano alcune esclusioni assai ragionevoli. In primo luogo, infatti, si evita così di confondere i concetti di convivenza e di mera coabitazione(42), e di veder così dissolvere il proprium del rapporto familiare di fatto in una vaga figura in cui rientrerebbero magari anche gli studenti universitari fuori sede, coinquilini per condividere le spese, o le consorelle che vivano nello stesso convento(43). Invero, almeno da questo punto di vista, anche il confronto con la precedente elaborazione giurisprudenziale non suscita particolari dubbi.
Inoltre, la medesima previsione esclude anche l’ipotesi del rapporto sentimentale, o erotico, in cui manchi però la stabile coabitazione(44). A tal proposito, qualche maggiore incertezza potrebbe sorgere dall’esame di alcune decisioni giudiziarie di merito: se talvolta i giudici hanno escluso che una frequentazione occasionale potesse configurarsi come famiglia di fatto(45), in altri casi si era, però, arrivati a riconoscere la risarcibilità del danno da morte, in seguito al decesso del “fidanzato”, con cui si fosse intrecciato un rapporto sentimentale che non implicava ancora nessuna coabitazione(46). In tal caso, dunque, il legislatore ha dovuto compiere una scelta fra le differenti soluzioni che il diritto vivente presentava, ed ha finito per assumere una posizione che ci sembra pienamente condivisibile. Invero, il riconoscimento da parte dell’ordinamento della rilevanza di una situazione di fatto non comporta soltanto l’attribuzione di nuovi diritti, come spesso ripete una certa retorica, ma anche l’imposizione di nuovi doveri, per la semplice ragione che i diritti di qualcuno, se hanno una consistenza giuridica e non solo flatus vocis, saranno anche, per logica necessità, i doveri di qualcun altro. Si comprende, dunque, come sia stato opportuno non arrivare a giuridificare, cioè a sottoporre a vincoli ed obblighi, ogni relazione affettiva, lasciando invece tutta la fascia dei rapporti che non raggiungano un certo grado di intensità, denotato dalla stabile coabitazione risultante in sede anagrafica(47), nell’ambito della mera libertà, senza diritti e senza doveri. Una diversa soluzione avrebbe rischiato di tradire i caratteri di fondo della civiltà occidentale, per riproporre un assetto in cui ogni contatto sentimentale è interdetto, se non viene subito inserito in uno schema fortemente giuridificato a scopo riparatorio(48). I profili più problematici dello sforzo definitorio cui si è dedicato il legislatore attengono, però, agli ulteriori elementi che contribuiscono a delimitare la convivenza rilevante per il diritto. La norma riferisce, infatti, il fenomeno a quei rapporti di affettività e di coabitazione, che interessino due sole persone, maggiorenni, non legate da vincoli di parentela o di coniugio(49). L’esclusione dei minorenni risponde con ogni probabilità a quell’esigenza di adeguamento all’odierna realtà sociale, che ha indotto, del resto, anche la disciplina delle unioni civili ad omettere il richiamo all’arcaica figura del minore emancipato, che pure il codice continua a contemplare ai fini del matrimonio(50). L’esclusione delle situazioni incestuose o poligamiche risponde, invece, all’esigenza di ribadire pure per la convivenza quei divieti che stanno alla radice di alcuni impedimenti matrimoniali, allo scopo di rimarcare che certe unioni proibite non solo non possono essere matrimoni, ma non possono neppure dare luogo a convivenze legalmente riconosciute(51). Il punto è che, però, qui si stanno considerando situazioni fattuali che tipicamente attengono proprio alla realtà di chi non ha la possibilità di accedere allo status coniugale. La giurisprudenza, infatti, aveva avuto occasione, in peculiari casistiche, di riconoscere, soprattutto ai fini della risarcibilità del danno da morte, la piena rilevanza di determinate convivenze, a prescindere dal rapporto di parentela fra le persone coinvolte(52), o dal vincolo coniugale sussistente tra almeno una di esse ed una terza parte(53). Pertanto, l’ipotesi di una netta esclusione da ogni considerazione giuridica tra alcune di queste situazioni potrebbe creare problemi di non poco momento, che emergono soprattutto se consideriamo due macrofattispecie di indubbia rilevanza pratica.
Basti pensare, innanzitutto, al caso della persona coniugata ma separata, che avvii una nuova relazione sentimentale, caratterizzata anche dalla stabile coabitazione, nelle more del procedimento di divorzio: come ognun vede, si tratta di una situazione tutt’altro che infrequente, e che non ci sembra peraltro suscitare nell’attuale realtà sociale nessuna forma di riprovazione. Invero, parrebbe davvero paradossale che un effetto dell’entrata in vigore della legge Cirinnà finisca per essere quello di privare della sua rilevanza giuridica, sinora pacificamente riconosciuta, una delle ipotesi più classiche di famiglia di fatto. Si obbietterà che il problema appartiene al passato, in quanto le ultime riforme che hanno degiurisdizionalizzato separazioni e divorzi(54 )ed abbreviato il periodo di tempo che deve intercorrere tra i due passaggi(55 )lo avrebbero in sostanza già risolto. Sarebbe, però, agevole replicare che tali riforme possono produrre i loro effetti soprattutto nelle situazioni non conflittuali, mentre in caso di contenzioso i tempi della nostra giustizia civile rendono tutt’altro che anomala una situazione in cui, prima di conseguire la libertà di stato, si debba attendere un periodo non lontano da quello punitivo che era previsto dall’originaria disciplina del divorzio. Una drastica riduzione dei tempi, oltre che con le riforme processuali ed organizzative che esulano da quanto interessa in questa sede, si sarebbe invero potuta ottenere con la generalizzazione del divorzio immediato, che elimini in toto uno dei due procedimenti attraverso cui deve passare la crisi coniugale, ipotesi che è stata accantonata con riguardo al matrimonio(56), ma viene ora riproposta con riferimento allo scioglimento dell’unione civile(57). Non sembra dunque così peregrino interrogarsi sui dubbi di legittimità costituzionale di un sistema che discrimina, verrebbe da dire al contrario, i coniugati nel confronto con gli uniti, costringendo solo i primi a subire, in caso di crisi familiare, la duplicazione del procedimento, con tutte le sue onerose conseguenze esistenziali ed economiche.
L’altra fattispecie che ci sembra particolarmente significativa, nel contesto di una società sempre più multiculturale, è quella delle famiglie degli immigrati provenienti da Paesi in cui la poligamia è legale(58). Benché in altri ordinamenti occidentali si stia ponendo anche il problema di una loro piena accettazione in termini di validità(59), ci limiteremo in questa sede alla considerazione del quadro italiano, nel quale ad essere in discussione non è tanto la qualificazione giuridica degli stessi in termini di invalidità, anche se non di inesistenza, quanto piuttosto la problematica degli effetti riflessi che tali matrimoni invalidi, appunto in quanto esistenti, possono avere su altri piani, come quelli delle successioni(60 )o delle regole di ingresso nel territorio nazionale(61), in cui prevalgono spesso logiche diverse da quelle che presiedono al diritto di famiglia stricto sensu(62). Ad ogni modo, la coabitazione poligamica non è vietata, né ci sembra ipotizzabile, almeno nel nostro ordinamento(63), un intervento dell’autorità che imponga con la forza la separazione di fatto delle parti dell’unione proibita. Appare, pertanto, poco convincente che a tali situazioni venga negata una qualificazione come convivenze, e quindi ogni rilievo per il diritto. Sarà dunque soprattutto in questi casi, come a fortiori in quelli dei separati non ancora divorziati, che la giurisprudenza verrà probabilmente sollecitata a porsi il problema dell’elaborazione di uno statuto della convivenza di mero fatto, magari differenziato, da collocare in qualche modo a fianco di quello della convivenza di diritto regolata dalla nuova normativa.
Un altro dubbio potrebbe porsi con riguardo al rapporto fra la stessa convivenza di diritto ed il matrimonio omosessuale celebrato all’estero. Com’è noto, infatti, il disegno di legge Cirinnà nasce anche come risposta ad una situazione che aveva visto molte coppie dello stesso sesso ricorrere al cosiddetto turismo matrimoniale per ottenere quella giuridificazione del loro rapporto che veniva negata loro in Italia. Il legislatore si è quindi posto lo specifico problema della sistemazione di tali posizioni ed una delle norme più significative del progetto di legge ci sembra proprio quella che demanda la costruzione di un meccanismo di conversione di tali matrimoni stranieri in unioni civili(64 )ad un successivo decreto legislativo, la cui redazione implicherà la soluzione di delicati problemi di diritto internazionale privato e di diritto europeo(65). Peraltro, la medesima norma ha anche una sua immediata portata precettiva nella parte in cui sancisce la sussistenza di un rapporto di analogia fra matrimonio e unione civile(66), così fornendo la chiave di volta per la soluzione di molte delle questioni che si potrebbero porre con riguardo alle discrepanze fra le due discipline, che sono state determinate da una serie di rinvii costruiti con una tecnica legislativa a dir poco approssimativa(67), oltre che da alcuni malcelati imbarazzi dei redattori del testo(68).
Resta, però, il problema della rilevanza di tali matrimoni stranieri nel periodo intercorrente fra l’entrata in vigore della legge Cirinnà e quella del divisato decreto legislativo. La giurisprudenza maggioritaria sinora li aveva considerati non trascrivibili, ma non inesistenti né contrastanti con l’ordine pubblico, ed insomma potenzialmente rilevanti per l’ordinamento italiano, almeno in casi particolari(69), precisando al contempo che le coppie omosessuali godono comunque delle tutele loro riconosciute dal diritto vivente in quanto famiglie di fatto(70). Ora queste due ragionevoli affermazioni rischiano di vedersi poste in contraddizione l’una con l’altra, in quanto, posto che il matrimonio straniero rileva per il diritto interno, anche se in misura imperfetta ed insuscettibile di condurre alla trascrizione o, fino all’emanazione del previsto decreto, alla conversione in unione civile, se ne potrebbe anche dedurre che la sussistenza del vincolo da esso derivante impedisce di considerare integrata la fattispecie della convivenza in senso legale, con una sorprendente eterogenesi dei fini che rischia di prospettare situazioni analoghe a quelle che si sono presentate in alcune similari esperienze straniere(71).
Si potrebbe infine considerare un ulteriore paradosso cui la lettera della definizione normativa di convivenza è suscettibile di dare luogo. Invero il riferimento ad una famiglia anagrafica composta da due sole persone potrebbe far sembrare che si voglia escludere l’ipotesi in cui le persone sono tre o più, semplicemente perché alla coppia si sono aggiunti uno o più figli. Beninteso, un esito così irragionevole potrà certamente essere evitato adottando un approccio interpretativo che non si limiti ad un cieco letteralismo, ma il fatto stesso che un dubbio del genere possa prospettarsi ci sembra spia di un problema di fondo del disegno di legge, che ha, in effetti, tentato di evitare ogni riferimento all’eventualità, invero non così remota quando si parla di rapporti affettivi, della procreazione. Così, anche la parte della normativa dedicata alle convivenze tende, pur senza riuscirvi del tutto, ad omettere ogni richiamo a tale ipotesi(72), il che impedisce peraltro alla riforma di saldarsi con quella che ha recentemente avuto di mira l’unificazione degli status filiationis(73). Tale obiettivo, infatti, non è stato raggiunto in maniera integrale, in quanto continuano ad essere diverse le modalità di costituzione dello status, che sorge automaticamente e presuntivamente per i figli matrimoniali, mentre per quelli extramatrimoniali occorre l’atto di riconoscimento, il che vale poi a differenziare anche le modalità di prova e di contestazione dello status stesso(74). Questa soluzione poteva considerarsi una necessità quando l’unica realtà familiare legalmente definibile era il matrimonio, e dovrà esserlo ancora con riguardo ai nati da rapporti occasionali, ma potrebbe non esserlo più con riguardo ai nati da rapporti di convivenza ormai legalmente definiti, per i quali parrebbe dunque ragionevole un’estensione dei meccanismi di costituzione ope legis dello status filiationis. Com’è evidente, però, tutte queste incertezze dipendono nella sostanza dalla peculiarità di una normativa che ha voluto delineare un regime unitario per le convivenze eterosessuali ed omosessuali, senza poter comunque toccare il delicato tema dell’omogenitorialità, in relazione al quale sarebbe venuto meno il traballante consenso politico all’interno della stessa maggioranza parlamentare(75).


(*) Contributo già pubblicato in Giustiziacivile.com, 12 maggio 2016, e riedito col consenso della rivista di prima pubblicazione, in Actualidad Jurídica Iberoamericana, núm. 5, agosto 2016, p. 129-150.

(1) Il riferimento è al d.d.l., n. 2081, approvato il 25 febbraio 2016 dal Senato della Repubblica, e trasmesso come d.d.l. 3634 alla Camera dei Deputati, che lo ha approvato in data 11 maggio 2016. In seguito alle note vicende parlamentari, il testo della proposta di legge è stato interamente sostituito col ricorso alla tecnica del cosiddetto maxiemendamento, per cui si presenta ora come un unico articolo composto da ben 69 commi. Nel presente contributo faremo dunque direttamente riferimento ai singoli commi, senza ripetere l’inutile indicazione relativa all’articolo.

(2) È la prospettiva del matrimonio egualitario, o del “mariage pour tous”, affermatasi negli ultimi anni in Olanda, Belgio, Paesi Scandinavi, Spagna, Portogallo, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti d’America.

(3) Secondo il modello della partnership registrata, che caratterizza Germania, Austria e Svizzera.

(4) Una delle più compiute elaborazioni tecniche di tale prospettiva si rinviene nella proposta sui Patti di Convivenza, presentata al XLVI Congresso Nazionale del Notariato del 13-15 ottobre 2011.

(5) Questa era l’impostazione accolta dal Ministro R. Bindi, quando nel 2007 tentò con modesta fortuna di sottoporre alle Camere un progetto che è rimasto noto soprattutto con l’abbreviazione giornalistica Di.Co.

(6) In proposito si vedano almeno L. MENGONI, “Diritto vivente”, in Dig., disc. priv., sez. civ., Torino, 1990, p. 445-452, e B. PASTORE, Interpreti e fonti nell’esperienza giuridica contemporanea, Padova, 2014.

(7) Il comma 44 del d.d.l. Cirinnà si pone in linea di continuità con il dictum di Corte Cost., 7 aprile 1988 n. 404, in Foro it., 1988, I, c. 2515: per l’esattezza, se nulla parrebbe essere innovato per quanto attiene alla successione mortis causa, quella inter vivos viene invece emancipata dal presupposto della necessaria sussistenza di prole naturale.

(8) Il comma 49 recepisce un orientamento giurisprudenziale consolidato: cfr. Cass., 28 marzo 1994, n. 2988, in Giur. it., 1995, p. 1366, e Cass., 29 aprile 2005, n. 8976, in Giur. it., 2006, 2, p. 246.

(9) Cass., 15 settembre 2014, n. 19423, in Arch. loc., 2015, 1, p. 37, ha riconosciuto alla convivente superstite la tutela possessoria nei confronti degli eredi del proprietario esclusivo della casa familiare: nella specie si trattava di una coppia unitasi in matrimonio esclusivamente canonico, non rilevante per lo Stato italiano. La sentenza precisava, altresì, che in capo al de cuius doveva ritenersi sussistente un obbligo ex fide bona di non ricorrere alle vie di fatto per espellere la compagna, detentrice qualificata e non mera ospite, senza un concederle un congruo termine, per cui non si poteva ammettere che gli eredi fossero titolari di un potere che il loro stesso dante causa non avrebbe avuto. Cass., 11 settembre 2015, n. 17971, in Guida dir., 2015, 41, p. 52, rifacendosi al dictum di Cass., 26 maggio 2004, n. 10102, in Vita not., 2004, p. 969, ha ritenuto che, in caso di scioglimento del rapporto di fatto, la casa familiare di proprietà esclusiva di un convivente possa essere assegnata ex art. 337-sexies c.c., all’altra in quanto collocataria dei figli comuni. Ora i commi 42 e 43, ribadita l’ammissibilità di tale richiamo, regolano compiutamente l’attribuzione al convivente superstite di un diritto sulla casa familiare, di durata variabile a seconda della durata della convivenza, e sempre che non si instauri un nuovo rapporto coniugale o di fatto con un terzo. Nulla viene precisato in ordine alla natura personale o reale di tale diritto, alla sua incidenza sugli oneri fiscali o condominiali relativi all’immobile, né alla sua opponibilità a terzi. Sarà dunque necessario fare riferimento all’elaborazione giurisprudenziale formatasi nel recente passato con riguardo all’assegnazione della casa familiare in sede di separazione e divorzio, nonché con riguardo al legato ex lege in favore del coniuge superstite ex art. 540, comma 2, c.c. Il comma 61, inoltre, ha quantificato il termine di preavviso, che il proprietario deve concedere qualora intimi al convivente il rilascio della casa familiare, in novanta giorni per coloro che abbiano stipulato un contratto di convivenza; per le mere convivenze di fatto, dunque, si dovrà continuare a riferirsi ad un termine variabilmente determinabile in concreto ex fide bona.

(10) Cass., 25 gennaio 2016, n. 1266, in Guida dir., 2016, 12, p. 64, ha riconosciuto alla convivente che aveva prestato continuativamente la propria opera all’interno dell’impresa del compago il diritto ad un’indennità. Il comma 46 consolida tale soluzione con l’inserimento nel codice civile di un nuovo art. 230-ter nella sezione dedicata all’impresa familiare.

(11) Il riferimento è al comma 65. Va ricordato che sinora la giurisprudenza aveva, invece, inquadrato le attribuzioni patrimoniali tra conviventi, finché il rapporto è in vita o alla sua cessazione, ricorrendo alla categoria dell’obbligazione naturale e quindi alla regola nec actio nec repetitio: cfr. Cass., 22 gennaio 2014, n. 1277, in Foro it., 2014, 4, I, p. 1149, con nota di G. Casaburi.

(12) Il comma 38 recepisce nella sostanza quanto stabilito dagli artt. 18 e 30 della L. 26 luglio 1975, n. 354, e dall’art. 37 del D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230.

(13) Il comma 39 generalizza il principio già sancito dall’art. 3 della L. 1 aprile 1999, n. 91, con riferimento alle informazioni attinenti allo specifico ambito dei trapianti di organi.

(14) Il comma 45 recepisce quanto previsto da varie disposizioni fra cui, ad esempio, l’art. 5-bis della L. reg. Toscana, 20 dicembre 1996, n. 96.

(15) I commi 47 e 48 estendono anche alle quasi desuete figure dell’interdizione e dell’inabilitazione quanto già previsto dagli artt. 407 e 408 c.c. per l’amministrazione di sostegno, con riguardo alla partecipazione del convivente al procedimento ed alla sua possibile nomina.

(16) All’indomani della nota decisione di Cass., 16 ottobre 2007, n. 21748, in Giust. civ., 11, I, p. 2366, sul caso Englaro, che ha riconosciuto la rilevanza di una volontà della paziente di interrompere nutrizione e idratazione artificiale, ricostruita in base a dichiarazioni della stessa precedenti l’insorgere della condizione di incapacità ed al suo complessivo stile di vita, il Trib. Modena, 5 novembre 2008, in Dir. fam. pers., 2008, p. 277, con nota critica di F. GAZZONI, «Continua la crociata parametafisica dei giudici-missionari della c.d. morte dignitosa», ha inaugurato un filone giurisprudenziale favorevole alla nomina di un amministratore di sostegno specificamente incaricato dal potenziale beneficiario, ancora pienamente capace, di rappresentare le sue volontà in ordine ad eventuali futuri trattamenti sanitari. In senso contrario alla possibilità di siffatta designazione anticipata, si è però pronunciata Cass., 20 dicembre 2012, n. 23707, in Dir. fam. pers., 2013, 4, I, p. 1316. Ora, però, la soluzione della nomina anticipata di un rappresentante per le decisioni in materia di trattamenti sanitari, ed anche per quelle relative alla donazione degli organi ed alle celebrazioni funerarie, viene accolta dai commi 40 e 41 del d.d.l. Cirinnà.

(17) Durante questa legislatura, in materia sono stati presentati i d.d.l., poi riuniti, nn. 1142, 1298, 1432, 2229, 2264, 2996, 3391, 3561, 3586, 3596, 3599, il cui esame in Commissione, propedeutico alla prima lettura della Camera dei Deputati, risulta iniziato in data 4 febbraio 2016.

(18) La sua disciplina è contenuta nei commi da 50 a 64 del d.d.l. Cirinnà.

(19) Sul ruolo dell’autonomia negoziale nei rapporti di convivenza cfr. E. MOSCATI - A. ZOPPINI, I contratti di convivenza, Torino, 2002; E. DEL PRATO, «I patti di convivenza», in Familia, 2002, p. 959 e ss.; G. OBERTO, Contratto e regime patrimoniale della famiglia di fatto, in Trattato del contratto a cura di V. Roppo, Milano, 2006, VI, p. 105-402; G.A.M. TRIMARCHI, L’autonomia privata e la famiglia di fatto: deriva o soluzione?, in Diritto civile diretto da N. Lipari, P. Rescigno, Milano, 2009, I, II, p. 388-400; nonché E. GIUSTI - F. VETTORI, «Famiglia di fatto ed unioni civili: verso un nuovo modello di famiglia?», in giustiziacivile.com, 22 gennaio 2016, specie il § 5.

(20) Il riferimento è al comma 53, lettera c), nonché al comma 54.

(21) Il riferimento è al comma 53, lettere a) e b).

(22) Sembra quasi di scorrere un elenco dei casi scolastici di contratti nulli per contrarietà all’ordine pubblico: cfr. F. GAZZONI, Napoli, 2011, p. 800 e ss.

(23) Vengono alla mente certe figure del passato, come quelle convenzioni con cui si impegnava una donna di condizione sociale inferiore a prestazioni sessuali e di assistenza (cfr. G.L. BARNI, «Un contratto di concubinato in Corsica nel XIII secolo», in Riv. st. dir. it., 1949, p. 131-155), oppure quei “patti di trattamento” che nel Settecento spesso accedevano ai contratti nuziali stipulati in sede notarile, e potevano avere riguardo, ad esempio, a quali carrozze la dama avrebbe potuto utilizzare, a quante volte si sarebbe andati a teatro, ed anche al diritto della stessa di avere uno o più cicisbei a sua disposizione (cfr. R. BIZZOCCHI, Cicisbei: morale privata e identità nazionale in Italia, Roma-Bari, 2008).

(24) Come si evince chiaramente dal comma 59, lettera b).

(25) Circa la profonda diversità fra la natura del vincolo contrattuale e quella del rapporto familiare formalizzato col matrimonio si vedano, per tutti, G. FURGIUELE, Libertà e famiglia, Milano, 1979, nonché V. SCALISI, «Consenso e rapporto nella teoria del matrimonio civile», in Riv. dir. civ., 1990, p. 166.

(26) Il comma 57 configura come impedimenti la presenza di un altro vincolo familiare, la minore età, l’interdizione, nonché, per effetto di un non chiarissimo rinvio interno al comma 36, i rapporti di parentela, affinità e adozione, ed infine il delitto, questa volta con esplicito rinvio all’art. 88 c.c., dettato in materia matrimoniale. La sanzione viene individuata nella nullità, con un palese allontanamento dalla sistematica contrattuale in cui, ad esempio, l’incapacità è una tipica ragione di annullabilità, mentre la presenza di vincoli contraddittori con quello che si va ad assumere rileverebbe semmai in termini di inopponibilità o di inadempimento. Meno incongrua è la precisazione che si tratta di nullità “insanabile”, giacché nel sistema delle patologie contrattuali esistono ormai anche quelle sanabili (cfr. S. PAGLIANTINI, Autonomia privata e divieto di convalida del contratto nullo, Torino, 2007; S. MONTICELLI, «La recuperabilità del contratto nullo», in Notariato, 2009, p. 174 e ss.; G. PERLINGIERI, La convalida delle nullità di protezione e la sanatoria dei negozi giuridici, Napoli, 2010; M. RIZZUTI, La sanabilità delle nullità contrattuali, Napoli, 2015). Davvero difficili da spiegare con le consuete categorie civilistiche sono poi le previsioni del comma 58, per cui gli effetti del contratto debbono essere “sospesi” in pendenza del procedimento di interdizione o del processo penale per il delitto di cui all’art. 88 c.c.

(27) Il riferimento è al comma 56.

(28) Ai sensi del comma 52, ai fini dell’opponibilità, secondo un meccanismo che mira in qualche modo ad emulare quello delle annotazioni a margine dell’atto di matrimonio nei registri di stato civile, il contratto di convivenza andrebbe iscritto nei registri dell’anagrafe, a quanto pare seguendo il procedimento previsto per i cambiamenti di residenza, laddove sarebbe stato forse più ragionevole istituire un Registro apposito, come era ipotizzato nell’art. 1986-quater della predetta proposta notarile del 2011. Peraltro, il successivo comma 55 sottopone tali dati, di cui si è appena imposto l’inserimento in un pubblico registro per renderli legalmente conoscibili, alla disciplina della privacy e prevede che siano trattati «garantendo il rispetto della dignità degli appartenenti al contratto di convivenza» e del principio di non discriminazione, cosicché non si capisce più se gli stessi debbano considerarsi pubblici e accessibili ai terzi oppure no.

(29) Alludiamo al d.d.l. 3012, approvato in prima lettura dalla Camera dei Deputati, con la cui presentazione si è per la prima volta ottemperato alla previsione dell’art. 47 della L. 23 luglio 2009, n. 99, secondo cui il Governo dovrebbe formulare annualmente una proposta di riforma pro-concorrenziale, che raccolga le segnalazioni all’uopo presentate dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Infatti, l’art. 29 del testo originario del d.d.l. governativo, poi soppresso e sostituito durante l’iter parlamentare, prevedeva l’estensione agli avvocati delle competenze notarili inerenti al trasferimento degli immobili non abitativi di valore inferiore ai 100.000 €.

(30) I commi 51, 52, 60, 61, 62 e 63 attribuiscono sia ai notai che agli avvocati le competenze sulla autenticazione dei contratti di convivenza e degli atti che ne implichino la risoluzione, sul controllo della conformità degli stessi all’ordine pubblico ed al buon costume, e sui procedimenti necessari ad assicurarne l’opponibilità ai terzi, benché il comma 60 precisi poi che qualora vengano in rilievo trasferimenti immobiliari, e quindi trascrizioni ex art. 2643 c.c., la competenza spetta ai soli notai. Il vero problema è che si è recepito un sistema che coinvolge il professionista in una serie di notifiche ed annotazioni, relative agli atti o agli eventi che determinino lo scioglimento del contratto, derivato dall’art. 1986-octies della proposta notarile del 2011, e tale da presupporre evidentemente una garanzia di conservazione dell’atto, che poteva avere un senso con riguardo alla struttura del notariato e degli archivi notarili, espressamente menzionati nel testo del 2011, ma rischia di non averlo più, se riferita anche all’avvocatura.

(31) Il riferimento è al d.d.l. bipartisan n. 2669, presentato il 15 ottobre 2014 alla Camera dei Deputati, senza che ne sia ancora iniziato l’esame.

(32) La svolta verso l’ammissibilità di contratti che condizionino determinate vicende patrimoniali all’evento della crisi coniugale si è avuta con Cass., 21 dicembre 2012, n. 23713, in Foro it., 2013, 3, I, p. 864.

(33) D’obbligo il riferimento a F. CARNELUTTI, «La figura giuridica del notaro», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1950, p. 921 e ss., con il suo celeberrimo «tanto più notaio, tanto meno giudice».

(34) Infatti, la proposta notarile del 2011 all’art. 1986-sexies, n. 3 e 4, prevedeva tra i possibili contenuti del patto di convivenza anche la preventiva regolamentazione dei rapporti patrimoniali in caso di cessazione del rapporto, nonché in caso di morte di una delle parti, in tal caso con espressa deroga al divieto dei patti successori ex art. 458 c.c. Tali contenuti oggi si ritrovano nel citato d.d.l. 2669 sui patti prematrimoniali, che del resto li deriva da un’altra proposta elaborata in seno al medesimo congresso notarile del 2011, e non invece nel d.d.l. Cirinnà. La traduzione parlamentare delle due proposte notarili parrebbe dunque aver tradito l’originaria coerenza tecnica e sistematica che le caratterizzava.

(35) L’importanza storica della svolta si evince chiaramente dal confronto tra la formulazione accolta dal più autorevole canonista pretridentino, secondo il quale «Illorum uero coniugia, qui contemptis omnibus illis solempnitatibussolo affectu aliquam sibi in coniugem copulant, huiuscemodi coniugium non legitimum, sed ratum tantummodo esse creditur» (Decretum Gratiani, C.28, q.1, c.17 i. fi.), e quella approvata dai padri conciliari, per cui «Qui aliter quam praesente parocho, vel alio sacerdote de ipsius parochi seu Ordinarii licentia, et duobus vel tribus testibus matrimonium contrahere attentabunt: eos sancta Synodus ad sic contrahendum omnino inhabiles reddit, et huiusmodi contractus irritos et nullos esse decernit, prout eos praesenti decreto irritos facit et annullat» (Canones super reformatione circa matrimonium, sessione XXIV, 11 novembre 1563).

(36) Sulla concezione romana del matrimonium come res facti analoga al possesso si possono vedere: E. ALBERTARIO, Honor matrimonii e affectio maritalis, in Studi di diritto romano, I, Milano, 1933, p. 195 e ss.; ID., L’autonomia dell’elemento spirituale nel matrimonio e nel possesso romano-giustinianeo, ibidem, p. 211 e ss.; ID., Di alcuni riferimenti al matrimonio e al possesso in Sant’Agostino, ibidem, p. 229 e ss.; E. VOLTERRA, La conception du mariage d’après les juristes Romains, Padova, 1940; ID., Matrimonio, (diritto romano), in Enc. dir., Milano, 1975, p. 726 e segg.; ID., «Precisazioni in tema di matrimonio classico», in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 1975, p. 245 e ss.; P. GIUNTI, , Il matrimonio romano tra res facti e regolamentazione legislativa, in Civitas e Civilitas. Scritti in onore di F. Guizzi, II, Torino, 2013, p. 879 e ss. Si vedano inoltre M. GUARESCHI, Fra canones e leges: Magister Vacarius e il matrimonio, in Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen Age - Temps modernes, 1999, p. 105 e ss., circa la persistenza di tale impostazione ancora fra i glossatori, nonchè G.E. LONGO, «Common law marriage statunitense e matrimonio romano», in Riv. dir. civ., 1967, II, p. 490 e ss., sulla non dissimile concezione che in origine caratterizzava il diritto anglosassone.

(37) Il riferimento è alla formulazione di K.S. ZACHARIAE VON LINGENTHAL - C. CROME - L. BARASSI, Manuale del diritto civile francese, Milano, 1907-1909, I, § 126, e III, §§ 419,421, divenuta poi tralatizia.

(38) Già E. FINZI, Il possesso dei diritti, Roma, 1915, ristampato da Giuffrè, Milano, 1968, con prefazione di SALV. ROMANO, p. 258 e ss., ipotizzava il caso in cui «Tizio e Caia, avendo tutti i presupposti richiesti per la celebrazione del matrimonio, in omaggio a certe loro convinzioni morali e politiche rifuggono dalla celebrazione del matrimonio civile, ma si limitano a convenire tra loro, con solenne giuramento, di considerarsi come marito e moglie. Non solo; ma effettivamente conformano la loro vita a tale dichiarazione» e concludeva, quindi, che «costoro danno luogo in tal modo ad una società famigliare, che può porsi, a raffronto con quella legale, appunto come di fatto». In seguito alle grandi trasformazioni che hanno interessato la realtà sociale e giuridica della famiglia, tale concezione è stata quindi perfezionata dalla dottrina: cfr. A.C. JEMOLO, «La famiglia di fatto”, in Riv. dir. civ., 1965, II, p. 398 e ss.; V. FRANCESCHELLI, «Il matrimonio di fatto: nozione, effetti e problemi nel diritto italiano e straniero», in Atti del convegno nazionale “La famiglia di fatto”: Pontremoli 27-30 maggio 1976, Montereggio, 1977, p. 345 e ss.; G. STELLA RICHTER, «Appunti sulla nozione di matrimonio di fatto», ibidem, p. 159 e ss.; G. FURGIUELE, op. cit., p. 285 e ss.; F. PROSPERI, La famiglia non fondata sul matrimonio, Napoli, 1980; F. GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983; M. DOGLIOTTI, “Famiglia di fatto”, in Dig., disc. priv., sez. civ., Torino, 2003, p. 705 e ss.; L. BALESTRA, «La famiglia di fatto tra autonomia ed eteroregolamentazione”, in Nuova giur. civ. comm., 2007, 5, p. 194-206; F. ROMEO, Le unioni affettive non matrimoniali, Torino, 2014; A. PALAZZO, Eros e Jus, Milano, 2015; S. RODOTÀ, Diritto d’amore, Roma-Bari, 2015.

(39) GIAVOLENO, in D.50.17.202.

(40) Si pensi, ad esempio, alle disposizioni processuali in tema di astensione dall’obbligo di testimoniare (art. 199 c.p.p.) o di ricusazione degli arbitri (art. 815 c.p.c.), nonché a quanto previsto in materia assicurativa dall’art. 129 del D.lgs., 7 settembre 2005, n. 209, ovvero con riguardo all’accesso alla procreazione assistita dall’art. 5 della L. 19 febbraio 2004, n. 40. In alcuni casi, la distinzione tra queste ulteriori ipotesi di convivenza legalmente riconosciuta e quella del d.d.l. Cirinnà emerge chiaramente: così il “convivente o commensale abituale” del codice di rito parrebbe essere chi abbia instaurato un rapporto di frequentazione che non sembra affatto dover implicare quella stabile coabitazione risultante a livello anagrafico richiesta, invece, come si dirà fra un attimo, dal d.d.l.; d’altra parte, la legge sulla procreazione artificiale fa espresso riferimento alla necessità che si tratti di una convivenza eterosessuale, mentre, come si è già detto, il d.d.l. ha riguardo anche quelle omosessuali, senza distinzione alcuna.

(41) Il riferimento è ai commi 36 e 37.

(42) A tal proposito cfr. U. ROMA, Convivenza e coabitazione, Padova, 2005.

(43) In quest’ultima ipotesi, ad esempio, rientriamo nella fattispecie che l’art. 5 del D.P.R., 30 maggio 1989, n. 223, definisce come “convivenza anagrafica”, laddove i commi 36 e 37 del d.d.l. Cirinnà espressamente riconducono la loro diversa definizione di convivenza nell’ambito della “famiglia anagrafica”, di cui all’art. 4 del predetto D.P.R., che del resto già ricomprendeva la situazione delle persone coabitanti e legate da vincoli affettivi. Naturalmente, anche questo difetto di coordinamento non farà che aumentare la problematica polisemia del termine convivenza.

(44) La stessa impostazione emerge nella bozza di d.d.l. delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario, presentata il 17 marzo 2016 dalla Commissione Vietti, in cui si propone una modifica degli artt. 18 e 19 del R.D., 30 gennaio 1941, n. 12, sulle incompatibilità di sede dei magistrati aventi determinati rapporti con chi vi eserciti la professione forense o altre attività inerenti all’amministrazione della giustizia, rapporti fra i quali a quello di “convivenza”, cui già fa riferimento il testo vigente, verrebbe aggiunto quello di “stabile relazione affettiva”: si confermerebbe, dunque, che si tratta di figure distinte e che per estendere al secondo rapporto la disciplina prevista per il primo è necessaria un’espressa disposizione di legge.

(45) Si consideri il caso vagliato da App. Ancona, 5 dicembre 2009, in Dir. fam. e pers., 2012, p. 224 e ss., con nota di G. SAVI, «Quali possibili obbligazioni contrattuali tra ex amanti divenuti genitori?».

(46) Il riferimento è a Trib. Firenze, 26 marzo 2015, in www. personaedanno.it .

(47) Si consideri che, una volta raggiunto tale assetto, l’applicazione della disciplina della convivenza ai sensi del d.d.l. Cirinnà non sarà una scelta degli interessati ma un effetto legale. Infatti, la dichiarazione anagrafica con la quale si rende nota la situazione di fatto agli uffici preposti, ai sensi del predetto D.P.R. 223 del 1989 cui il d.d.l. rinvia, non può configurarsi in senso negoziale, essendo oggetto di un obbligo presidiato anche dalle sanzioni penali di cui all’art. 76 del D.P.R., 28 dicembre 2000, n. 445, per cui sarebbe semmai più corretto parlare di atto esecutivo con funzione di dichiarazione di scienza. Coerentemente, il d.d.l. non dà alcun rilievo agli eventuali vizi della volontà del convivente dichiarante, mentre il comma 37 espressamente precisa che una dichiarazione falsa non implica l’applicazione della disciplina legale, qualora non sussistano i presupposti fattuali di cui al comma precedente.

(48) Come ricorda P. UNGARI, Storia del diritto di famiglia in Italia (1796-1942), Bologna, 1974, p. 56, nell’Ancien Regime il mero fatto della seduzione, pur in assenza di un fidanzamento, dava luogo ad una pretesa giuridicamente coercibile al matrimonio, secondo la regola «aut nubat aut dotet aut ad triremes!».

(49) Il riferimento è al comma 36, in cui si richiamano i vincoli di parentela, affinità e adozione, nonché quelli derivanti da matrimonio o unione civile. Ci sembra abbastanza grave l’omessa indicazione del grado di parentela rilevante, in quanto diviene così impossibile comprendere sin dove si estenda l’impedimento e si rischia di vederlo interpretato come riferibile ad ogni rapporto di parentela giuridicamente rilevante, dunque con un’estensione ben maggiore di quella prevista per il matrimonio dall’art. 87 c.c. o per l’unione civile dal comma 4, lettera c), dello stesso d.d.l. Cirinnà: insomma sarebbe, ad esempio, permesso sposarsi, o a seconda del genere unirsi civilmente, con la cugina, ma non convivere more uxorio con la stessa! Peraltro, una volta adottata questa discutibile logica di imitatio matrimonii, non si capisce perché non si siano inclusi anche gli impedimenti connessi all’interdizione o al delitto.

(50) Alludiamo al combinato disposto degli artt. 84, 90, 165 e 390 c.c.

(51) Si può ricordare come Giustiniano, nel disciplinare la limitata rilevanza successoria del concubinato e della filiazione naturale, avesse però voluto precisare che nel caso, che gli appariva particolarmente odioso, dell’instaurazione di una pluralità di rapporti, ovvero di rapporti proibiti perché incestuosi o per altre ragioni, le donne coinvolte non sarebbero state qualificabili neppure come concubine ed i prodotti di tali unioni non sarebbero stati riconoscibili nemmeno come figli naturali. Riportiamo in proposito le icastiche espressioni della Novella 89, capita 12.5 e 15, del 1 settembre 539: «Si vero effusa concupiscentia ei fuerit et alias super alias introduxerit priori concubinas, et multitudinem habuerit mulierum fornicantium (sic enim dicere melius est), et ex eis filios habens moriatur multas simul deserens concubinas, odibilis quidem est iste talis, procul autem hac lege modis omnibus cum talibus filiis et concubinis excludatur. Sicut enim si quis legitimae copulatur uxori, alias superinducere non poterit matrimonio consistente et ex his legitimos procreare, ita neque post agnitam quo diximus modo concubinam et ex illa filios dabimus, si etiam aliquod opus libidinis aliud fecerit, etiam hoc ad successionem eius introduci, si mortuus fuerit intestatus. Nam si non hoc sanciverimus, indiscreta quidem erunt quae mulierum sunt, quam potius aut quam minus amaverit, indiscreta quidem quae filiorum: et nos non damus luxuriantibus, sed pudicis legem. … Ultima siquidem nos pars legis expectat, ut ipsa competentem suscipiat ordinem et enumeremus, qui neque ipso naturalium nomine digni sunt. Primum quidem omnis qui ex complexibus (non enim vocabimus nuptias) aut nefariis aut incestis aut damnatis processerit, iste neque naturalis nominatur neque alendus est a parentibus neque habebit quoddam ad praesentem legem participium».

(52) Si veda Trib. Venezia, 31 luglio 2006, in Giur. mer., 2007, 5, p. 1331, per il riconoscimento della risarcibilità del danno da morte in un caso di convivenza incestuosa tra fratello e sorella.

(53) Cass., 7 giugno 2011, n. 12278, in Giust. civ.. Mass., 2011, 6, n. 852, ha equamente suddiviso il risarcimento del danno da morte tra la moglie e l’altra convivente dello stesso uomo, mentre Cass., 16 giugno 2014, n. 13654, in Foro it., 2014, 7-8, I, p. 2055, il celebre caso Gucci, ha condannato la moglie, mandante dell’omicidio del marito, a risarcire anche il danno da morte così provocato alla convivente.

(54) Si allude agli artt. 6 e 12 del D.l., 12 settembre 2014, n. 132, convertito in L. 10 novembre 2014, n. 162.

(55) Il riferimento è alla L. 6 maggio 2015, n. 55.

(56) In occasione dell’approvazione della predetta legge 55 del 2015, quelle disposizioni del relativo d.d.l. che si proponevano di introdurre anche il divorzio diretto sono state stralciate per andare a formare un nuovo d.d.l., n. 1504-bis, il cui esame in Commissione, propedeutico alla prima lettura del Senato della Repubblica, risulta iniziato il 1 marzo 2016.

(57) Il riferimento è al comma 24 del d.d.l. Cirinnà.

(58) Vengono in rilievo essenzialmente i numerosi Paesi afro-asiatici, da cui originano la gran parte delle correnti migratorie che stanno interessando oggi la nostra società, nei quali il diritto islamico, che sul punto si rifà anche alla tradizione veterotestamentaria, consente la poliginia, purché il marito abbia i mezzi per mantenere tutte le mogli e non si superi il limite massimo tendenziale di quattro spose (cfr. Corano, 4,3). Dobbiamo però accennare anche a società che conoscono modelli familiari ulteriori, come la poliandria, che era la norma a Ceylon e nel Tibet, prima di esservi proibita rispettivamente dagli inglesi nel 1860 e dai cinesi nel 1950, e lo è tuttora presso alcune genti dell’Amazzonia, oppure la poliginandria, o matrimonio di gruppo, attestata presso alcuni popoli del Nepal, della Siberia e dell’Oceania (cfr. K.E. STARKWEATHER - R. HAMES, «A Survey of Non-Classical Polyandry», in Human Nature, 2012, p. 149-172).

(59) Negli Stati Uniti pende in grado di appello, dopo un parziale successo in primo grado (U.S. District Court Utah, 13 dicembre 2013, 2:11-cv-0652-CW, Brown vs. Buhman) il ricorso di un esponente del Mormonismo, religione che ammette la poligamia, contro le leggi che la criminalizzano. Il dibattito si è quindi ampliato, coinvolgendo la questione dell’immigrazione islamica ed il confronto con l’orientamento giurisprudenziale, recentemente affermatosi in via definitiva (U.S. Supreme Court, 26 giugno 2015, 14-556, Obergefell vs. Hodges), che, richiamando anche i precedenti sull’illegittimità del divieto dei matrimoni interrazziali (U.S. Supreme Court, 12 giugno 1967, 388 U.S. 1, Loving vs. Virginia), ha legittimato pure quelli omosessuali: cfr. C.F. FAUCON, «Marriage Outlaws: Regulating Polygamy in America», in Duke Journal of Gender Law & Policy, 2014, 22:1, p. 1-54.

(60) Cass., 2 marzo 1999, n. 1739, in Giust. civ., 1999, 10, p. 2695, con nota di L. DI GAETANO, «I diritti successori del coniuge superstite di un matrimonio poligamico. Questione preliminare e validità nel nostro ordinamento dell’unione poligamica», ha riconosciuto la rilevanza a fini successori del matrimonio contratto da un italiano in Somalia secondo il diritto locale, rigettando le argomentazioni in senso contrario proposte dai parenti del de cuius, secondo i quali sarebbe stato inaccettabile riconoscere valore a tale coniugio, retto da un diritto che ammette la poligamia. Parrebbe che la vicenda sia stata una sorta di tardiva derivazione di quella pratica del madamato, assai diffusa in epoca coloniale (ed immortalata da G. PUCCINI, Madama Butterfly, prima rappresentazione Milano, 17 dicembre 1904), che vedeva l’europeo stipulare con l’indigena quello che costei considerava un matrimonio secondo le sue tradizioni, salvo poi abbandonare senza problemi la donna ed i figli meticci, una volta terminato il servizio in colonia, giacché per l’ordinamento superiore tale unione non aveva mai avuto alcun valore. Si consideri peraltro che, quando il regime fascista intervenne per reprimere una prassi sin troppo tollerata in epoca liberale e ritenuta lesiva del prestigio della razza, per cui con il R.D.l., 19 aprile 1937, n. 880, i «rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi» furono configurati come reato, la giurisprudenza dovette porsi dei problemi per certi aspetti analoghi a quelli che ci pone oggi la definizione legale della convivenza. Infatti, la tipicità del reato non era integrata da rapporti con prostitute o domestiche, che non mettevano a repentaglio la distinzione dei ruoli su base razziale, ma solo da quelli connotati in termini di coabitazione e di affectio maritalis, in quanto «la legge penale in tema di madamismo non intende reprimere i congressi con le indigene come tali … a tutela della stessa dignità della razza colpisce di sanzione quelle relazioni non tanto saltuarie, quanto improntate obbiettivamente alla rappresentazione di un matrimonio di fatto» (App. Addis Abeba, 3 gennaio 1939, in Razza e civiltà, 1940, 5-6-7, p. 551), anche perché nei rapporti occasionali era assai ridotto il pericolo del meticciato, in quanto «nei contatti di natura transeunte oltretutto, l’italiano si premunisce di norma, sicché è ben difficile che procrei» (App. Addis Abeba, 13 dicembre 1938, in Il diritto razzista, 1940, 1, p. 38). Per un’ampia rassegna di questa giurisprudenza cfr. F. BACCO, Il delitto di madamato e la lesione al prestigio di razza. Diritto penale e razzismo coloniale nel periodo fascista, in Il diritto di fronte all’infamia del diritto: a 70 anni dalle leggi razziali, a cura di L. Garlati - T. Vettor, Milano, 2009, p. 85-120.

(61) Cass., 28 febbraio 2013, n. 4984, in Foro it., 2013, 9, I, p. 2519, ha sposato la linea di netto contrasto al fenomeno della poligamia sancita dall’art. 29, comma 1-ter, del D.lgs., 25 luglio 1998, n. 286, come inserito dal D.lgs., 3 ottobre 2008, n. 160, arrivando sino al punto di respingere la domanda di ricongiungimento familiare presentata dal figlio per la madre, con la motivazione che altrimenti si sarebbero trovate a convivere in Italia entrambe le donne che il padre del richiedente aveva sposato in Marocco.

(62) Si ricordi come da tempo la giurisprudenza considera il matrimonio omosessuale contratto in altro Paese europeo titolo valido per la concessione del permesso di soggiorno al coniuge extracomunitario, a prescindere dall’inammissibilità della trascrizione del matrimonio stesso o della sua invalidità ai fini del diritto familiare interno: cfr. Trib. Reggio Emilia, 13 febbraio 2012, in Foro it., 2012, 10, I, p. 2727, cui si è allineato il Min. Interno, circ. 26 ottobre 2012, prot. 8996; nonché in seguito Trib. Pescara, 15 gennaio 2013, in www.articolo29.it, e Trib. Verona, 5 dicembre 2014, in www.certidiritti.org. Del resto, una diversa soluzione avrebbe comportato anche una violazione degli obblighi internazionali di tutela dei diritti umani: cfr. Cedu, 23 febbraio 2016, n. 68453/13, caso Pajic vs. Croatia.

(63) In Francia alcuni discutibili interventi in tal senso sono stati, invece, tentati: cfr. P. GAULLIER, «La décohabitation et le relogement des familles polygames. Un malaise politique émaillé d’injonctions contradictoires», in Recherches et Prévisions, 2008, p. 59-69.

(64) Il riferimento è al comma 28, lettera b).

(65) Si tratterà di valutare se e come la conversione legale di un rapporto matrimoniale in uno unionale possa dirsi coerente con le implicazioni che la libertà di circolazione dei cittadini comunitari ha anche in materia di famiglia: cfr. L. TOMASI, La tutela degli status familiari nel diritto dell’Unione Europea. Tra mercato interno e spazio di libertà, sicurezza e giustizia, Padova, 2007. A breve la materia sarà, inoltre, interessata dal Regolamento, approvato dalla Commissione europea il 2 marzo 2016 (COM2016 107 final), sul diritto internazionale privato delle registered partnerships.

(66) Il comma 28, nell’indicare i rapporti suscettibili di conversione, si riferisce a «matrimonio, unione civile o altro istituto analogo», così esplicitando il rapporto di analogia che sussiste tra i due istituti, mentre al contratto di convivenza è dedicata un’autonoma norma di diritto internazionale privato, il comma 64. Peraltro, nel prossimo futuro occorrerà domandarsi se, ai fini del Regolamento europeo menzionato alla nota che precede, per registered partnerships italiane dovranno intendersi le unioni civili, i contratti di convivenza o le convivenze di fatto risultanti a livello anagrafico, oppure tutte queste figure.

(67) La parte del d.d.l. dedicata alle unioni civili è, infatti, costruita con una serie di richiami alla disciplina del coniugio, che vengono realizzati a volte con una riscrittura delle norme codicistiche interessate ed a volte con dei meri rinvii a singoli articoli o intere sezioni, mentre il comma 20 prescrive che le disposizioni extracodicistiche riferite al matrimonio debbano applicarsi anche all’unione civile, a differenza delle disposizioni codicistiche non menzionate e di quelle della L. 4 maggio 1983, n. 184, in materia di adozioni. Questo farraginoso meccanismo presenta però alcune falle: ad esempio, per un mero errore materiale il comma 21 rinvia al capo II del titolo IV del libro II del codice, in cui non c’è nessuna norma che abbia a che fare col matrimonio, anziché al capo III, in cui è compreso l’art. 599 che contempla anche il coniuge tra coloro che si reputano interposti; similmente il comma 13, con riguardo alle convenzioni patrimoniali, rinvia agli artt. 162, 163, 164 e 166 c.c. considerandoli singolarmente, ma dimentica l’art. 166-bis che vieta la costituzione di beni in dote. Ne dobbiamo dedurre che gli artt. 599 e 166-bis c.c. non si applicano in via diretta all’unione civile, ma ci sembra che le ragioni di sistematicità, esplicitate anche dal predetto comma 28, ne consentano ed anzi impongano un’applicazione in via analogica. A fortiori una soluzione del genere va sostenuta per un’altra norma dimenticata, l’art. 230-bis c.c., onde evitare che l’istituto dell’impresa familiare risulti inapplicabile soltanto alle unioni civili, proprio mentre, come si è già ricordato, viene introdotto un art. 230-ter c.c., per estenderlo anche alle convivenze di fatto.

(68) Pensiamo al comma 7, che omette tra gli errori rilevanti ai fini dell’annullamento dell’unione civile quello sulle anomalie sessuali, forse con l’arrière-pensée che altrimenti le si renderebbero tutte annullabili, oppure al comma 11, che non comprende fra i doveri unionali la fedeltà, forse sentita come inadeguata per rapporti che si percepiscono ancora come trasgressivi e tendenzialmente promiscui. Consideriamo altresì il comma 23, che non annovera fra le cause di scioglimento dell’unione l’inconsumazione, forse perché tale nozione, accolta dal diritto civile solo con la L. 1 dicembre 1970, n. 898, è ancora troppo condizionata dalla formulazione canonistica, in cui il matrimonio si consuma soltanto con la copula perfecta, realizzata dai tre concomitanti elementi della erezione, della penetrazione completa secondo natura e della eiaculazione di verum semen, definizione che aveva indotto Sisto V, con il breve Cum frequenter del 27 giugno 1587, a denegare la validità del matrimonio degli spadones (cfr. V. TURCHI, «Considerazioni attuali circa una questione antica. Gli eunuchi, tra storia e diritto», in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, novembre 2010, www.statochiese.it, p. 1-26), e che oggi non appare certo facile da conciliare con i rapporti che si vorrebbe regolamentare. Anche in questi casi, però, ci sembra che un richiamo in via analogica ai concetti, magari intesi in modo un po’ più moderno, di anomalia sessuale, fedeltà coniugale e consumazione sia sistematicamente necessario, anche alla luce del predetto comma 28.

(69) Tale impostazione risale all’ampia motivazione di Cass., 15 marzo 2012, n. 4184, in Dir. fam. pers., 2012, 2, p. 696, ed è stata confermata, anche se da differenti prospettive, da App. Milano, 16 ottobre 2015, in www. ilcaso.it , Id., 6 novembre 2015, in Foro it., 2016, 1, I, p. 296, con nota di G. CASABURI, nonché Cons. Stato, 26 ottobre 2015, in Foro amm., 2015, 10, p. 2498. In proposito si vedano, anche per ulteriori riferimenti: «La trascrizione dei matrimoni: i confini di una domanda di giustizia», a cura di M. Gattuso, in GenIus. Rivista di studi giuridici sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, 2015, 2, p. 76-149; M. RIZZUTI, «Inesistenza e invalidità del matrimonio nella più recente giurisprudenza italiana», in Actualidad Jurìdica Iberoamericana, 2015, 3-ter, p. 20-31.

(70) Si veda in proposito Cass., 9 febbraio 2015, n. 2400, in Dir. fam. pers., 2015, 2, I, p. 489.

(71) In Francia, prima della loi, 12 maggio 2009, n. 526, le unioni omosessuali straniere non venivano riconosciute, ma erano considerate ostative alla stipula del pacte civil de solidarité, legislativamente riservata a celibi o nubili, per cui le persone coinvolte potevano trovarsi nella paradossale necessità di divorcer pour se pacser. In proposito si veda A. PIRROU, «Reconnaissance des couples unis civilement à l’étranger: c’est fait!», in Libération, 29 aprile 2009, che segnala come l’adozione della predetta L. 526 sia dipesa anche dalle discrete pressioni del Foreign Office, irritato per la situazione in cui erano così venuti a trovarsi alcuni cittadini britannici residenti in Francia. Il problema è stato poi radicalmente superato dalla loi, 17 mai 2013, n. 404, che ha aperto il matrimonio alle coppie del medesimo sesso.

(72) L’unico riferimento espresso parrebbe quello del comma 42, che, richiamando l’art. 337-sexies c.c. sull’assegnazione della casa familiare, ne prende implicitamente in considerazione il presupposto, che è appunto la tutela dell’interesse dei figli. Peraltro lo stesso comma, nel delineare la disciplina della durata variabile del diritto del convivente superstite sulla casa familiare di proprietà esclusiva del compagno defunto, considera come ragione giustificativa di un allungamento della stessa anche la presenza di figli minori o disabili, ma rifiuta di parlare di figli della coppia e preferisce fare riferimento ai figli “del convivente superstite”. Ne deriva l’incongrua conseguenza che la loro esistenza giova al superstite, e quindi pregiudica gli eredi legittimi, anche qualora l’altro genitore non sia il de cuius ma un terzo.

(73) Si allude alla L. 10 dicembre 2012, n. 219, ed al successivo D.lgs., 28 dicembre 2013, n. 154.

(74) Continuano, infatti, ad essere in vigore due distinte discipline: quella di cui agli artt. 231-249 c.c. per i figli matrimoniali e quella di cui agli artt. 250-279 c.c. per quelli extramatrimoniali. Ricordiamo che, anche prima del 2012, proprio questa era la differenza più significativa tra filiazione legittima e filiazione naturale, in quanto le altre distinzioni più odiose erano già state quasi tutte eliminate sin dal 1975.

(75) La più chiara espressione di questa problematicità si rinviene nell’enigmatica chiusa del comma 20, per cui «resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione», il che per gli uni significa un richiamo alla lettera di norme che non contemplano l’ipotesi dell’omoparentalità, ma per gli altri implica un rinvio alla giurisprudenza che ha già ammesso in numerosi casi il ricorso all’adozione speciale nell’ambito di coppie omosessuali, coniugate all’estero o semplicemente conviventi in via di fatto: cfr. Trib. Min. Roma, 30 luglio 2014, Id., 22 ottobre 2015, Id., 30 dicembre 2015, nonché App. Roma., 23 dicembre 2015, tutte in www.articolo29.it.

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