Introduzione - Atti del convegno tenutosi a Bologna il 26 maggio 2017
Introduzione
di Giampiero Monteleone
Notaio in Vibo Valentia
L’odierno convegno è dedicato alle liberalità indirette, ovvero, con terminologia più rigorosa, alle liberalità atipiche o liberalità diverse dalla donazione o liberalità non donative, contemplate dall’art. 809, comma 1, c.c., che, assieme alle donazioni formali, sono espressione di quel “linguaggio del dono”, indagato in maniera penetrante da antropologi e sociologi (in particolare, Marcell Mauss, Alain Caillé, Jaques Godbout) in contrapposizione al pervasivo linguaggio utilitaristico, dello scambio mercantile, e connotato dal c.d. “valore di legame”. «Definiamo dono - affermano Godbout(1) e Caillé(2) - ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone». Il dono è, dunque, un fatto sociale importante, prima di essere un elemento di analisi per il diritto.
Sotto il profilo giuridico, il fenomeno delle liberalità non donative, forse ancora di più di quello delle donazioni formali, è stato ampiamente studiato, ma i suoi contorni operativi sono tuttora incerti e sfuggenti. Tanto è vero che la Seconda Sezione della Corte di Cassazione, con la recente ordinanza interlocutoria del 4 gennaio 2017, n. 106, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione concernente gli strumenti utilizzabili per porre in essere una liberalità non donativa ed il relativo meccanismo di funzionamento(3) .
Sappiamo tutti cosa sono le liberalità non donative. Secondo una definizione sintetizzante esse sono costituite da «una pluralità indeterminata di fattispecie nelle quali, con atti diversi dalle donazioni ed aventi una loro autonoma funzione, si realizza, spontaneamente e per un interesse non patrimoniale di chi lo pone in essere, un vantaggio patrimoniale per un soggetto»(4) .
Non mi soffermo qui sulle varie ricostruzioni giuridiche elaborate in dottrina per le liberalità non donative, sostanzialmente oscillanti tra una posizione secondo la quale l’elemento di affinità tra la donazione formale e le liberalità contemplate dall’art. 809, comma 1, c.c., che giustifica l’applicazione alle seconde di talune delle disposizioni dettate per la prima, sarebbe da individuare nel tipo di effetto giuridico prodotto, nel senso che gli atti veicolanti una liberalità non donativa produrrebbero un tipo di effetto giuridico equivalente a quello derivante dalla donazione formale, e una posizione secondo la quale l’elemento predetto sarebbe da individuare nell’intento liberale, che, secondo alcuni, contribuirebbe a costituire la “causa concreta” dell’atto posto in essere ovvero, secondo altri, rappresenterebbe un motivo giuridicamente rilevante dell’atto medesimo.
Noto, però, che la tesi maggiormente seguita in giurisprudenza(5) , è ancora quella, sostenuta da autorevole dottrina(6) , che considera la liberalità non donativa come un’ipotesi di collegamento negoziale, in cui si individua un negozio-mezzo, produttivo dei suoi effetti tipici (ad esempio, l’adempimento del terzo, l’espromissione, la remissione del debito, la stipulazione a favore di terzo) ed un negozio espressivo del fine diverso e ulteriore, o negozio-fine, accessorio ed integrativo, connesso al primo, che ha la funzione di vincolare le parti al raggiungimento dell’ulteriore risultato di liberalità da esse voluto. In questi termini si è espressa, in particolare, la Corte di Cassazione ritenendo che la liberalità non donativa «consiste nell’elargizione di una liberalità che viene attuata, anziché con il negozio tipico descritto dall’art. 769 c.c., mediante un negozio oneroso che produce, in concomitanza con l’effetto diretto che gli è proprio ed in collegamento con altro negozio, l’arricchimento animo donandi del destinatario della liberalità medesima»(7) . E la giurisprudenza ha ulteriormente precisato(8) che lo strumento negoziale adottato allo scopo di realizzare una liberalità non donativa può essere costituito da qualunque negozio o da più negozi collegati, ad esempio un mandato all’apertura di un conto corrente bancario collegato con separate disposizioni per il transito di valori mobiliari su detto conto, «così realizzandosi vari negozi tipici (con causa tipica) in collegamento funzionale tra loro e con finalità ulteriori (donative) in favore del terzo».
Secondo la giurisprudenza(9) inoltre anche una fattispecie di acquisto ex lege, come l’accessione, può dare luogo ad una liberalità non donativa, individuandosi, ai fini della collazione, il bene donato non nel denaro, ma nello stesso edificio realizzato dal disponente, tutte le volte in cui, tenuto conto dello “scopo ultimo” perseguito dal disponente stesso, l’impiego del denaro a fini edificatori sia compreso nel programma negoziale concordato dalle parti. In dottrina si è parlato in proposito di attribuzione di significato di liberalità ad un acquisto ex lege mediante un accordo configurativo(10) .
Quale che sia l’articolazione giuridica delle liberalità non donative, la loro utilità economica sembra evidente: si tratta, in sostanza, di meccanismi che semplificano i rapporti e realizzano quell’economia dei mezzi giuridici cui tende il diritto moderno, agevolando i movimenti di ricchezza.
La più importante, e statisticamente rilevante, tra le fattispecie di liberalità non donative è la c.d. intestazione di beni a nome altrui, che può attuarsi in una pluralità di modi e con l’utilizzo di mezzi giuridici diversi, specie in ambito familiare, e che la giurisprudenza tende a valutare come un’unitaria operazione economica formata da una pluralità di negozi collegati, risultando consolidato, come è stato osservato l’orientamento «che interpreta l’intestazione di beni a nome altrui come una donazione indiretta del bene, una liberalità nascente da un complesso procedimento finalizzato sicuramente a fare acquistare al beneficiario la proprietà di un bene e nel quale la dazione del denaro assume un ruolo strumentale ed è preordinata al conseguimento dell’anzidetto risultato»(11) . In quest’ottica, in caso di collazione, secondo le previsioni dell’art. 737 c.c., il conferimento dovrà avere ad oggetto il bene e non il denaro(12) . Non ricorre la fattispecie della liberalità non donativa del bene, secondo la giurisprudenza, quando il denaro costituisca l’entità di cui il donante ha inteso specificamente beneficiare il donatario e il successivo reimpiego sia rimasto estraneo alla previsione del donante medesimo(13) . L’ipotesi della donazione diretta del denaro, con conseguente necessità della forma pubblica, si verifica, cioè, solo quando il denaro sia «impiegato successivamente dal beneficiario in un acquisto immobiliare con propria autonoma e distinta determinazione»(14) .
C’è da chiedersi:
a) se la riconduzione ad un’unitaria operazione economica formata da una pluralità di negozi collegati - tecnica che la giurisprudenza della Corte di Cassazione utilizza sempre più spesso, penso, ad esempio alle sentenze relative alla c.d. riqualificazione unificatoria fondate sull’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 - valga, sotto il profilo civilistico, anche a fini diversi da quelli collatizi. E sul punto segnalo la recente sentenza del Tribunale di Salerno 6 maggio 2016, n. 2305, in materia di revocatoria ordinaria, secondo cui, nella liberalità non donativa configurabile nell’ipotesi di acquisto di un immobile con denaro fornito da un familiare, va ritenuto che il donante (debitore degli attori in revocatoria) abbia, di fatto, acquistato l’immobile, per poi donarlo, in un secondo momento, ai figli mediante il rogito notarile;
b) se tale riconduzione operi, e con che conseguenze, a fini fiscali, tenendo conto di quanto dispone il comma 4-bis all’art. 1 del D.lgs. n. 346/1990.
Le vicende del rapporto tra la prassi notarile e le liberalità non donative, specie l’intestazione di beni a nome altrui, possono suddividersi in due fasi, sul filo del dilemma tra esternazione e non esternazione. Nella prima fase, quella più lontana nel tempo, anteriore alla normativa di cui al c.d. decreto Bersani- Visco (ufficialmente decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito poi dalla legge 4 agosto 2006, n. 248), la tendenza era quella di sottacere le liberalità non donative, cioè di non esternarle negli atti notarili contenenti i negozi-mezzo utilizzati per le attribuzioni, e ciò sia per evitare indagini sui rapporti endofamiliari, a volte assai delicati e fluidi, sia per non pregiudicare la futura circolazione del bene coinvolto nella contrattazione, nel dubbio circa le conseguenze dell’esercizio dell’azione di riduzione avverso le liberalità non donative e circa l’esperibilità dell’azione revocatoria e della revocazione per ingratitudine o per sopravvenienza di figli, sia per sottrarsi all’eventuale tassazione con l’imposta sulle successioni e donazioni.
La seconda fase, quella più vicina nel tempo, è invece caratterizzata da una progressiva emersione delle liberalità non donative negli atti notarili, sulla spinta:
a) della normativa antiriciclaggio;
b) dell’affermarsi della tesi(15) dell’assenza dell’efficacia reale dell’azione di riduzione avverso le liberalità non donative, con conseguente disattivazione dell’azione di restituzione;
c) dell’opportunità di riequilibrare la posizione dei beneficiari di donazioni formali e dei beneficiari di liberalità non donative;
d) della necessità di evitare che il bene trasferito mediante una liberalità non donativa ad uno dei coniugi in regime di comunione legale sia attratto a tale regime, rendendo applicabile l’art. 179, comma 1, lettera b), c.c.;
e) dell’acquisita consapevolezza circa i benefici fiscali dell’esternazione rispetto all’ipotesi di un accertamento sintetico ai fini delle imposte sui redditi;
f) dell’introduzione - avvenuta con l’art. 69, comma 1, lettera a), del collegato alla legge finanziaria per il 2001 - del comma 4-bis all’art. 1 del D.lgs. n. 346/1990, in base al quale «ferma restando l’applicazione dell’imposta anche alle liberalità risultanti da atti soggetti a registrazione, l’imposta non si applica nei casi di donazioni o di altre liberalità collegate ad atti concernenti il trasferimento o la costituzione di diritti immobiliari ovvero il trasferimento di aziende, qualora per l’atto sia prevista l’applicazione dell’imposta di registro, in misura proporzionale, o dell’imposta sul valore aggiunto». Alle due fasi predette potrebbe aggiungersi, se la prassi notarile si orienterà in questo senso, una terza fase, rappresentata dalla regolamentazione delle liberalità non donative esternate negli atti notarili contenenti i negozi-mezzo utilizzati per le attribuzioni, nel caso in cui, ovviamente, il disponente intervenga in essi, ad esempio con l’introduzione di clausole di dispensa dalla collazione o dall’imputazione, ovvero di clausole che prevedano la riserva di disporre di cui all’art. 790 c.c. a favore del donante ovvero di clausole modali. La giurisprudenza ha significativamente ritenuto «ammissibile l’inserimento del modus come elemento accessorio di un negozio atipico di liberalità, atteso che le specifiche disposizioni codicistiche in cui esso è disciplinato (artt. 648, 793 c.c.), rappresentano applicazioni - e tuttavia fonti normative utilizzabili per la regolamentazione di casi analoghi - che non esauriscono la possibile gamma negoziale in cui può estrinsecarsi l’autonomia privata negli atti di liberalità, attesa l’attitudine del modus a modificare, ampliandolo, il singolo schema negoziale, consentendo la realizzazione di singole e specifiche finalità estranee alla causa»(16) .
Di certo l’esternazione (con o senza regolamentazione) delle liberalità non donative presuppone un’adeguata indagine della volontà delle parti, in quanto comporta l’esplicitazione delle causali di attribuzioni patrimoniali che, come è stato osservato(17) , spesso non sono chiare alle parti stesse; le qualificazioni giuridiche delle attribuzioni patrimoniali all’interno della famiglia restano infatti spesso ambigue, potrebbero essere lasciate consapevolmente nel vago dagli interessati, specie quando il disponente vuole riservarsi il potere di “cambiare idea” e richiedere la restituzione del denaro fornito, assumendo concluso un contratto di mutuo, e dunque l’incremento patrimoniale sottostante all’attribuzione sia da intendersi come precario. Sul punto c’è da ricordare, sotto il profilo operativo, che, secondo la giurisprudenza(18) , l’obbligazione di restituzione è, ai sensi dell’art. 1813 c.c., elemento costitutivo del contratto di mutuo e l’asserito mutuante, attore in restituzione, ha l’onere di provare l’assunzione di tale obbligazione nei suoi confronti. Non può comunque essere desunta l’esistenza di un contratto di mutuo dalla mera consegna alla controparte di assegni bancari o somme di danaro. Ed infatti «la datio di una somma di danaro non vale … di per sé a fondare una richiesta di restituzione allorquando, ammessane la ricezione, l’accipiens non confermi, tuttavia, il titolo posto ex adverso alla base della pretesa di restituzione ed, anzi, ne contesti la legittimità, dacché, potendo una somma di danaro essere consegnata per varie cause, la contestazione della sussistenza di una obbligazione restitutoria da parte dell’accipiens impone, all’attore in restituzione, di dimostrare per intero il fatto costitutivo della sua pretesa, onere che si estende alla prova d’un titolo giuridico implicante, appunto, detta obbligazione, mentre la deduzione d’un diverso titolo da parte del convenuto, non configurandosi come eccezione in senso sostanziale, non vale ad invertire l’onere della prova».
L’esternazione implica inoltre un’attenta valutazione dei rischi sopra evidenziati, quelli che avevano portato a sottacere le liberalità non donative, ai quali possono ora aggiungersi:
- sotto il profilo civilistico, l’eventuale attivazione dello strumento a tutela dei creditori previsto dall’art. 2929-bis c.c., anche se la dottrina prevalente ritiene inapplicabile tale strumento alle liberalità non donative;
- sotto il profilo fiscale, l’eventuale configurazione della liberalità non donativa, da parte dell’amministrazione finanziaria, come una condotta abusiva, quella che l’art. 10-bis dello Statuto del contribuente (legge n. 212/2000) definisce come operazione priva di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizza essenzialmente vantaggi fiscali indebiti.
Di tale ultimo rischio si occuperà il notaio Adriano Pischetola.
C’è poi da stabilire quali possano essere le modalità dell’esternazione. Se cioè la dichiarazione relativa debba essere fatta dall’autore della liberalità, che intervenga appositamente all’atto di trasferimento del bene, o se sia sufficiente, come ritengo preferibile, l’attestazione di una o di entrambe le parti tra le quali il trasferimento interviene, fatta salva la possibilità di contestazione, ai fini civilistici e fiscali, da parte dell’autore della liberalità.
È data in ogni caso la possibilità di eliminare situazioni di incertezza circa l’esistenza di liberalità non donative attraverso atti ricognitivi o di accertamento, che potrebbero anche assumere valenza modificativa ove in essi si decidesse di inserire clausole ulteriori, quali quelle sopra indicate.
Centrale nella concreta realizzazione delle liberalità non donative è la citata disposizione di cui al comma 4-bis all’art. 1 del D.lgs. n. 346/1990, che si articola in due incisi, sui quali vorrei fare qualche rapida osservazione.
Il primo inciso del comma 4-bis dell’art. 1 del D.lgs. n. 346/1990, quello che sancisce che resta «ferma l’applicazione dell’imposta anche alle liberalità risultanti da atti soggetti a registrazione», deve essere coordinato con l’art. 56-bis del D.lgs. n. 346/1990, per desumerne che le liberalità non donative sono rilevanti ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni solo in quanto esse “risultino” (anche per effetto di enunciazione, ai sensi dell’art. 22 del D.P.R. n. 131/1986) da un atto soggetto a registrazione ovvero vengano “confessate” dal contribuente nell’ambito di una procedura di accertamento. Il problema che tale inciso pone è quello di stabilire come debba intendersi l’espressione «liberalità risultanti da atti soggetti a registrazione».
Sotto il profilo civilistico è stato osservato(19) che la qualificazione giuridica di un’operazione come liberalità non donativa può emergere da circostanze estranee a qualsivoglia dichiarazione e può essere portata allo scoperto con l’uso degli strumenti dell’interpretazione, con la conseguenza che «anche in mancanza di dichiarazione espressa, è sufficiente che la liberalità sia comunque ricavabile (dall’inserimento di clausole, … comportamento delle parti, dichiarazioni documentate altrove, ecc.)». Detto altrimenti, l’affermazione dell’esistenza di liberalità risultanti da atti diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c. è questione di interpretazione e di qualificazione. Occorre verificare se anche sotto il profilo tributario possa valere la stessa conclusione. Sul punto si contrappongono due tesi. In base ad una prima tesi(20) , la tassabilità delle «liberalità risultanti da atti soggetti a registrazione» sarebbe sempre subordinata ad una esplicita ammissione delle parti circa l’intento liberale perseguito, contenuta nell’atto di cui si chiede la registrazione; sarebbe dunque preclusa ogni indagine di tipo presuntivo sull’intento delle parti, e la effettiva tassazione della liberalità verrebbe a dipendere da una libera scelta delle parti, manifestata nella esplicitazione nell’atto del fine di liberalità perseguito con l’attribuzione. In base ad una seconda tesi(21) , conforme all’indirizzo civilistico sopra riportato e a mio giudizio preferibile, sarebbero, invece, le circostanze di fatto del caso concreto, le modalità dell’attribuzione, i rapporti tra le parti contraenti od i terzi beneficiari di prestazioni dedotte nell’atto, a segnalare se si è in presenza di una «liberalità risultante da un atto soggetto a registrazione». Ovviamente tale seconda tesi genera delle talune problematiche, come sottolinea il suo stesso sostenitore, «giacché affidare l’obbligo di registrazione ad elementi empirici, di tipo indiziario, ed in certa misura estrinseci rispetto all’atto idoneo a soddisfare un assetto di interessi liberali, alimenterebbe un indesiderabile e defatigante contenzioso, e porterebbe ad una pesante intromissione dell’Amministrazione negli interna corporis delle famiglie italiane», donde l’opportunità di individuare «combinazioni negoziali che parrebbero qualificarsi ex se, secondo l’id quo prelumque accidit, come liberalità indirette»(22) .
Il secondo inciso del comma 4-bis dell’art. 1 del D.lgs. n. 346/1990, quello che sancisce l’esclusione da imposta per le liberalità “collegate”, delinea, come è stato osservato(23) , un rapporto di esclusione fra l’area di operatività dell’imposta sulle successioni e donazioni e quella dell’imposta di registro (o dell’imposta sul valore aggiunto), ancorché limitatamente alle operazioni in esso indicate. Questa sorta di alternatività riguarda sia le donazioni formali sia le liberalità non donative; non trova però applicazione se la donazione o la liberalità non donativa siano “collegate” all’effettuazione di atti non traslativi oppure di atti traslativi ma non aventi ad oggetto diritti immobiliari o aziende (ad esempio partecipazioni sociali) oppure di atti traslativi di diritti immobiliari o aziende che non siano soggetti all’imposta di registro in misura proporzionale o all’imposta sul valore aggiunto (ad esempio il conferimento di azienda in società). Trova applicazione anche in caso di collegamento della donazione o della liberalità non donativa con una fattispecie fiscalmente equiparata ad un atto traslativo (ad esempio il conguaglio divisionale). Il problema rilevante che tale inciso pone è quello di stabilire, da un lato, da un punto di vista sostanziale, quale legame debba intercorrere tra la donazione o la liberalità non donativa e l’atto traslativo a titolo oneroso di diritti immobiliari o aziende affinché possa dirsi integrato il “collegamento” richiesto per poter disapplicare l’imposta sulle successioni e donazioni, e come tale legame debba risultare; dall’altro, da un punto di vista procedurale e temporale, come debba articolarsi la sequenza degli atti collegati(24) . In proposito occorre tener conto del fatto che, secondo un indirizzo giurisprudenziale(25) , per configurare una liberalità non donativa avente ad oggetto un bene e non il danaro impiegato per il suo acquisto, è sufficiente l’esistenza del collegamento tra l’elargizione del danaro da parte del donante e l’acquisto del bene da parte del donatario, nel senso che la prima è finalizzata al secondo, collegamento suscettibile di essere dimostrato in modo assolutamente libero, utilizzando qualsiasi dato anteriore, contemporaneo o perfino successivo alla stipulazione dell’acquisto finale, non essendovi limiti precostituiti alla prova derivanti da presunte forme tipiche con le quali si realizzerebbero le liberalità non donative, come ad esempio la partecipazione diretta del donante alle trattative, l’avere costui sottoscritto un contratto preliminare, il pagamento diretto del prezzo al venditore o comunque la presenza del donante all’atto di acquisto stipulato dal donatario, e così via. Detto altrimenti, l’affermazione dell’esistenza di un collegamento sarebbe (così come l’affermazione dell’esistenza di liberalità risultanti da atti diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c.) questione di interpretazione e di qualificazione. Assai efficacemente è stato scritto in dottrina «che, per quel che concerne il profilo dell’individuazione concreta del nesso di collegamento, trattandosi di operazione squisitamente ermeneutica, essa non potrà che venire condotta facendo capo alle norme che disciplinano l’interpretazione degli atti di autonomia. E pertanto, qualora il nesso non sia immediatamente desumibile, in quanto cioè non abbia formato oggetto di una clausola ad hoc (circostanza, quest’ultima, invero non particolarmente frequente), dovrà farsi capo a criteri di interpretazione che privilegino gli aspetti più prettamente obbiettivi: con la conseguenza che la connessione economica o teleologica tra i vari negozi finirà sovente per risultare decisiva in ordine all’individuazione in concreto del collegamento funzionale che li caratterizza»(26) . Tale indirizzo dovrebbe valere anche in ambito fiscale e specificamente agli effetti di cui al secondo inciso del comma 4-bis dell’art. 1 del D.lgs. n. 346/1990. Esso non è però univoco, in quanto, secondo altra impostazione, «il collegamento negoziale è fenomeno incidente direttamente sulla causa della operazione contrattuale che viene posta in essere, risolvendosi in una interdipendenza funzionale dei diversi atti negoziali rivolta a realizzare una finalità pratica unitaria. Al fine di acquisire autonoma rilevanza giuridica, specie nel caso in cui le parti contrattuali siano diverse e laddove la connessione rifletta l’interesse soltanto di uno dei contraenti, è necessario tuttavia che il nesso teleologico tra i negozi… venga quanto meno esplicitato ed accettato dagli altri contraenti, in guisa da poter pretendere da essi una condotta orientata al conseguimento dell’utilità pratica cui mira l’intera operazione. In altri termini, la fattispecie del collegamento negoziale se, da un lato, è configurabile anche quando i singoli atti siano stipulati tra soggetti diversi, richiede, dall’altro, pur sempre che i negozi siano concepiti ed accettati come funzionalmente connessi e tra loro interdipendenti»(27) .
Dei problemi summenzionati si occuperà il notaio Maria Luisa Cenni. Mi limito semplicemente a dire:
- che il collegamento cui fa riferimento la disposizione del comma 4-bis dell’art. 1 del D.lgs. n. 346/1990, è, nell’ipotesi di intestazione di beni a nome altrui, per usare le parole della Corte di Cassazione, «il collegamento tra elargizione del denaro e acquisto e cioè la finalizzazione della dazione del denaro all’acquisto»(28) . In altri termini il collegamento esiste ogni qualvolta, implicitamente o esplicitamente, risulta che il denaro occorrente per effettuare l’acquisto è stato fornito al beneficiario dal disponente a titolo di liberalità non donativa. In proposito il Ministero delle finanze, nella circolare esplicativa n. 207/E del 16 novembre 2000, ha affermato che in base alla disposizione del comma 4-bis dell’art. 1 del D.lgs. n. 346/1990, «per tutti gli acquisti immobiliari finanziati da terzi sarà possibile dichiarare in atto che il pagamento è avvenuto a cura del soggetto donante, così da consentire alle famiglie di rendere trasparenti i loro rapporti economici (ad esempio, la dazione di denaro dal padre al figlio ovvero il pagamento del relativo prezzo da parte del padre per l’acquisto di una casa)»;
- che dell’esclusione da imposta prevista dal secondo inciso del comma 4-bis dell’art. 1 del D.lgs. n. 346/1990 devono ragionevolmente beneficiare anche le liberalità non donative oggetto di atti di ricognizione o accertamento successivi alla stipula dell’atto traslativo di diritti immobiliari o aziende; tali atti, infatti, come è stato osservato servono «proprio ad evidenziare il collegamento esistente tra liberalità indiretta ed atto traslativo posto in essere in precedenza, oltre, naturalmente, ad eliminare una situazione di incertezza circa l’esistenza della liberalità indiretta»(29) ;
- che, come è stato pragmaticamente osservato, «chi è interessato a far valere il collegamento fra liberalità e successivo acquisto oneroso (perché è proprio tale collegamento che immunizza la liberalità dal prelievo fiscale) troverà evidente convenienza a rendere questa prospettiva di vantaggio fiscale più sicura, legandola saldamente a una enunciazione esplicita e incontrovertibile del collegamento stesso, anziché affidarla precariamente a elementi di più difficile e incerta decifrabilità»(30) .
Sul “collegamento” tra liberalità e atto oneroso è recentemente intervenuta la Corte di Cassazione(31) , in un caso però di liberalità non donativa risultante da dichiarazione resa dall’interessato in sede di accertamento sintetico ai fini dell’imposta sui redditi, ai sensi dell’art. 56-bis del D.lgs. n. 346/1990. Tale sentenza sarà esaminata in alcune delle relazioni della giornata, e su di essa, dunque, non mi soffermo. Dell’art. 56-bis del D.lgs. n. 346/1990 si occuperà, in particolare, il notaio Giampiero Petteruti.
Tutte le superiori considerazioni implicano che il notaio, individuando una liberalità non donativa, debba scegliere se esternarla o non esternarla ponderando attentamente i costi e i vantaggi e fornendo adeguata informazione alle parti. Come ha scritto il professor Vincenzo Roppo «bisogna individuare quale - fra le strategie di costruzione negoziale alternativamente possibili - è, nella fattispecie, la più conveniente per la migliore organizzazione e gestione dei concreti interessi affidati alle cure del notaio. Ci saranno casi in cui appare prevalente l’esigenza della tranquillità fiscale: e allora l’atto sarà costruito in un certo modo. In altri casi apparirà dominante la preoccupazione di proteggere l’atto da future aggressioni di terzi: e allora si raccomanderà una differente strategia di costruzione del negozio»(32) . Una curiosità finale. Riflettendo sulle liberalità non donative mi è venuto in mente un testo letto molti anni addietro, che fornisce un’originale spiegazione delle ragioni sottostanti alla tassazione di tali liberalità. Si tratta del volume Teoria dell’illusione finanziaria, scritto nel 1903 da un economista emiliano, Amilcare Puviani (riedito da Isedi, Milano, 1973). Le illusioni finanziarie, secondo tale autore, consistono in un inesatto apprezzamento da parte dei contribuenti «del costo e del sacrificio recato dalla imposizione» e si appoggiano «ad un calcolo inesatto degli effetti penosi immediati del tributo»(33) ; vengono utilizzate come strumento di attivo condizionamento delle valutazioni dei contribuenti da parte dello Stato, al fine di diminuire la resistenza all’imposizione. Tra le illusioni finanziarie vi sono quelle dipendenti dal collegamento dell’imposta ad eventi piacevoli che modificano la “facoltà dispendiativa” dei contribuenti, come, per quel che qui interessa, il ricevere beni a titolo gratuito. Ciò che indusse lo Stato fin da epoche remote «ad accogliere ed a sviluppare a sistema le imposte sui trasferimenti gratuiti» fu «la condizione psicologica del contribuente, in seguito ad un subito arricchimento». Si ebbe, cioè, «riguardo a quella più alta utilità iniziale, che i nuovi beni acquistati avevano per l’acquirente; a quella eccezionale condizione di felicità momentanea, in cui questi cadeva nei primi momenti del suo nuovo stato; a quella propensione dispendiativa, che riduce al minimo il dolore dell’imposta»(34) . Nel decidere di tassare le liberalità non donative, lo Stato avrebbe, dunque, fatto una valutazione di tipo psicologico, considerando la particolare propensione del contribuente a pagare il relativo tributo in connessione con l’arricchimento conseguito. Seguendo il ragionamento potrebbe dirsi che l’illusione finanziaria svanisce, o comunque si attenua, se il contribuente-beneficato è tenuto a pagare l’imposta di registro in misura proporzionale o l’imposta sul valore aggiunto per atti concernenti il trasferimento di diritti immobiliari o di aziende cui le liberalità non donative siano collegate, e da qui la ragione dell’esclusione da imposta prevista dal secondo inciso del comma 4-bis dell’art. 1 del D.lgs. n. 346/1990. Alla base poi della tassazione delle liberalità non donative ai sensi dell’art. 56-bis del D.lgs. n. 346/1990, potrebbe esserci un’altra forma di illusione finanziaria, quella consistente «nel considerare certe prestazioni d’imposta … come mali minori inevitabili per sfuggire a mali maggiori», consistenti «a loro volta in imposte». Il contribuente si trova qui «di fronte a due pene, l’una maggiore, l’altra minore; ma … egli considera l’una di esse come il modo di esclusione dell’altra». L’imposta «è attenuata dalla osservazione di un danno maggiore evitato»(35) , costituito, nel caso di specie, dall’accertamento sintetico e dalle sue conseguenze. Con questa brevissima visita in soffitta, chiudo la mia introduzione.
(1) J. GODBOUT, Lo spirito del dono, Torino, 1993, p. 30.
(2) A. CAILLÉ, Dono, interesse e disinteresse, in Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Torino, 1998, p. 80.
(3) Le Sezioni Unite si sono pronunciate, dopo il convegno, con la sentenza in data 27 luglio 2017, n. 18725.
(4) Cfr. A. CATAUDELLA, Successioni e donazioni. La donazione, in Trattato di diritto privato, vol. V, Torino, 2005, p. 58.
(5) V. da ultimo Cass., 21 ottobre 2015, n. 21449.
(6) A. TORRENTE, La donazione, seconda edizione aggiornata, Milano, 2006, p. 28, il quale seguiva l’impostazione di Salvatore Pugliatti.
(7) Cass., 8 maggio 1998, n. 4680.
(8) V. ancora Cass. n. 21449/2015.
(9) Cass. 20 maggio 2014, n. 11035.
(10) V. CAREDDA, Donazioni indirette, in I Contratti gratuiti, Torino, 2008, p. 223 e ss.
(11) V. CAREDDA, op. cit., p. 283.
(12) Così, da ultimo, Cass., 4 settembre 2015, n. 17604.
(13) Cass., 6 novembre 2008, n. 26746.
(14) Cass., 24 febbraio 2004, n. 3642.
(15) Fatta propria da Cass., 12 maggio 2010, n. 11496, ribadita da Cass., 14 giugno 2013, n. 15026, e sostenuta dalla dottrina.
(16) Cass., 11 giugno 2004, n. 11096.
(17) R. LUPI, I trasferimenti non formali, in L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme, Milano, 2001, p. 294 e ss.
(18) Cass., 24 febbraio 2004, n. 3642.
(19) V. CAREDDA, Le liberalità diverse dalla donazione, Torino, 1996, p. 145.
(20) A. FEDELE, Le innovazioni nella legge n. 342 del 2000, in L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme, Milano, 2001, p. 83 e ss.
(21) D. STEVANATO, Le liberalità tra vivi nella riforma del tributo successorio, in L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme, Milano, 2001, p. 265.
(22) D. STEVANATO, op. cit., p. 256.
(23) D. STEVANATO, op. cit., p. 265.
(24) Cfr. S. GHINASSI, La fattispecie impositiva del tributo successorio, Pisa, 2014, p. 77 e ss.
(25) Vedi Cass., 14 dicembre 2000, n. 15778, e, in senso sostanzialmente conforme, Cass., 2 febbraio 2016, n. 1986, Cass., 27 febbraio 2004, n. 4015, Cass., 15 gennaio 2003, n. 502.
(26) C. COLOMBO, Operazioni economiche e collegamento negoziale, Padova, 1999, p. 254.
(27) Vedi Cass. 16 febbraio 2007, n. 3645, e, in senso sostanzialmente conforme, Cass. 17 maggio 2010, n. 11974.
(28) Cass., 14 dicembre 2000, n. 15778, sopra citata.
(29) A. TORRONI, «L’atto ricognitivo di precedenti liberalità indirette, riunione fittizia e collazione. Clausole contrattuali», Convegno telematico del 25 novembre 2015, Fondazione italiana del Notariato, p. 37.
(30) V. ROPPO, «Le liberalità fra disciplina civilistica e norme fiscali: una sfida per il ceto notarile», in Notariato, 2002, p. 431.
(31) Cass., 24 giugno 2016, n. 13133.
(32) V. ROPPO, op. cit. p. 433.
(33) A. PUVIANI, Teoria dell’illusione finanziaria, Milano, 1973, p. 24.
(34) A. PUVIANI, op. cit., p. 118.
(35) A. PUVIANI, op. cit., p. 149.
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