Introduzione - Atti del convegno tenutosi a Roma il 3 marzo 2017
Introduzione
di Nicolò Lipari
Emerito di Diritto privato, Università di Roma La Sapienza
Mi ha fatto particolarmente piacere che la Fondazione italiana del notariato abbia organizzato - valendosi di alcune delle massime competenze in materia in sede teorica e professionale - questo convegno sul contratto di affidamento fiduciario e che abbia voluto assegnarmi il ruolo di introduttore. Considero questa occasione per me significativa non solo perchè mi consente di riandare con la memoria alla stagione dei miei esordi universitari e del mio primo impegno monografico, ma soprattutto perchè mi permette - senza occupare in alcun modo il terreno che sarà raffinatamente arato dagli autorevoli relatori che seguiranno - di indicare le ragioni che, a mio giudizio, consentono (superando gli schemi del classico negozio fiduciario) di assumere l’affidamento fiduciario a paradigma di quello che io considero il più significativo indice di qualificazione della giuridicità nel tempo presente: il passaggio cioè da uno jus positum ad uno jus costantemente in fieri.
Quando, ormai più di cinquant’anni fa, mi occupai del negozio fiduciario avvertivo - prima ancora che Biagio De Giovanni ci illuminasse con la sua monografia su “Fatto e valutazione nella teoria del negozio giuridico” - che fosse necessario superare gli schematismi dell’alternativa fatto-diritto. Non c’è evidentemente qui modo di affrontare, nemmeno in superficie, tematiche così radicali della teoria generale del diritto. Un uditorio qualificato quale quello odierno intende tuttavia benissimo come l’ottica del negozio fiduciario sia fra le più idonee a chiarire la necessità di impostare in termini nuovi l’alternativa fatto-diritto, almeno assumendo la fiduciarietà secondo lo schema classico, molte volte attuato durante la stagione delle persecuzioni antiebraiche, di un trasferimento di beni - reale ma tuttavia nell’intenzione delle parti non definitivo - realizzato al fine di impedire che la persistenza della situazione giuridica anteriore all’atto traslativo determini effetti che le parti, e segnatamente il trasferente, intendono evitare. Non tutto ciò che i soggetti affidano ad una dimensione metagiuridica (e per decenni questa è stata la classica collocazione del pactum fiduciae) è destinato ad essere considerato necessariamente estraneo ad ogni qualificazione in chiave di diritto. A ben vedere, tutta la teoria del c.d. negozio fiduciario si è svolta, al di là delle diverse accentuazioni, nel tentativo di superare questa aporia.
La teoria del negozio fiduciario ha costituito un terreno privilegiato per indurre i giuristi a leggere l’esperienza prima dei testi, i modi di attuazione dei comportamenti prima degli atti, a superare l’artificio della distinzione fatto-diritto. La “fiducia” ha costituito, a ben vedere (e, in un certo senso, ante litteram) uno dei più significativi esempi di quel diritto che sale dal basso sul quale Paolo Grossi sempre più di frequente ci ammonisce nell’ottica del postmoderno.
Ma l’appuntamento di oggi non riguarda il negozio fiduciario della tradizione classica, ma la quasi novità del contratto di affidamento fiduciario, una figura che possiamo tranquillamente attribuire alla paternità di Maurizio Lupoi, il quale, nella sua monografia, candidamente lo ha qualificato come «per il momento [emergente solo] da questo libro, da alcuni atti pubblici e da tre provvedimenti di giudici tutelari», riconoscendo come questo fosse «un po’ poco in termini di fonti di produzione del diritto». Tuttavia la figura - nei tre anni scarsi che sono passati dall’uscita del libro di Lupoi - ha avuto una sempre più diffusa applicazione, emergente sia in sede giurisprudenziale, sia, di recente, anche in sede legislativa, visto che la legge 22 giugno 2016, n. 112 (in tema di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare), pur non definendone in alcun modo la struttura, ripetutamente la assimila nei suoi effetti al trust (dandone comunque per scontata l’esistenza nell’esperienza giuridica).
In sostanza, mentre la riflessione sul negozio fiduciario ci aveva condotto a superare l’alternativa fatto-diritto, il modo progressivo di emersione del contratto di affidamento fiduciario nell’esperienza giuridica ci induce ad intendere che il diritto non va più ricostruito in funzione esclusiva di atti formali di posizione ma all’esito di atti concreti di riconoscimento, non partendo da un legislatore, ma dai modi di svolgimento di un’esperienza, che di solito è prevalentemente giurisprudenziale ma che, nel caso concreto, nasce da un felice connubio tra dottrina (e in questa dizione implico anche alcuni qualificati professionisti) e la giurisprudenza. Qualche anno fa, riflettendo sulle categorie del diritto civile, avevo assunto l’allora ancora imberbe contratto di affidamento fiduciario a sintomo della necessità di superare un modo di intendere le categorie quali entità oggettive entro le quali classificare le sopravvenienze della storia, perchè queste sono semmai il risultato del procedimento qualificativo e, anche quando appaiono consegnate ad un lessico consolidato, rappresentano pur sempre l’esito dell’attività interpretativa dell’operatore. Oggi, alla luce delle conclusioni raggiunte in un libro uscito il mese scorso che ho intitolato “Il diritto civile tra legge e giudizio”, penso che il contratto di affidamento fiduciario possa essere assunto a paradigma di un diritto che nasce dall’esperienza nel suo continuo farsi e non può più ridursi alle fattispecie consolidate (e in quanto tali assumibili solo all’esito di un procedimento di segno deduttivo) proprie del c.d. jus positum.
La differenza tra il negozio fiduciario della tradizione e il contratto di affidamento fiduciario è evidente. Nel primo l’intento delle parti può essere integralmente realizzato solo se non palesato (fermo restando tuttavia che si tratta di un caso sicuramente diverso da un meccanismo di tipo simulatorio, essendo la non apparenza diversa dalla simulazione) e la sua attuazione è affidata alla serietà di comportamento del fiduciario e quindi esposta al rischio di un suo abuso. Nel contratto di affidamento fiduciario, invece, il meccanismo è reso palese con precisi obblighi di comportamento, concretamente azionabili, imposti al fiduciario. Quel che mi preme evidenziare, in chiave di teoria generale, e credo che ne avremo, da diversi punti di vista, conferma dalle relazioni che seguiranno, è che - costituisca l’affidamento fiduciario un tipo negoziale o individui una pluralità di tipi - certo è che la sua affermazione nell’esperienza giuridica accentua un nuovo modo di porsi dei c.d. formanti e segnatamente una nuova modalità di riconoscimento dell’autonomia contrattuale.
Nella prospettiva del postmoderno non ha probabilmente più senso formulare una teoria generale del negozio giuridico. Se tuttavia volessimo, ancora per un momento, ripercorrere in questa chiave una traiettoria storica, dovremmo dire che siamo progressivamente passati da una stagione in cui l’autonomia contrattuale era consegnata alla previsione di cui all’art. 1322 cpv. c.c. (non a caso rimasto praticamente senza applicazioni giurisprudenziali nell’arco di oltre settant’anni) - dettata in funzione di interessi peculiari e specifici rimessi ad una puntuale valutazione giudiziale, volta ad accertare non più semplicemente la liceità della causa, ma la meritevolezza degli interessi perseguiti, con il limite quindi dell’irrilevanza o della futilità - ad una stagione in cui si è venuta affermando una nuova rilevanza del contratto atipico, non più legata ad esperienze singole e marginali, ma ad una sua tipicità sociale. Contratti come factoring, engineering, leasing, know how, pubblicità (che hanno, nell’esperienza sociale, un’incidenza percentuale maggiore di quella di molti contratti tipici, pur in mancanza di qualsiasi formale riconoscimento legislativo) non sono certo legati ad esigenze specifiche e rispetto a ciascuno di essi sarebbe impensabile una valutazione puntuale riferita alla meritevolezza dell’interesse perseguito. Tuttavia - come ha dimostrato l’evoluzione giurisprudenziale che ha fatto alternativamente riferimento alle norme generali sul contratto ovvero alla disciplina di contratti tipici assunti in chiave di segno lato sensu analogico - ad essi non è automaticamente e pacificamente applicabile la previsione di cui all’art. 1323 c.c. L’esperienza ci ha cioè già mostrato un procedimento di emersione di strutture contrattuali e di determinazione della rispettiva disciplina diverso da quello che era previsto nella sistematica del codice e che è stato successivamente indirizzato dalla giurisprudenza.
Il contratto di affidamento fiduciario supera anche questo modello e si presenta con elementi di assoluta novità. Il nuovo schema contrattuale nasce sì dal basso dell’esperienza, ma si presenta come un tipo negoziale di prevalente formazione dottrinale (ricomprendendo qui nella generica espressione di “dottrina” anche alcuni qualificati notai di avanguardia). La giurisprudenza non ha fatto che recepire una sollecitazione assolutamente elitaria cercando, volta a volta, di aggiungere nuovi tasselli al quadro di una disciplina che non può ritenersi ancora integralmente disegnato. Si tratta di un fatto assolutamente rivoluzionario del quale personalmente non mi scandalizzo, ma che certamente rompe i più consolidati paradigmi del positivismo legalista. Nell’originario impianto codicistico lo schema contrattuale era impostato dal legislatore, essendo consentito alle parti solo il perseguimento di interessi particolari da collocare entro quello schema. Successivamente il profilo si capovolge: di fronte a contratti che perentoriamente si impongono nell’esperienza sociale, si amplia lo spazio offerto alla giurisprudenza in chiave di individuazione della disciplina (di fatto, per esempio, oggi esistono, nonostante l’apparente identità del fenomeno pratico, due diversi contratti di leasing soggetti ad una differente disciplina). Nel caso del contratto di affidamento fiduciario è la dottrina - intesa nel senso ampio che ho detto - che individua lo schema (disegnandone gli effetti) entro il quale canalizzare gli interessi delle parti, che spesso queste ultime non sono neanche in grado di rappresentare compiutamente a sé stesse. Rispetto ad esso si può certo immaginare una valutazione in chiave di meritevolezza degli interessi perseguiti, atteso l’ampio spettro delle possibilità applicative, ma si deve certo escludere l’automatica applicazione dell’art. 1323. Se fosse qui consentito riproporre l’alternativa prospettata da Grassetti - in un tempo che appartiene ormai alla preistoria dell’odierno diritto civile - tra intento empirico e intento giuridico, dovremmo dire che, attraverso la creazione di un contratto di affidamento fiduciario, un raffinato teorico e alcuni preveggenti notai hanno concorso a tramutare, in chiave sistematica, l’intento empirico delle parti in intento giuridico addirittura andando oltre gli schemi legali riconosciuti.
Il tutto nell’assoluta assenza di referenti normativi e quindi con sostanziale capovolgimento di quello che tradizionalmente si riconosceva essere il processo applicativo del diritto. Non è senza significato il fatto che alcuni indici normativi, sia pure indiretti e parziali, quali quelli ricavabili dall’art. 2045- ter c.c. ovvero dalla legge 27 gennaio 2012, n. 3 sul sovraindebitamento, siano stati alternativamente acquisiti, a seconda del punto di vista dal quale ci si poneva, come un limite o come un sintomo, come una preclusione (che definisce il confine al di là del quale non sarebbe consentito andare) o come una prospettiva (che indica un tragitto non definibile a priori). Il tono scontato con il quale la recente legge 22 giugno 2016, n. 112 dà per acquisito il contratto di affidamento fiduciario considerandolo quale strumento alternativo al trust dimostra in maniera perentoria quel che ormai avevamo scoperto da tempo: che, nella realtà del postmoderno (in maniera più vistosa di quanto già non accadesse in passato), il legislatore è destinato inesorabilmente ad arrivare per ultimo con la funzione di registrare (spesso, come nel caso, in termini addirittura impliciti) ciò che è già inesorabilmente avvenuto. Anzi, l’accostamento al trust, dato ormai per scontato, supera in radice le discussioni che hanno appassionato alcuni di noi qualche anno fa quando reagivamo alle resistenze che hanno accompagnato il riconoscimento e l’applicazione in Italia del c.d. trust interno. Al di là dei sottili distinguo sull’interpretazione della legge 16 ottobre 1989, n. 364, che ha reso esecutiva in Italia la Convenzione de L’Aja del 1° luglio 1985, la dottrina prima e la giurisprudenza poi hanno chiaramente dimostrato che nella stagione della globalizzazione appare assurdo dover realizzare in forma indiretta e costosa ciò che invece può essere tranquillamente attuato in forma semplice ed immediata.
È stato già autorevolmente affermato che la stagione del postmoderno registra ormai l’eclissi del dogma dell’autorità della legge e impone - nell’esigenza di supplire a quella che taluno ancora avverte come inadeguatezza - il ruolo tutto nuovo riconosciuto al momento giurisdizionale. L’ottica peculiare che è stata scelta per la nostra riflessione odierna induce ad evidenziare e valorizzare il ruolo, altrettanto significativo e creativo, del giurista non giudice. Anch’egli è chiamato a rendersi fulcro della positività giuridica, a interpretare la sua dinamica interna e ad intenderne, senza condizionamenti formali, la forza intima e le sue potenzialità di sviluppo. La teoria delle fonti del diritto trova, in un tema esemplare quale quello che oggi assumiamo ad oggetto della nostra riflessione, all’un tempo la sua morte e, in forme diverse, la sua resurrezione. In una rinnovata simbiosi dottrina e giurisprudenza realizzano una nuova sintesi. Il pensiero riflesso nella sua proiezione giuridica non si consuma più in valutazioni astratte, ma guarda necessariamente alla realtà del caso, entro il quale si sublimano e si consolidano, nel contingente storico, interessi e valori altrimenti destinati ad una incomprensibile conflittualità. L’esperienza giuridica trova la sua unità e la sua ricchezza nel quadro di una comunità interpretativa della quale dottrina e giurisprudenza sono il perno e riscopre la verità di un’affermazione che Capograssi aveva reso, prima ancora che scoppiasse la tragedia che ha insanguinato il secolo che si è chiuso, quando ammoniva che, a ben vedere, la scienza giuridica - intesa, in senso lato, come forma riflessiva sulla realtà del diritto e quindi comprensiva sia della sua dimensione teorica che di quella pratica - è «l’unica vera fonte del diritto nell’esperienza giuridica».
Gli autorevoli relatori che seguiranno ci illustreranno i vari profili di una disciplina che si va progressivamente costruendo nei modi stessi della sua attuazione. A me è sembrato opportuno segnalare, in limine, la novità di questa vicenda esperienziale. Quel diritto che, a livello costituzionale, abbiamo imparato a costruire, al di fuori di qualsiasi inferenzialismo logico, attraverso una regola che insorge con il caso, trova anche, nella varia articolazione dei rapporti civili, momenti di analoga rilevanza della fattualità. Forse anche l’angolo di visuale del contratto di affidamento fiduciario può costituire un’utile prospettiva per intendere un nuovo modo di costruire il sistema del diritto civile riscattandolo dai concettualismi e dalle sedimentazioni del passato. Quell’universo di comandi che aveva costituito l’entroterra ideologico della codificazione oggi si stempera in un pluralismo di fonti in cui forse ciascuno di noi può riscoprire l’autenticità di un ruolo molto più creativo e, per ciò stesso, molto più umanamente appagante.
|
 |
|