Enti del Terzo settore: un primo commento
Enti del Terzo settore: un primo commento (*)
di Giulio Ponzanelli
Ordinario di Diritto privato, Università Cattolica del Sacro Cuore
Da persone giuridiche private a formazioni sociali, da enti non profit a enti del Terzo settore
Il tema degli enti intermedi tra Stato e individuo è un tema classico del diritto civile contemporaneo, aperto e sensibile però alle indicazioni di altre discipline: dal diritto costituzionale (principio personalistico e libertà associativa), al diritto pubblico (rapporti tra Stato e gruppi), dal diritto tributario (in che modo e quanto devono essere aiutati i gruppi intermedi) a, in generale, a tutte le scienze sociali interessate a meglio comprendere le particolari caratteristiche di queste organizzazioni. L’interdisciplinarietà del fenomeno è dato pacifico, come, al tempo stesso, la sua crescente importanza e rilevanza nel tessuto economico italiano. Fuori dai settori più tradizionali e risalenti dell’assistenza e della beneficenza, il settore in discussione è cresciuto, anche approfittando delle due grandi crisi che hanno coinvolto i due pilastri dell’organizzazione sociale: cioè, la crisi dello Stato (State or government failure) determinata dall’impossibilità che lo Stato di Welfare possa coprire, avvalendosi dello strumento fiscale, tutti i nuovi compiti e tutti i nuovi interventi richiestegli dalle società contemporanee; come anche la crisi del mercato (market failure) determinata dal fallimento in alcuni settori dell’organizzazione civile della forma giuridica organizzativa capitalistica(1).
E, proprio in relazione ai due fallimenti dello Stato e del mercato, si parla comunemente per tutti gli enti intermedi tra Stato e individuo di Terzo settore e, conseguentemente, di enti di Terzo settore: secondo gli economisti la caratteristica fondamentale degli enti del Terzo settore sta nella previsione e nell’erogazione di beni o servizi definiti come public goods siano essi public goods puri siano essi impuri (scuola, assistenza, sanità, cultura) che richiedono in questa loro posizione l’aiuto finanziario dello Stato(2). Secondo alcuni, soprattutto sociologi, si parla anche di “privato sociale”(3).
E questa terminologia viene alla fine adottata anche dal legislatore italiano, il quale nella legge delega 106/2016 parla espressamente di una riforma del Terzo settore: più che una riforma sarebbe stato preferibile parlare della creazione ex novo di una nuova categoria di enti, visto che, solo con la legge delega, il Terzo settore ha acquistato rilevanza normativa.
La novità legislativa può meglio essere apprezzata collocando in un ordine temporale le varie denominazioni utilizzate per inquadrare i corpi intermedi tra Stato e individuo.
All’alba della codificazione gli enti venivano tradizionalmente identificati con l’espressione enti morali, poi diventata persone giuridiche private, anche se il codice, innovando rispetto al codice unitario, aveva riservato ben tre disposizioni alla figura delle associazioni non riconosciute. Dominava però l’idea e il dogma della persona giuridica: solo alle organizzazioni personificate veniva riconosciuta infatti la qualità di soggetto di diritto, così che le associazioni non riconosciute, pur essendo importanti organizzazioni (è sufficiente pensare ai partiti politici e ai sindacati), costituivano solo una comunione di interessi(4).
Il Codice era dichiaratamente ostile ai corpi intermedi, sottoponendoli a importanti controlli al momento della costituzione e nelle più importanti fasi della loro vita.
Sei anni dopo, la Costituzione parla invece di formazioni sociali ove si svolge la personalità dell’individuo (principio personalista di cui all’art. 2) prescindendo dal possesso o meno della personalità giuridica: all’interno dell’articolato costituzionale era necessario distinguere tra formazioni sociali e formazioni sociali, non potendo tutti i gruppi intermedi tra Stato e individuo godere della garanzia costituzionale. Anche se applicate nei rapporti privati immediatamente, in forza della normale precettività di gran parte delle disposizioni della Carta, era, ed è, chiaro come la forza delle proposizioni costituzionali avrebbe potuto essere meglio utilizzata con la elaborazione di una disciplina diversa.
Successivamente alla stagione delle persone giuridiche private e delle formazioni sociali, negli ultimi vent’anni per qualificare gli enti intermedi tra Stato e individuo compare imperiosamente l’espressione non profit: gli enti, tutti gli enti del libro primo, diventano enti non profit, in contrapposizione agli enti profit del libro quinto(5). L’espressione non profit piace tantissimo agli operatori, e non solo: il punto di riferimento obbligato diventa l’esperienza statunitense con la sua straordinaria, unica presenza degli enti intermedi addirittura risalente ai tempi in cui il giovane Alexis de Tocqueville al momento della scoperta dell’esperienza statunitense rilevava le differenze tra l’organizzazione accentratrice dello Stato napoleonico e le praterie della libertà nordamericana. Si cerca, superando anche alcune difficoltà ermeneutiche, di elaborare una categoria unitaria e omnicomprensiva di enti senza scopo di lucro (non profit appunto), basata sull’obbligatoria non distribuzione di utile (non distribution constraint). Nel frattempo, la nuova attenzione riservata agli enti senza scopo di lucro, chiamati e identificati progressivamente come enti non profit, determina il progressivo allontanamento dalla disciplina codicistica e la contestuale nascita di statuti privilegiati per le più importanti e diffuse figure di organizzazioni senza scopo di lucro: le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, le fondazioni bancarie, gli enti lirici, le fondazioni di partecipazione, le imprese sociali, le cooperative sociali, etc.
Accanto alla disciplina generale del codice, viene quindi sviluppato un vero e proprio «groviglio di leggi speciali»(6), che avevano fatto progressivamente perdere centralità all’intervento legislativo in una spasmodica degenerazione neocorporativa.
Urgeva, quindi, recuperare questa centralità, superando le differenze di disciplina esistenti tra le varie figure di organizzazione collettiva. Ci ha provato la legge delega n. 106 del 2016 che ha creato appunto una nuova categoria di organizzazione collettiva - enti di Terzo settore - idonea a ricomporre quella unità fortemente ridimensionata e attaccata dalla legislazione neocorporativa. La legge delega è stata implementata e l’attenzione sarà rivolta soprattutto sul decreto che ha implementato il Codice del Terzo settore (decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, pubblicato in G.U. il 2 agosto 2017). Quattro le riflessioni principali. Nell’ordine saranno affrontati i temi legati:
a) alla nuova categoria degli enti del Terzo settore anche in relazione ai rapporti con la generale disciplina contenuta nel libro primo del codice civile;
b) alla nuova importanza assunta dal criterio teleologico rispetto alla sua completa evaporazione nelle trame del diritto civile;
c) al momento delle attività di interesse generale che devono essere svolte dall’ente;
d) al momento del controllo.
La definizione del Terzo settore: l’inclusione e l’estensione
Nell’art. 4 del Codice del Terzo settore si prevedono distintamente gli enti che devono essere considerati del Terzo settore, gli enti che non possono proprio diventare enti del Terzo settore e, infine, la disciplina riservata agli enti ecclesiastici.
Vengono definiti enti del Terzo settore dall’art. 4 del codice «le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, ed ogni altro ente costituito in forma di associazione, riconosciuta o non riconosciuta, o di una fondazione per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale».
Quindi, vengono considerati enti del Terzo settore le principali figure di organizzazione senza scopo di lucro già note nelle leggi speciali (organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, cooperative, imprese sociali), aggiungendovi anche figure non oggetto di una previgente disciplina come gli enti filantropici, le società di mutuo soccorso, le reti associative: alcune di queste figure saranno poi più compiutamente disciplinati nell’ambito dello stesso codice.
Insomma, la nuova categoria ricomprende le figure già conosciute dal diritto privato speciale, nonché le associazioni, anche non riconosciute, e le fondazioni di diritto comune quando esse perseguono le finalità caratterizzanti il Terzo settore. Nonostante la delega contenuta nella 106, avente ad oggetto proprio la revisione della disciplina codicistica (art. 3 della 106/2010), il Codice del Terzo settore non ha voluto innovare né apprestare importanti modificazioni al tessuto codicistico. E pur tuttavia, anche le associazioni e le fondazioni già costituite secondo la disciplina codicistica possono essere considerate enti del Terzo settore se le loro finalità siano proprie di quella del Terzo settore, evidentemente dopo l’iscrizione nel Registro degli enti del Terzo settore.
Vengono invece esclusi dalla categoria degli enti del Terzo settore, oltre alle amministrazioni pubbliche, le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche, le associazioni di datori di lavoro, nonché gli enti sottoposti a direzione e coordinamento o controllati dai suddetti enti.
Il Codice del Terzo settore non si applica alle fondazioni bancarie e sicuramente questa qualificazione farà discutere proprio perché sia a livello di elemento teleologico sia di attività concretamente poste in essere, le fondazioni bancarie sembrano poter essere ricondotte alla categoria degli enti del Terzo settore: sicuramente ha pesato in questa esclusione più l’aggettivo (bancarie) che non il sostantivo (fondazioni), retaggio di un pensiero ancora radicato in Italia che vede le fondazioni bancarie ancora appartenenti all’universo bancario e non persone giuridiche di diritto privato che agiscono nei settori rilevanti stabiliti dalla legge Ciampi-Pinza.
Per gli enti ecclesiastici, infine, il Codice del Terzo settore si applica limitatamente allo svolgimento delle attività di interesse generale prese in considerazione da parte dell’art. 5: per tale svolgimento gli enti dovranno dotarsi di un patrimonio separato.
Le finalità
È, in ogni caso, il profilo delle finalità ad assumere un rilievo decisivo e segnare una svolta importante nella storia degli enti intermedi tra Stato ed individuo.
A differenza dell’elemento finalistico su cui era intervenuta la riforma Bassanini (cioè il D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361) che aveva, per le associazioni, le fondazioni e le altre istituzioni di carattere privato, ritenuto sufficiente la necessaria sussistenza di uno scopo lecito e possibile (come se per gli enti, secondo le categorie generali, potesse essere permesso, contrariamente alle regole generali, uno scopo illecito e impossibile), la legge delega e i decreti attuativi impongono la presenza di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, ovviamente senza scopo di lucro. Come è noto, le finalità perseguibili dall’ente erano divenute appannaggio crescente del diritto tributario, quasi che la disciplina degli enti non profit fosse unicamente quella tributaria: erano infatti le categorie e i controlli fiscali a premiare maggiormente un ente che presentasse utilità non individuali. Culmine di questo percorso legislativo era stato rappresentato nel 1997 dall’introduzione delle c.d. Onlus (organizzazioni non lucrative di utilità sociale), spesso erroneamente qualificate come una nuova categoria civilistica. Le Onlus, cui veniva riservata una particolare disciplina tributaria, non esistono quindi più, proprio per la nuova generale disciplina dedicata agli enti del Terzo settore.
Il diritto civile si riappropria in tal modo del criterio delle finalità con un significativo distacco dalle indicazioni di Bassanini nonché dalla via proposta in dottrina volta ad identificare nell’assenza di un lucro soggettivo (il non distribution constraint dell’esperienza nordamericana), la base della categoria degli enti non profit. Lo scopo, lo si ripete espressamente, non deve essere di lucro, ma l’obbligatoria non distribuzione di utili non è più sufficiente da sola a giustificare l’attribuzione dello status di ente del Terzo settore; anche se il Codice del Terzo settore si rivela molto attento ad evitare qualsiasi forma che possa ledere l’obbligatoria non distribuzione di utili, sia nella vita dell’ente sia al momento della sua liquidazione (in particolare il riferimento è al secondo e terzo comma dell’art. 8 ove vengono dettagliatamente indicate le modalità tramite le quali può avverarsi una distribuzione indiretta di utili). Oltre alla non distribuzione di utili, l’ente deve presentare finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. Insomma, con il Codice del Terzo settore non spetta più al diritto tributario accertare il possesso nell’ente delle finalità ritenute necessarie per godere dello statuto privilegiato, proprio della nuova disciplina.
Rispetto alle associazioni, riconosciute e non, alle fondazioni e alle altre istituzioni di carattere privato per le quali è sufficiente una finalità lecita e possibile, gli enti del Terzo settore per godere della normativa di favore devono presentare queste finalità.
Le attività di interesse generale
L’elemento teleologico, che assume una centrale importanza, non è però sufficiente a fondare la categoria degli enti del Terzo settore: esso deve essere affiancato dall’esercizio di attività di interesse generale.
Difficile compito quello di specificare le attività di interesse generale: un criterio di specificazione che operi ex ante rischia fatalmente di diventare incompleto e insufficiente, mentre un criterio che operasse solo ex post rischia di essere fonte di grande incertezza applicativa.
Il legislatore delegato ha preferito introdurre una lunga lista di attività (si contano addirittura ben 26 sottotipi di attività) le cui caratteristiche permettono di qualificare l’ente come di Terzo settore, con due previsioni di salvaguardia: da una parte, l’elenco stesso può essere aggiornato con un successivo decreto; dall’altra, gli enti del Terzo settore possono esercitare anche attività diverse, se l’atto costitutivo e lo statuto lo prevedano e purché le nuove attività siano secondarie e strumentali a quelle di interesse generale.
Il controllo
Il problema centrale degli enti intermedi è, però, sempre costituito dal sistema dei controlli: superate le ostilità napoleoniche che avevano concentrato pesanti e invasivi controlli sull’autorità amministrativa, ci si è domandati nel corso degli anni quale possa essere il controllo preferibile. Ovviamente non si parla del controllo fiscale che ha ad oggetto la corretta osservanza del particolare statuto tributario riservato agli enti del Terzo settore. Il Terzo settore chiede da sempre maggiore libertà d’azione e in alcune sue componenti, quasi a voler confermare la sua eredità storica e il collegamento con i principi generali della sussidiarietà orizzontale e con le espressioni utilizzate nel principio personalistico dell’art. 2 della Costituzione («La Repubblica riconosce e garantisce le formazioni sociale …»), rifiuta quasi a priori qualsiasi idea di controllo.
Il controllo appare invece necessario proprio anche per difendere la specificità degli enti del Terzo settore: se gli enti del Terzo settore godono di uno statuto privilegiato per l’importanza del ruolo dagli stessi svolto è ragionevole e giustificato che essi vengano assoggettati ad una forma di controllo.
Ben consapevole dell’importanza dell’argomento, il legislatore ha elaborato un sistema di controllo costruito essenzialmente su tre basi:
a) una prima forma di controllo viene riservata al notaio per quanto riguarda le associazioni, le fondazioni e gli altri enti candidati a divenire enti del Terzo settore, con il possesso della personalità giuridica. Nella preparazione dello statuto e dell’atto costitutivo il notaio dovrà verificare in primissima battuta il possesso nell’ente di tutte le caratteristiche e i requisiti dell’ente di Terzo settore (finalità, attività e le specifiche regole organizzative previste per i sottotipi di ente del Terzo settore);
b) il secondo e più importante forma di controllo voluto dalla legge delega è rappresentato dall’istituzione del Registro unico nazionale del Terzo settore. L’iscrizione nel Registro è condizione necessaria perché l’ente sia considerato di Terzo settore e, in tal modo, si permette di avere un quadro raffinato e completo delle informazioni relative alla forma giuridica, alla sede legale, all’oggetto delle attività di interesse generale. Attraverso la consultazione del Registro Nazionale del Terzo settore sarà cioè permessa «l’omogenea e piena conoscibilità su tutto il territorio nazionale degli elementi informativi del Registro stesso» (art. 13, primo paragrafo);
c) da ultimo la legge delega ha istituito il Consiglio nazionale del Terzo settore che mira invece a promuovere e sostenere l’attività degli enti del Terzo settore (il titolo VIII del Codice del Terzo settore è intitolato significativamente: Della promozione e del sostegno degli Enti del Terzo settore).
Il Consiglio nazionale esprime pareri non vincolanti sugli schemi di atti normativi che riguardano il Terzo settore (lettera a) del primo paragrafo art. 60); sulle modalità di utilizzo delle risorse finanziarie (lettera b) sempre art. 60) nonché sulle linee guida in materia di bilancio sociale e di valutazione di impatto sociale (lettera c sempre art. 60). Esso inoltre «è coinvolto nelle funzioni di vigilanza, monitoraggio e controllo, con il supporto delle reti associative nazionali» (art. 60, secondo paragrafo codice del Terzo settore).
Alcune conclusioni
Queste sono, in veloce sintesi, le principali caratteristiche del Codice del Terzo settore appena approvato.
L’interrogativo più importante riguarda se la promozione del Terzo settore, voluta fortemente dal legislatore italiano, anche attraverso un complesso sistema di incentivi fiscali, avrà successo. Il sistema delineatore - un cerchio più piccolo di enti del Terzo settore rispetto al cerchio più grande degli enti senza scopo di lucro ma non necessariamente coincidente con gli enti di Terzo settore - chiarisce anche le ragioni per le quali il codice civile non è stato oggetto della revisione pur presa in considerazione dalla legge delega.
L’intenzione del legislatore è necessariamente/coincidente con essi evidente: con gli incentivi forniti, il cerchio più piccolo è destinato a crescere sempre di più, occupando spazi più consistenti. Bisogna sempre ricordarsi, però, della grande eterogeneità degli enti intermedi e della loro irriducibilità ad una categoria unitaria (il legislatore ben sapeva che era necessario un intervento che ristabilisse ordine e certezza, in un quadro di grande frammentazione normativa). Questo è stato fatto. La speranza è che la legge possa porre le premesse per una crescita ulteriore di questo importante settore.
(*) Queste pagine riproducono, con l’ausilio di note essenziali, la relazione tenuta a Roma il 22 giugno presso la LUISS, nell’incontro di studio organizzato dalla Fondazione Italiana del Volontariato su “ La riforma del c.d. Terzo settore”.
(1) La bibliografia sui due fallimenti è sterminata: sul fallimento dello Stato Cfr. B.A. WEISBROD, Toward a theory of the voluntary non profit sector in a three sector economy, in Altruism, morality and economic theory, a cura di E.S. Phelps, New York, 1975, p. 171 e ss.; per il fallimento del mercato la citazione obbligata è per H. HANSMANN, «The role of nonprofit entities», in Yale law journal, 1980, p. 835.
(2) Una buona analisi degli enti del Terzo settore e delle razionalità economiche che ne sono il fondamento è in M. STALTERI, Enti non profit e tutela della fiducia. Esperienza inglese e prospettive della riforma italiana, Torino, 2002.
(3) Sul privato sociale la citazione obbligata è per P. DONATI (a cura di), Rapporto sulla società civile in Italia, Milano, 1997 e i tanti saggi di S. ZAMAGNI (tra i quali L’economia delle relazioni umane, in P.L. SACCO - S.ZAMAGNI, Complessità relazionale e comportamento economico. Materiali per un nuovo paradigma di razionalità, Bologna, 2002).
(4) Sul punto i riferimenti sono agli autori che con maggiore profondità hanno scandagliato il problema degli enti intermedi: da una parte F. GALGANO, Delle Associazioni non riconosciute e dei Comitati, sub artt. 36-42, in Commentario al codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1969, e ID., Delle Associazioni e delle Fondazioni, sub artt. 11-35, in Commentario al codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1975; dall’altra P. RESCIGNO, Persona e Comunità. Saggi di diritto privato, Padova, 1987.
(5) Per una prima indagine, Cfr. G. PONZANELLI, Le non profit organizations, Milano, 1985; ID. (a cura di), Gli enti “non profit” in Italia, Padova, 1994; ID., Gli enti collettivi senza scopo di lucro, Torino, 2000, 2 ed.
(6) L’espressione è di M.V. DE GIORGI, «Il nuovo diritto degli enti senza scopo di lucro: dalla povertà delle forme civilistiche al groviglio delle leggi speciali», in Riv. dir. civ., 1999, p. 291 e ss.
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