Impresa sociale e valori di impresa
Impresa sociale e valori di impresa
di Giorgio Meo
Ordinario di Diritto commerciale, Università LUISS Guido Carli

Una riflessione sul rapporto tra impresa sociale e “valori” d’impresa postula che ci s’intenda preliminarmente sull’accezione che si ritiene di dare a un’espressione polisensa come “valori”.
Dico subito che non mi riferirò al termine “valori” come a quel complesso di interessi, aspirazioni, obiettivi che dall’esterno una data comunità - dalla più ristretta locale alla comunità globale che prescinde dai confini giuridici degli ordinamenti - preme affinché vengano considerati, rispettati e, almeno in parte, supportati e perseguiti dagli operatori economici definiti come “imprese”.
In quest’accezione, il termine non ha alcuna valenza giuridica, semmai etica, religiosa, antropologica, sociologica.
È, comunque, un dato “pre-giuridico”, non filtrato, cioè, da norme di diritto (non necessariamente nazionali, né necessariamente scritte) che impongono all’operatore-impresa il perseguimento di quegli interessi e di quegli obiettivi.
Né quegli interessi e quegli obiettivi sono individuati, sempre dalla norma giuridica, come elementi identificativi, cioè qualificativo-tipologici, dei tratti richiesti per ammettere l’operatore alla disciplina propria dell’impresa.
Né vincoli di azione, dunque, né elementi della fattispecie.
L’ampiezza del perimetro dei “valori” intesi nel senso sopra detto è variabile, come ne è variabile l’area, a seconda dei fondamenti storici, sociali, economici, morali, tradizionali della comunità che, volta per volta, esercita la pressione perché i propri valori siano riconosciuti e attuati.
In un certo senso, i “valori” così intesi qualificano essi stessi la comunità esponenziale, aggregando in modo multiforme i membri delle più ampie comunità locali, nazionali e globali. Non tutti coloro che sono pronti a difendere l’ambiente sono altrettanto sensibili all’accoglienza agli immigrati. Non è detto che la vocazione di difesa alla vita alla base di un movimento animalista si traduca, per ciò stesso, in una pari vocazione in tema di difesa della vita del nascituro umano. La dichiarata aspirazione alla difesa del lavoro non assicura che la stessa comunità esponenziale si batterebbe in termini uguali per difendere l’accesso al lavoro in favore degli estranei alla cerchia degli occupati che rivendicano migliori condizioni per sé.
Il diritto non insegue le concezioni soggettive. Nella sua continua opera di filtraggio delle istanze della società civile ed economica, seleziona interessi, finalità e obiettivi e li traduce in norma (positiva, giurisprudenziale o consuetudinaria). È in questa specifica accezione, propriamente giuridica, che intendo riferirmi ai “valori d’impresa” nel porre il problema del se, ed eventualmente del come, l’ingresso nell’ordinamento italiano di una disciplina dedicata all’impresa sociale abbia modificato l’assetto degli interessi e delle finalità giuridicamente rilevanti in materia di impresa.
Anche così specificato, il problema definitorio non è ancora risolto.
In senso giuridico, infatti, “valori” sono senz’altro gli obiettivi e le finalità che la norma impone ovvero lascia autonomamente dispiegarsi nel libero agire degli individui e delle strutture in cui essi si associano per agire in comune. Da questo punto di vista, il tema si specifica in una duplice direzione:
- la direzione dei vincoli che l’ordinamento pone alla libertà dell’individuo o dello specifico gruppo di individui di dare a se stessi obiettivi e finalità (“valori”) al cui perseguimento è tesa tutta l’energia organizzativa e di azione: appartiene a questa sfera l’area dei vincoli di legalità, quella degli obblighi di corretta competizione, quella degli standard di rispetto imposti alle diverse sfere coinvolte dall’azione dell’impresa (limiti alle emissioni ambientali; sicurezza sul lavoro; pari opportunità), nonché, in senso ampio, quello della fiscalità;
- la direzione degli obiettivi ulteriori a quelli individuali che il diritto impone dall’esterno, come oggetto di un dovere giuridico, ora in termini assoluti (cfr. art. 41, comma 3, Cost.: la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica, anche privata, possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali), ora in funzione dell’ammissione a un certo mercato o a un certo trattamento (ad es.: vincolo a bonificare l’area ove insediarsi; vincolo ad assumere lavoratori svantaggiati o disabili, vincolo a supportare programmi di sviluppo locale-territoriale e di istruzione, ecc.: impossibile sarebbe, qui, tentarne anche solo un’elencazione per sommi capi attingendo alle disposizioni normative internazionali, europee, nazionali, locali).
Il discorso, da questo punto di vista, sarebbe fondamentalmente esegetico. Si tratterebbe, cioè, di capire quali “valori” - diversi e ulteriori rispetto a quelli individuali - abbiano acquisito, in uno dei due sensi sopra detti, dignità e portata giuridica tanto da imporsi all’impresa o come regola di comportamento su cui misurare la legittimità della sua azione o, addirittura, come requisito di cui dotarsi per poter essere riconosciuta come impresa o per poter operare come tale in un dato contesto.
Ma vi è un secondo, e più pregnante, significato che, sul piano giuridico, è possibile attribuire all’espressione “valori d’impresa”.
Mi riferisco al riconoscimento, e quindi alla protezione, che il diritto dà ai “valori” individuali, cioè a quegli interessi, obiettivi e finalità che muovono l’operatore economico all’azione. E all’adattamento che l’ordinamento è in grado di esprimere al compendio di valori, mutevole e mutante, che modifica cioè modalità e contenuti dell’azione dell’operatore economico in funzione di valutazioni sintetiche tra i diversi “valori” di cui si rende portatore per sé nel breve, medio e lungo termine.
In questa diversa accezione il significato giuridico dell’espressione “valori d’impresa” muove dall’interno. È l’impresa a richiedere il riconoscimento e la tutela di obiettivi, interessi e finalità cui intende volgere la propria azione.
Il lavoro dell’interprete è, in questo caso, molto più complesso. Gli si richiede, prima, di cogliere nell’evoluzione della realtà socio-economica, ormai globale, l’emersione di valori di azione non tradizionali, spesso incerti nella loro affermazione, spesso velati, nella loro esatta comprensione, da una lunga e felice abitudine alla prevalenza storica di valori tradizionali. E gli si richiede di effettuare questa analisi avendo riguardo non a un generico set di istanze statisticamente rilevabili all’interno di più o meno ampi comparti bensì alle dinamiche del mercato globale, dal quale nuove istanze, nuove finalità, e dunque nuovi vincoli di azione, possono porsi per l’impresa che intenda operarvi.
Preso atto dei nuovi “valori”, o per meglio dire dell’originale compendio che, in funzione di quanto sopra, si instaura nelle valutazioni alla base delle decisioni d’impresa, all’interprete si richiede di misurare se la disciplina vigente e la risposta giurisprudenziale, formatesi in un contesto in cui la morfologia di quel compendio di valori era diversa, siano ancora attuali e abbiano la potenzialità di un’interpretazione evolutiva capace di assicurare la protezione richiesta nella nuova e originale accezione. O se il diritto sia rimasto irrimediabilmente indietro e si imponga ad esso stesso un aggiornamento al fine di cogliere la mutata realtà.
Non possono esservi dubbi che è questa seconda accezione giuridica dell’espressione “valori d’impresa” quella che apre le prospettive di analisi più stimolanti in quanto rivolte a quella superficie su cui le forze storiche e sociali esercitano pressioni tettoniche inverosimili sui sistemi dati, e li costringono ad evolvere.
È però proprio in questa prospettiva che la disciplina dell’impresa sociale introdotta per la prima volta in Italia con il D.lgs. 24 marzo 2006, n. 155, attuativo della legge di delega 13 giugno 2005, n. 118, e la sua imminente riforma, se sarà approvato in via definitiva nel testo attualmente disponibile il decreto attuativo della nuova legge di delega 6 giugno 2016, n. 106 (in particolare art. 1, comma 2, lett. c), appaiono prive di significatività.
Intanto, la figura dell’ “impresa sociale” si muove integralmente all’interno della fattispecie di “impresa” tradizionalmente intesa ai sensi dell’art. 2082, c.c. La recessione dello scopo lucrativo in favore del principio di economicità (anche nella sua declinazione mutualistica) rappresenta un dato acquisito da decenni nella teoria giuridica dell’impresa. L’irrilevanza della finalità lucrativa nella qualificazione tipologica dell’imprenditore ai fini della disciplina generale esclude che possa ascriversi qualsivoglia carattere di specificità, a questo fine, all’art. 1, comma 1 e all’art. 3 del progetto di “nuovo” decreto legislativo (e già l’art. 3 del D.lgs. n. 155/2006) nella parte in cui escludono che l’impresa possa qualificarsi come “sociale” se persegue uno scopo lucrativo.
Coerentemente, sia l’art. 1 del vigente D.lgs. n. 155/2006, sia il corrispondente art. 1 del futuro decreto “nuovo”, postulano che l’ “impresa sociale” sia, appunto, un’ “impresa” ai sensi dell’art. 2082, c.c. e non ne offrono una qualificazione tipologicamente autonoma.
Il “vecchio” art. 1 riecheggia la formulazione stessa della norma definitoria della fattispecie generale, riferendosi all’impresa sociale come alla qualifica che può essere acquisita da tutte le organizzazioni private «che esercitano in via stabile e principale» (“professionalmente”, direbbe l’art. 2082, c.c.) «... un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi ...» (espressione identica a quella dell’art. 2082, c.c.) «... di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale ...». La specificità riguarda dunque, testualmente, il contenuto e la finalità dello scambio di beni o servizi, vale a dire l’utilità sociale nell’interesse generale, che rende “sociale” l’attività economica organizzata, cioè “l’impresa”.
Il “nuovo” art. 1, nell’apparente diversa formulazione, replica lo stesso impianto, definendo “impresa sociale” come la qualifica che possono acquisire tutte le organizzazioni private «che ... esercitano in via stabile e principale un’attività d’impresa ...» (espressione normativa che si riempie di contenuto in funzione della disciplina applicabile, dunque tramite l’art. 2082, c.c., ai fini della disciplina civilistica nazionale, tramite le disposizioni qualificative della fattispecie volta per volta applicabili, ai fini delle discipline speciali, nonché tramite quelle europee, ai fini dell’applicazione della relativa disciplina). Ciò che qualifica l’attività d’impresa, nel “nuovo” art. 1, è che essa sia «di interesse generale» (nel senso determinato dall’art. 2 dello stesso decreto) e che sia condotta, senza finalità di lucro, per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, adottando modalità di gestione responsabili e trasparenti e favorendo il più ampio coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e di altri soggetti interessati alle loro attività.
Ancora una volta, non si tratta di “valori” esterni imposti all’impresa, né di “valori” evoluti dell’impresa in generale. Più limitatamente, vengono identificati alcuni profili specifici, di forte venatura sociale, sia nelle finalità sia nelle modalità organizzative, in presenza dei quali l’attività d’impresa può fregiarsi dell’attributo “sociale” alle finalità della disciplina speciale (finalità essenzialmente agevolative, più di quanto non siano nell’impostazione del D.lgs. n. 155/2006).
Per converso, la norma in tema di nozione e qualifica di impresa sociale ha una diretta efficacia interpretativa su alcuni profili rilevanti della qualificazione dell’imprenditore in generale. Ciò in più sensi.
In un primo senso, in quanto - allineandosi alla concezione europea e alla prassi applicativa della Corte di giustizia - esclude qualunque rilievo soggettivo nella qualifica dell’ “impresa”: è, questa, una qualifica che può competere a «tutte le organizzazioni private, incluse quelle costituite nelle forme di cui al libro V del codice civile». Il ponte tra I e V libro è definitivamente gettato in nome dell’attività in concreto esercitata. Anche gli enti del I libro, qualunque ne sia la forma, possono esercitare l’impresa e, per questo, anche un’impresa sociale, ricorrendone in concreto i caratteri.
In un secondo senso, la norma chiarisce in via definitiva l’irrilevanza, ai fini della qualificazione in termini di impresa (oltre che dello scopo di lucro) del perseguimento di finalità sociali (nell’evoluta accezione, più ampia rispetto al vigente art. 1, D.lgs. n. 155/2006, che affianca l’utilità sociale anche le finalità “civiche” e “solidaristiche”: la scelta tradisce una concezione che non ravvede la “naturale” appartenenza delle finalità civiche e solidaristiche all’utilità sociale, con una lettura criticabile dei fenomeni sociali e storici in atto).
Anche da questo punto di vista, la disposizione si colloca sulla lunghezza d’onda della concezione europea (D. Russo), come applicata dalla Corte di giustizia, la quale ha escluso qualunque rilevanza alla natura del servizio prestato - salvo il caso dell’assoluta predominanza delle finalità solidaristiche (caso Poncet et Pistre, sentenza 17 febbraio 1993, C-159/91 e C-160/91; caso Inail, sentenza 22 gennaio 2002, C-218/00) - ritenendo compatibile con la qualifica di impresa, e quindi soggetto alla disciplina a tutela della concorrenza, anche l’esercizio di servizi sociali (caso Ambulanz, sentenza 25 ottobre 2001, C-475/99; caso Commissione c. Italia, sentenza 29 novembre 2007, C-119/06) e previdenziali (caso Pavlov, sentenza 12 settembre 2000, C-180/98 e C-184/98; caso Albany International, sentenza 21 settembre 1999, C-67/96).
In un ulteriore senso, la norma sancisce l’irrilevanza, ai fini della qualificazione della fattispecie di impresa in generale, delle particolari modalità organizzative di cui l’impresa è libera di dotarsi, anche quando fortemente spinte sul lato dell’inclusione sociale, nella sua più lata accezione connessa (non senza enfasi retoriche) con il richiamo alla «gestione responsabile e trasparente» e al «più ampio coinvolgimento» dei lavoratori, degli utenti e degli altri interessati all’attività dell’impresa.
Anche tali profili non alterano i caratteri tipologici dell’impresa, non rappresentano, cioè, “valori” qualificativi dell’impresa in generale, alla quale basta la sussistenza - generica e neutra - del requisito dell’organizzazione, senza altre colorazioni, per integrare la fattispecie di legge ex art. 2082, c.c.
Per altro verso - e coerentemente con la scelta di impianto sopra indicata - né il vigente D.lgs. n. 155/2006 né il futuro “nuovo” decreto hanno quale obiettivo diretto o indiretto quello di accogliere un’evoluzione storica in atto del ruolo dell’impresa nel contesto contemporaneo globale e tanto meno quello di forzare (o anche solo spingere dolcemente) l’impresa verso l’accoglimento, all’interno dei propri obiettivi e finalità private, di istanze sociali prementi dall’esterno a causa dei fenomeni storici e sociali in atto.
La disciplina fa perno, innanzitutto, su un principio di facoltatività: le imprese aventi i requisiti specifici previsti nel decreto “possono” essere qualificate come “imprese sociali”. Possono, se lo vogliono (V. Buonocore); non “lo sono” in quanto rispondenti, in concreto, a caratteri qualificativi predeterminati dalla norma. Il che costituisce un’ulteriore indiretta conferma dell’impossibilità di attribuire alla disciplina in oggetto l’intento, e l’efficacia, di istituire una specifica fattispecie, quella appunto di “impresa sociale”, che in funzione delle specifiche finalità e dei caratteri sociali sia da considerare autonoma rispetto all’impresa in generale o ad altra fattispecie di enti del Terzo settore. L’impresa sociale è, e resta, “impresa” a tutti gli effetti, con tutte le conseguenze che ciò comporta se e fino a quando espresse disposizioni legislative la sottraggano all’applicazione di una o altra disposizione altrimenti valevole in via generale.
Soprattutto, è lo stesso contenuto del decreto (sia di quello vigente che di quello futuro) a confermare che esula dal legislatore qualunque altro intento che quello di arginare le contaminazioni lucrative ai fenomeni di imprenditorialità sociale (secondo una concezione non priva di ambiguità, come si vedrà appresso) - attraverso la disciplina della destinazione dei risultati (art. 3; art. 12), dell’esclusione del controllo e dell’esercizio di direzione e coordinamento da parte di enti lucrativi (art. 4), riflesso anche nell’esclusione degli esponenti di questi dalle cariche sociali nell’impresa sociale (art. 7) - di confinare il fenomeno strettamente nell’area dell’attività privata escludendone le pubbliche amministrazioni (art. 1, comma 2; art. 4, comma 3), di accrescerne la trasparenza e l’accountability anche in termini di impatto sociale (art. 6; art. 9) nonché il controllo (art. 10), di istituzionalizzare le regole minime di coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e degli altri soggetti direttamente interessati (art. 11), di porre regole specifiche in materia concorsuale (art. 14), di istituire funzioni pubbliche di monitoraggio, ricerca e controllo (art. 15), nonché il Fondo per la promozione e lo sviluppo (art. 16), il tutto in un contesto di sostegno fiscale ed economico (art. 18).
Si è in presenza, quindi, di un regime speciale da monitorare e incoraggiare in funzione dei valori sociali di cui è portatore. L’impresa può far propri quei valori, non lo deve. L’impresa è concepita come il luogo in cui quei valori possono trovare attuazione, in vista del che vengono poste le speciali regole di impianto e agevolazione.
Ciò non toglie che l’impianto sia, e resti, fondato sul principio di occasionalità che l’impresa si renda portatrice di quei valori, il che nega a priori che il decreto legislativo abbia inteso esercitare alcun ruolo sulla ridefinizione, viceversa, dei valori caratterizzanti l’impresa nel contesto storico e sociale attuale. Non deve tuttavia sottovalutarsi l’importanza, e la portata, dell’evoluzione comunque segnata dalla disciplina dell’impresa sociale. Sarebbe ingiusto, infatti, dopo averle negato la capacità di incidere, di per sé, sui valori fondanti l’impresa in senso giuridico nell’attuale contesto normativo, non rinvenire in essa i chiari segnali di un’evoluzione in corso rispetto alle concezioni economicistiche tradizionali. Già il solo fatto che, come detto, l’impresa viene configurata dal decreto come il possibile veicolo di valori sociali tradizionalmente assenti dalla riflessione giuridica che l’ha riguardata; e ancor di più il fatto che ciò sia stato ritenuto applicabile non soltanto quando ad esercitare l’impresa siano gli enti del I libro ma anche quelli del V libro del codice civile, cioè le società - lucrative, consortili e mutualistiche - testimoniano che nell’aggiornata concezione legislativa l’impresa, quale organizzazione di umani capace di finalità coincidenti con il perimetro illimitato delle finalità, appunto, degli umani, è riguardata come uno strumento meritevole di tutela nella realizzazione di dette finalità.
Già questo rappresenta un ribaltamento radicale della concezione dell’impresa come organizzazione volta al mero profitto (o, nella sua versione ridotta, all’equilibrio economico inteso in senso strettamente quantitativo) e apre alla concezione giuridica dell’impresa come strumento - caratterizzato dal vincolo di economicità - per la realizzazione di qualunque fine, ivi incluso quello meramente solidaristico, sociale e civico.
Assicurata, in altri termini, la condizione di autosufficienza economica, l’impresa si rivela oggi riguardata come veicolo, in sé neutro, di finalità che si pongono agli estremi opposti del segmento delle finalità umane, dall’estremo dell’egoismo lucrativistico soggettivo fino a quello dell’azione integralmente “altruistica” diretta alla realizzazione di scopi solidaristici, previdenziali, sussidiari, assistenziali, e così via.
La portata della disciplina sull’impresa sociale, se non direttamente costruttiva di valori di impresa autonomi e nuovi, o per lo meno interagenti tra sé in modo nuovo, rivela dunque - non senza meriti - di aver attribuito centralità giuridica a un unico “valore”, quello della economicità, togliendo però ad esso la portata finalistica (propria della visione economicistico-produttivistica su cui riposava, senza differenze ontologiche, la stessa concezione dello scopo di lucro) e trasformandola in una portata strumentale alla realizzazione delle più diverse finalità.
È ragionevole porre il dubbio - che non è possibile sciogliere in questa sede - se non consista proprio in ciò il fondamento giuridico del superamento degli steccati tra enti del libro I e enti del libro V, oggi accomunati nella possibilità di dar vita a imprese sociali proprio in quanto capaci tutti di organizzare secondo economicità il raggiungimento dei rispettivi fini istituzionali, a qualunque punto del segmento egoistico-altruistico essi si collochino. La rivelazione della funzione strumentale del principio di economicità, di cui costituisce il portato immediato quella della funzione strumentale della stessa impresa, elimina qualunque remora, sul piano sistematico, a distinguere fattispecie ormai accomunate dall’identico possibile concorso dell’organizzazione, economicamente determinata, alla realizzazione di qualunque fine.
È già questo, si ripete, un risultato rilevante, se pur non integralmente dirompente, che pone le basi - una volta riposizionato il “valore” dell’economicità da fine a strumento dell’azione di impresa - per nuove concezioni dell’impresa che possono affacciarsi (e che anzi hanno già cominciato ad affacciarsi) alla luce della modificazione in atto delle dinamiche economiche e sociali nel contesto globalizzato. La mantenuta centralità, sul piano giuridico, del “valore” fondante dell’economicità, pur nel mutato suo ruolo da fine a strumento dell’azione in sostanziale illimitatezza dei fini, lascia inalterato l’assetto delle regole disciplinanti l’azione dell’impresa sul mercato, fondato sul principio di autonomia (art. 41, comma 1, Cost.) e concorrenza (art. 101 e ss., Tfue).
Il riconoscimento della concorrenza fra imprese come “valore”, cioè bene giuridicamente rilevante meritevole di tutela, conserva, in questo contesto, il ruolo centrale che ne fa il cardine giuridico dei rapporti di mercato nel contesto europeo e nazionale.
La più matura riflessione giuridica sul “bene” - (o “valore” -)concorrenza ha chiarito in modo esaustivo e convincente come la concorrenza vada riguardata non come fine in sé (o valore finale) bensì come strumento, bisognoso come tale di apposita regolazione attesa la sua non attitudine a prevenire, da solo, accordi e prassi limitativi, nonché per l’incapacità dell’azione imprenditoriale - e quindi anche di quella competitiva - ad assicurare la soddisfazione di ogni possibile bisogno dei membri della collettività.
È ragionevole attendersi che il modificato ruolo del valore dell’economicità, da fine a strumento dell’azione imprenditoriale, possa condurre a sua volta a nuove concezioni del valore della concorrenza, già in sé riconosciuto come valore-mezzo, a causa del venir meno del postulato secondo cui - combattute le prassi anticoncorrenziali e supplitosi, con l’intervento dello Stato, alla copertura dei bisogni non idoneamente soddisfatti dal solo libero dispiegarsi dell’attività economica - il corretto processo concorrenziale sia di per sé atto a soddisfare nel modo ritenuto giuridicamente e socialmente migliore i presupposti per una libera azione economica dell’impresa del mercato.
Se è vero, infatti, che l’economicità - intesa quale obiettivo dell’impresa a realizzare sul mercato le condizioni della propria permanenza su di esso, obiettivo che, nel suo stesso porsi, deve ammettere che sul mercato l’impresa registri invece diseconomicità che finiscano per espellerla da esso - postula lo svolgimento di un libero e legittimo gioco concorrenziale; e se è vero che la concorrenza rappresenta il valore-mezzo volto ad assicurare che il mercato segni le sorti dell’impresa; gioco forza occorre trarne l’implicazione che l’azione competitiva sul mercato diventa lo strumento (per così dire di secondo grado) per la realizzazione o per la frustrazione delle finalità d’impresa, rispetto a cui l’economicità è a sua volta un mero valore-mezzo.
La teoria giuridica della concorrenza è dunque destinata ad arricchirsi di nuove implicazioni finora rimaste estranee alla sua sfera e che acquisiscono invece oggi autonoma rilevanza giuridica: le finalità dell’impresa, riconosciute ormai tutte come ammissibili e quindi tutte meritevoli di tutela, se filtrate dall’economicità dell’impresa possono essere messe a repentaglio da un’azione concorrenziale di attori che hanno in comune soltanto il valore-mezzo dell’economicità, non anche il valore-fine costituente il
fondamento dell’azione economica dell’impresa.
Deve chiedercisi allora, a questo riguardo, se la concezione tradizionale (tutto sommato mercantilistica, o almeno aziendalistica) della concorrenza, su cui si fonda l’impostazione delle norme del Tfue e l’orientamento monolitico della giurisprudenza europea, sia ancora idonea a fungere da strumento che meglio di ogni altro assicura il legittimo gioco competitivo, una volta superata la prospettiva della competizione sul valore-mezzo (economicità) verso quella della competizione in funzione dei valori finali.
Il tema, è evidente, richiederebbe un’analisi (e, in definitiva, una visione di sintesi) che trascende il breve spazio di questo intervento.
Sembra, tuttavia, giustificato svolgere, al riguardo, tre considerazioni preliminari, che possono forse contribuire a sviluppare la riflessione futura.
La prima.
Il tema non avrebbe forse ragione di porsi se, pur diverse tra loro, le finalità ultime rese accessibili dalla gestione economica di ciascuna delle imprese concorrenti avessero pari rango sul piano giuridico. In questo caso, la condizione di neutralità delle finalità concrete sarebbe assicurata dall’inesistenza di una preferenza dell’orientamento per una piuttosto che per un’altra.
Di ciò sembra però legittimo dubitare, se si ha riguardo, a livello europeo, all’art. 3 Tue, ove si attribuisce valore fondamentale non alla generica competizione di mercato, bensì a «un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale», nonché a «un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente», in un contesto in cui l’Unione «combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore», nonché, «promuove la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri».
Sembra netta la scelta per una gerarchia di valori sociali fondanti, che pone quanto meno il problema se pari gerarchia debba tradursi in quella tra le finalità d’impresa astrattamente compatibili con il principio di economicità, ciò costituendo l’antecedente logico circa il ruolo da assegnare, a questo riguardo, alla selezione competitiva.
Ma non diversi dubbi sorgono anche avuto riguardo allo specifico contesto italiano, nel quale vige uno (per lo più dimenticato) “Statuto delle imprese” (legge 11 novembre 2011, n. 180), i cui principi «costituiscono norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica e principi dell’ordinamento giuridico dello Stato» (art. 1, comma 2), mirante, fra l’altro, «a promuovere l’inclusione delle problematiche sociali e delle tematiche ambientali nello svolgimento delle attività delle imprese e nei loro rapporti con le parti sociali» (art. 1, comma 5, lett. d). Tra i «principi generali» (art. 2) la legge fissa quello del «riconoscimento e la valorizzazione degli statuti delle imprese ispirati a principi di legalità, solidarietà e socialità» (comma 1, lett. p), con la conseguenza che, prima di trasporre nel nuovo contesto la tradizionale concezione del valore concorrenziale, occorrerà valutare se e in che misura ne siano richiesti adattamenti o integrazioni alla luce di una asimmetria dei valori finali posta dalla legge, addirittura qualificando ciò, enfaticamente e con una vena di retorica, «principio dell’ordinamento giuridico» e «norma fondamentale di riforma economico-sociale della Repubblica». La seconda riflessione.
Dando per assodato di aver trovato il correttivo per la ponderazione, nel gioco concorrenziale, dei diversi ranghi di valori d’impresa normativamente rilevanti, l’applicazione, secondo i canoni consueti, della regola concorrenziale postula che anche all’interno dell’area dei valori per così dire di pari rango non vi siano incertezze quanto al perimetro e alla qualificazione di quelli da considerarvi ricompresi. Il che è forse possibile avendo riguardo a un contesto chiuso, come quello di tipo nazionale, nel quale è la legge a fissare le graduazioni eventualmente volute e spetta all’interprete ordinare e razionalizzare il materiale normativo. Il problema si pone invece in tutta la sua complessità quando alla definizione dei ranghi e della relativa estensione concorrono fonti diverse (ad esempio europee e nazionali) ovvero quando l’impresa nazionale, forte in patria del rango riconosciuto alle proprie finalità, operi in concorrenza su mercati nazionali diversi in cui la corrispondente legislazione non riconosce alle sue finalità pari rango o addirittura specialità alcuna nella ponderazione del gioco competitivo.
A questo riguardo non giova, del resto, un impianto tutto sommato ellittico, nelle sue definizioni fondamentali, come quello che si desume dal progetto di decreto legislativo di prossima emanazione. La tecnica legislativa, al riguardo, appare difforme rispetto a quella utilizzata dal “vecchio” D.lgs. n. 155/2006. Quest’ultimo, come noto, circoscrive l’impresa sociale dal punto di vista dell’oggetto, individuandone l’elemento qualificativo nel riguardare «beni o servizi di utilità sociale», e facendo dell’«interesse generale» la finalità cui l’impresa sociale volge l’attività di produzione e scambio dei suddetti beni (art. 1, comma 1). All’art. 2 viene data la definizione di quali siano i beni e servizi da qualificare come «di utilità sociale» (11 categorie prequalificate dalla legge, con possibilità di successiva integrazione ministeriale).
Il “nuovo” decreto ribalta l’impostazione. L’essere «di interesse generale» è riferito direttamente «all’attività di impresa» (e non alle sue finalità). Le finalità dell’impresa, affinché questa sia qualificabile come «sociale», sono indicate nell’«utilità sociale» (che nel “vecchio” decreto è invece il carattere dei beni e dei servizi scambiati), cui si affiancano, con pari rango, le «finalità civiche» e quelle «solidaristiche» (art. 1, comma 1). Viene quindi offerto un elenco, tipizzato ex lege e integrabile in sede ministeriale, non più di ciò che deve intendersi per «utilità sociale» bensì delle «attività di impresa di interesse generale» (art. 2), elenco che desta non poche perplessità, essendone assenti attività il cui interesse generale, in concreto, è fuori discussione (come i servizi di protezione civile, quelli di tutela del territorio, il salvataggio degli immigrati in mare, la mobilità urbana: si ha la sensazione di un legislatore ancora in parte lontano dai bisogni dei cittadini).
Le «finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale» non sono peraltro definite dal decreto, il quale contiene un rinvio per relationem (art. 2, comma 2) alla loro indicazione offerta nella legge delega (art. 1, comma 1, legge n. 106/2016). Ma quest’ultima, lungi dall’offrirne una puntuale specificazione, utilizza un’espressione generica («Al fine di sostenere l’autonoma iniziativa dei cittadini che concorrono … a perseguire il bene comune, ad elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l’inclusione e il pieno sviluppo della persona, a valorizzare il potenziale di crescita e di occupazione lavorativa … il Governo è delegato ecc.». La norma prosegue definendo il “Terzo settore” come «il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale…»). Manca, quindi, una definizione specifica di cosa si debba intendere con tale espressione.
Appare dunque chiaro come l’impianto teorico della nuova disciplina, che ha inteso in modo inequivoco conformare l’impresa al criterio di economicità aprendolo al perseguimento di ogni tipo di finalità, sia del tutto carente proprio al momento di definire le finalità rilevanti sul piano tipologico per contraddistinguere l’impresa sociale, il che costituisce un problema insuperabile nell’aggiornamento - inevitabile sul piano teorico - della concezione della concorrenza rilevante ai fini di una corretta ed equilibrata regolamentazione dell’azione di mercato di imprese le cui finalità ultime acquisiscano, anche a questi fini, giuridica rilevanza.
L’ultima considerazione.
Essa riguarda il se, ed in tal caso il come, gli elementi qualificativi propri dell’impresa possano o debbano fare ingresso all’interno della ponderazione dell’azione concorrenziale al fine della soddisfazione del corretto canone competitivo.
Si intende porre, cioè, il problema se il tradizionale giudizio di correttezza nell’azione concorrenziale, misurata sulla distorsione, in favore del competitore scorretto, del rapporto con il mercato conducente all’appropriazione di utilità altrimenti inaccessibili perché destinate ad allocarsi presso altri concorrenti corretti, non debba essere integralmente rivisto inserendo nella formula allocativa anche le utilità diverse da quelle economiche. Ciò sotto un duplice profilo:
- quello delle utilità appropriabili in modo scorretto, allargando cioè il giudizio all’effetto distorsivo causato dalla scorrettezza competitiva sull’intera gamma delle finalità imprenditoriali e non solo sul bene-mezzo dell’economicità;
- quello della ponderazione delle specifiche finalità perseguite dall’impresa (civiche, solidaristiche e sociali) al momento della valutazione di correttezza dei comportamenti dell’impresa rispetto alle condotte dei competitors ispirati da ordinarie logiche profit.
Entrambi i profili saranno terreno di sperimentazione e di adozione di nuove logiche di misurazione, in cui i contenuti economici dovranno essere arricchiti da sistemi metrici in grado di ponderare il valore sociale, o benessere, su una traiettoria aperta, alla fine dello scorso decennio, dalla Commissione Stigliz- Sen-Fitoussi insediata da Nicholas Sarkozy in Francia (2008) avente il compito della “Misurazione della perfomance economica e del progresso sociale”, sulla quale si sono successivamente mossi i principali Paesi industriali e lo stesso Oecd con l’obiettivo di individuare indicatori globalmente più soddisfacenti del Pil al fine di misurare la performance complessiva di un Paese. Ciò ha dato nuovo impulso agli studi su indicatori ad elevata componente sociale, come il “Vas” (o valore aggiunto sociale), aspiranti a compensare, al proprio interno, le deficienze degli indicatori tipicamente economici con le performance sociali dell’impresa (non limitatamente agli enti del “Terzo settore”, peraltro, ma anche all’interno del tradizionale settore della competizione fra imprese lucrative sotto il profilo della Corporate Social Responsibility) (su questi temi, ampiamente, V. Federico - D. Russo - E. Testi).
L’ultima considerazione svolta richiede, tuttavia, una precisazione.
Ipotizzare che il giudizio sulla correttezza competitiva slitti, almeno in parte, dall’ordinario terreno delle grandezze economiche a uno in cui queste siano rapportate a valori sociali idoneamente misurabili postulerebbe comunque che ai “valori” diversi da quello dell’economicità sia stato previamente riconosciuto un ruolo giuridico almeno di pari grado rispetto a quest’ultimo, nel senso di legittimare, sul piano giuridico, un’azione imprenditoriale in cui la composizione tra economicità e valori “altri” possa avvenire nei modi più diversi, fino al limite in cui una forte esposizione (e un’efficace performance) in termini di conseguimento di valori “altri” (come quelli sociali) possa compensare inefficienze economiche in sé considerate.
È, tuttavia, proprio questo ciò che la disciplina sull’impresa sociale esclude.
Essa, infatti, come detto, fa del vincolo di economicità il perno dell’intero sistema, postulando - in linea con la tradizione normativa e interpretativa italiana e con le concezioni europee dell’“impresa” - che senza economicità non possa esservi impresa e, pertanto, neppure “impresa sociale”. Vi sarà altro, altrettanto meritevole di tutela e altrettanto “sociale”, ma non sarà “impresa”.
Questa considerazione apre all’ultima riflessione cui vuol essere dedicato questo intervento, avente ad oggetto la domanda se davvero possa dirsi, e in che senso, che nel mutato contesto storico, sociale ed economico, in una prospettiva ormai globale, nuovi “valori” sono entrati nel tessuto tradizionale dell’impresa e richiedono a gran voce un riconoscimento che il diritto tarda ad attribuire loro.
Il tema, ancora una volta, lo si vuole integralmente spogliato da valutazioni deontologiche, che atterrebbero all’etica, alla religione, alla stessa legge che intendesse delegare all’impresa obiettivi propri della politica sociale, a regole di comportamenti desunte da standard di correttezza, efficienza, equilibrio, ecc. Manca, nella riflessione che segue, qualunque riferimento al “dover essere”, cioè a compiti che si riterrebbe giusto, ragionevole, opportuno affidare all’impresa. Il ragionamento resta, invece, saldamente ancorato a ciò che l’impresa è, nell’attuale contesto, o che vorrebbe essere se il diritto glielo consentisse.
Che gli ultimi decenni siano stati caratterizzati da un ingresso autorevole delle tematiche sociali e solidaristiche, in una logica di trasparenza, coesione e sussidiarietà, è un fenomeno ampiamente verificabile, anche nel settore profit, nel quale si è generata la riflessione teorica e poi l’applicazione pratica dei principi di Corporate Social Responsibility e ha iniziato ad affacciarsi in modo massiccio il riferimento ai “valori altri” (ambiente, contributo all’istruzione, solidarietà, dignità e sicurezza sul lavoro) nelle stesse politiche di marketing e nell’informazione societaria in genere.
Lo sviluppo, per altro verso, di fenomeni economici a finalità diverse da quella egoistica-lucrativa, serventi una gamma amplissima e variabile di obiettivi collettivi o, nelle più varie accezioni, “altruistici”, è anch’esso sotto gli occhi di tutti. Lo testimoniano, per restare nel ristretto alveo dell’oggetto di questo intervento, i risultati dell’importante e illuminante Rapporto Iris Network (L’impresa sociale in Italia, a cura di P. Venturi e F. Zandonai) che ha meritoriamente tentato di misurare il “mondo” dell’agire economico pronto ad evolvere verso strutture d’impresa propriamente “sociali”. E ne costituisce conferma la vivacissima fioritura di iniziative scientifiche a livello nazionale (la rete degli istituti di ricerca Iris Network) e transnazionale (il network Emes), che si traducono in un’imponente serie di approfondimenti, pubblicazioni e anche in una rinnovata e pregevole rivista intitolata, appunto, all’ “Impresa Sociale”.
La sensibilità di consumatori e utenti verso simili tematiche è anch’essa diffusa, benché difficilmente misurabile nelle scelte concrete di acquisto e approvvigionamento. È ragionevole del resto ipotizzare una funzione diretta tra gli atteggiamenti dei consumatori e degli utenti e l’informazione resa dall’impresa in relazione alle aree a rilevante sensibilità sociale, quali le condizioni del lavoro e la loro verifica anche nei luoghi di produzione delle materie prime o degli apporti intellettuali primari, il rispetto dell’ambiente, il contributo offerto dalle risorse ricavate a processi di sviluppo, alfabetizzazione, cura e prevenzione di malattie nei Paesi poveri, e simili.
Possiamo dunque dire che il tessuto è maturo per uno “sfondamento” del muro delle concezioni tradizionali - comunque fondate sull’economicità individuale - dell’impresa in senso giuridico. Quel muro, però, sembra tuttora molto saldo. Salvo le nicchie di ciò che è confinato all’azione a vocazione civica, solidaristica e sociale, all’impresa sembra ancora riservata la sua funzione tradizionale di “fare soldi”, se non per finalità di profitto, almeno per continuare a utilizzarli nel processo economico giustificandone la sua persistenza autosufficiente e illimitata sul mercato.
Si ha la sensazione che - salve le esperienze della Csr e dello sfruttamento del “sociale” nel processo di comunicazione - lo stesso legislatore nutra una seria sfiducia sulla capacità dell’impresa “tradizionale” ad arricchire di nuovi “valori” - traducentisi in obblighi di perseguimento da parte degli organi agenti - gli obiettivi economistici che l’hanno fin qui storicamente qualificata.
Ne costituisce il più chiaro esempio la stessa scelta netta del legislatore di confinare la rilevanza giuridica delle “imprese sociali” nell’area della non lucratività, quasi a testimoniare un’insanabile incompatibilità tra finalità lucrativa e raggiungimento di quelle stesse finalità apprezzate dalla legge (inclusione della disabilità, favore per la perequazione sociale, supporto alle fragilità, ecc.).
È, quella che viene consegnata dal legislatore, un’ottica modesta, non priva di venature pauperistiche e, quindi, moralistiche, che non riesce a cogliere l’enorme potenzialità che l’impresa, anche lucrativa, è in grado di esprimere in una prospettiva di coesione, solidarietà e sussidiarietà, e non fa sintesi delle nuove istanze che, imponendosi prepotentemente alle collettività nazionali, non possono non esercitare pressione sugli stessi confini individualistici dell’impresa.
La prospettiva del legislatore dell’impresa sociale sembra basata sulla volontà di impedire che le agevolazioni concesse in funzione del perseguimento delle finalità “nobili” vengano “appropriate” dall’operatore. Ed è una scelta comprensibile. Essa, tuttavia, non contraddice un’impostazione - assente invece nella legge - di segno esattamente opposto, volta piuttosto ad agevolare l’inclusione del perseguimento delle finalità sociali all’interno del processo propriamente lucrativo.
È tempo che ciò avvenga, non solo perché l’impresa, anche lucrativa, è costretta a confrontarsi - come ogni individuo e cittadino - con l’impatto depressivo sull’economia, anche individuale, delle clamorose diseguaglianze sociali, dell’ampliamento della fascia di povertà, della massiccia ondata migratoria senza precedenti in Europa, e deve al contempo essere messa in grado di cogliere, dai fenomeni in atto, le opportunità che sempre e comunque li accompagnano (si pensi all’indispensabilità dell’apporto lavorativo degli immigrati, confermata dal Governatore della Banca d’Italia nella Relazione annuale pronunciata il 31 maggio 2017 ove a p. 15 si evidenzia il drastico calo previsto nei prossimi trent’anni nella popolazione compresa tra i 20 e i 69 anni, calo di quasi 7 milioni di unità, che impone l’allocazione lavorativa dei flussi di immigrazione nazionale, oggi attestati in circa 150.000 unità l’anno).
Ma occorre che ciò avvenga, perché l’impresa - in primis l’impresa lucrativa - è il più rilevante bacino di risorse cui una collettività può ambire ad attingere, in una prospettiva di sussidiarietà giuridicamente riconosciuta e tutelata, per il soddisfacimento di bisogni che lo Stato non sia adeguatamente in grado di assicurare. Vi è, cioè, un preciso interesse politico all’attrazione dei capitali privati - non solo di quelli statici in funzione di erogazione liberale, ma anche di quelli dinamici, potenzialmente di gran lunga superiori e capaci di una rigenerazione e alimentazione continua e non episodica - alla realizzazione degli obiettivi su cui poggia il benessere complessivo di una collettività.
Perché questo effetto si produca, è evidente, non bastano le buone intenzioni. L’impresa è un’organizzazione che, comunque, opera sul mercato. È, quindi, sul mercato che devono porsi le condizioni perché l’impresa sia indotta a tenere certi comportamenti in luogo di quelli che terrebbe altrimenti. Non è, dunque, sul piano della disciplina dell’impresa che potrà avvenire l’immissione d’imperio di nuovi “valori” nel suo tessuto tradizionale, come un carattere genetico estraneo innestato in laboratorio.
La socialità, intesa nella sua più ampia accezione, non è un carattere genetico estraneo all’impresa in quanto essa è, sempre, organizzazione di umani ed è capace degli stessi valori degli umani. È, tuttavia, un valore la cui azione va liberata da una disciplina di mercato che non ne consente l’emersione. E ciò richiede una radicale rivisitazione dei fondamenti stessi dei sistemi contemporanei del diritto dell’economia, attraverso una ridefinizione organica di obiettivi, processi e strumenti, che ne interessi contestualmente tutti i profili, dalla disciplina degli investimenti finanziari a quella del lavoro, dalla regolazione dell’accesso alle risorse alla programmazione dell’inserimento degli immigrati nel segmento produttivo, dalle regole di organizzazione degli attori economici a quelle di misurazione della loro affidabilità, dai principi di rendicontazione contabile a quelle dei processi formativi delle decisioni fondati sul capitale investito, e così via.
Si rende dunque urgente lo sviluppo delle basi teoriche, per la successiva applicazione pratica nelle politiche legislative attuative, del principio di economia “sociale” di mercato che è ormai assunto a cardine del Trattato sull’Unione europea, di cui forma parte anche una nuova concezione dell’istituto concorrenziale, colto nella sua completa accezione, come competizione in cui i più ampi valori coinvolti entrano pienamente in gioco affinché l’impresa sia scelta da clienti, utenti, consumatori e investitori.
Nella traduzione di questo principio in diritto vivente si misurerà la capacità dei legislatori e degli interpreti di assecondare processi storici, economici e sociali irreversibili facendone un elemento di forza delle rispettive economie e liberando, così, il cammino perché nel secolo in corso il riconoscimento e la tutela di nuovi “valori” per l’impresa sprigionino le enormi forze positive che l’impresa, non solo quella “sociale”, è in grado di esprimere per il benessere dell’intero pianeta.

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