Liberalità indirette e abuso del diritto
Liberalità indirette e abuso del diritto
di Adriano Pischetola
Notaio in Perugia

Premessa

L’analisi di cui alla presenti note intende verificare se esistono ipotesi in cui attraverso una liberalità indiretta si possa configurare una condotta abusiva, quella che l’art. 10-bis dello Statuto del contribuente (legge n. 212/2000) definisce come operazione priva di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzi essenzialmente vantaggi fiscali indebiti.
È noto che per ‘operazione priva di sostanza economica’ il medesimo art. 10-bis fa espresso riferimento a «fatti, atti e contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali», precisando poi che «sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato». Allora la domanda che l’interprete si dovrebbe porre in quest’ottica è, innanzitutto e in buona sostanza, se quella condotta posta in essere dal disponente di una liberalità indiretta non produca, in via essenziale, altro effetto se non quello di un vantaggio fiscale e, se anche ciò dovesse palesarsi nella singola fattispecie concreta, se si si tratti di un vantaggio fiscale ‘indebito’.
Inoltre è intuitivo come tale indagine:
a) Vada effettuata con riferimento esclusivo al negozio-fine (la liberalità indiretta posta in essere) e non al negozio-mezzo cui si faccia ricorso per conseguire la finalità liberale.
b) vada condotta con riferimento ai soli criteri di cui al menzionato art. 10-bis, in quanto non è più applicabile il disposto del terzo comma dell’art. 16 della legge 18 ottobre 2001 n. 383, a tenore del quale «Le disposizioni antielusive di cui all’articolo 69, comma 7, della legge 21 novembre 2000, n. 342(1), si applicano con riferimento alle imposte dovute in conseguenza dei trasferimenti a titolo di donazione o altra liberalità». Infatti a loro volta le disposizioni antielusive richiamate dall’art. 69 citato si riferiscono a quelle di cui all’ art. 37-bis del D.P.R. n. 600/73, ormai abrogato dal medesimo decreto legislativo n. 128/2015(2) che ha introdotto l’art. 10-bis.
c) debba appurare se operino - pura a fronte di condotte negoziali potenzialmente abusive - specifiche esimenti apprestate dal legislatore stesso o applicabili in via interpretativa.

I presupposti dell’abuso di diritto o elusione

È il dato normativo stesso contenuto nel già cit. art. 10-bis dello Statuto del contribuente a stabilire quando si verifica una condotta abusiva o elusiva, come innanzi si rilevava. Si deve trattare di un’operazione:
a) priva di sostanza economica (espressione questa che richiama le “valide ragioni economiche” di cui faceva menzione la norma antiabusiva specifica, di cui all’abrogato art. 37-bis); l’assenza di sostanza economica si traduce, secondo lo stesso dettato legislativo, come si diceva, nella inidoneità del fatto, atto o contratto a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali;
b) rispettosa in via formale delle norme fiscali (sicché siamo ‘fuori’ dell’alveo dell’abuso di diritto se si verifica una violazione di una specifica norma tributaria(3), ad es. per evasione, simulazione, interposizione, o mancato pagamento di tributi dovuti per violazione di norme di legge ex art. 20 del Tur)
c) in grado di realizzare essenzialmente vantaggi fiscali indebiti (e il medesimo art. 10-bis fornisce una interpretazione ‘autentica’ di tale espressione stabilendo che si considerano tali «i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario»). Ricorre qui un riferimento alla ‘essenzialità’ del vantaggio indebito che trova un suo immediato ‘pendant’ nel comma 3 del medesimo art. 10-bis ove è precisato che al contrario «Non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali», di guisa che non potranno essere considerate abusive quelle condotte negoziali che, pur realizzando per ipotesi vantaggi fiscali indebiti, non attraggano detti vantaggi a fondamento causale ‘essenziale’ dell’operazione o quando questa, pur in presenza di quegli stessi benefici fiscali, sia ascrivibile in via essenziale e non marginale ad una diversa ragione extrafiscale. Tra l’altro tali ragioni, diverse da quelle strettamente fiscali (che escludono ‘in ogni caso’ la natura abusiva/elusiva della condotta) vengono esemplificativamente indicate dal legislatore come quelle anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondano a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente. Ma è stato rilevato in dottrina(4) come esse debbano essere ragionevolmente riferite anche alla sfera degli interessi economico-giuridici dei privati (e non solo degli operatori del mondo dell’impresa o delle professioni); sicché anche ragioni che attengano ad un più razionale assetto degli interessi di questi soggetti, dei loro assets patrimoniali e delle loro vicende (anche future) dovrebbero essere considerate di natura ‘extrafiscale’, e, con riguardo alla rilevanza di quegli stessi interessi, qualificati o qualificabili come ‘non marginali’.
Inoltre, come si diceva, si dovrebbe trattare di vantaggi fiscali ‘indebiti’, e cioè, spiega l’art. 10-bis, in grado di integrare un conflitto tra condotta fattuale o negoziale posta in essere e le ‘finalità’ delle norme fiscali o i principi dell’ordinamento tributario. Come è stato rilevato in dottrina(5), si tratta di un vantaggio che si pone in contrasto o in deviazione rispetto alla ‘ratio’ cui risponde nel complessivo sistema giuridico lo strumento in concreto utilizzato per conseguire quel vantaggio. Esso non è indebito perché ‘illegittimo’ (altrimenti sarebbe oggetto di una sanzione per violazione di una specifica norma inibitoria, come in caso evasione, frode, simulazione ecc.), ma perché è, per così dire, disapprovato dal sistema, in quanto dissonante rispetto al motivo per il quale si appresta una specifica tutela giuridica a quello stesso strumento. Al riguardo anche la recente direttiva n. 2016/1164 adottata dal Consiglio dell’Unione europea in data 12 luglio 2016(6) prevede all’art. 6 che gli Stati membri debbano ignorare una costruzione o una serie di costruzioni che, essendo stata posta in essere allo scopo principale o a uno degli scopi principali di ottenere un vantaggio fiscale che è in contrasto con l’oggetto o la finalità del diritto fiscale applicabile, non è genuina avendo riguardo a tutti i fatti e le circostanze pertinenti, e nel considerando n. 11 precisa che nel valutare se una costruzione debba essere considerata non genuina, gli Stati membri dovrebbero avere la possibilità di prendere in esame tutte le valide ragioni economiche, incluse le attività finanziarie.
Quindi appare chiaro da tutti i referenti normativi e dalla direttiva sopra riportati che non è a dar luogo ad alcuna condotta elusiva/abusiva se risulti rispettata la finalità sottesa alla norma tributaria di fatto applicabile. Il vantaggio fiscale che pur consiste in un risparmio d’imposta, allora, non potrà essere considerato ‘indebito’, laddove sia l’ordinamento stesso a consentirne l’ottenimento, e ciò in quanto non si verifica in detta fattispecie alcuna violazione o dissonanza rispetto alla ‘ratio’ della norma tributaria e alla sua finalità. Il che appare confermato dal disposto del comma 4 del citato art. 10-bis a tenore del quale va rispettata «la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale», nonché dal considerando n. 11 delle ricordata direttiva per cui «il contribuente dovrebbe avere il diritto di scegliere la struttura più vantaggiosa dal punto di vista fiscale per i propri affari commerciali».
Il presupposto della legittimità del vantaggio fiscale, è evidente, è sempre lo stesso: l’assenza di alcun contrasto con la ‘ratio’ della regola tributaria, assenza che giustifica il legittimo esercizio della opzione fiscale ritenuta più vantaggiosa dal contribuente.

Applicabilità alle liberalità indirette dei principi antielusivi

Ma a questo punto l’ulteriore ‘step’ che appare doveroso compiere è se esistano o meno margini anche solo per poter ipotizzare l’applicazione dei principi antielusivi (alla cui affermazione è preposta la norma generale antiabuso di cui al cit. art. 10-bis) alle liberalità non donative o se al contrario essi restino in qualche modo estranei a tale categoria, in verità assai variegata, di atti e fatti giuridici. Ebbene, la prima osservazione da fare è che siffatta categoria di atti è stata legittimata dal legislatore stesso nell’art. 809 c.c. che sancisce l’applicazione ad essa di talune norme dettate in materia di donazione (in ambito civile) e negli artt. 1 comma 4-bis e 56-bis del T.U. n. 346/90 (in ambito fiscale); anzi nelle ultime due dette norme il legislatore ha anche disegnato l’alveo di rilevanza fiscale delle liberalità al vaglio, al punto che si potrebbe già argomentare nel senso di una loro irrilevanza fiscale al di fuori delle fattispecie espressamente individuate dal legislatore tributario.
Ma poiché la normativa antiabuso è stata dettata proprio allo specifico scopo di attrarre ad imposizione (o ad una imposizione più elevata) fattispecie negoziali o giuridiche in senso lato che, al di là dell’apparenza formale degli strumenti tecnici utilizzati, in assenza di una costruzione complessa, sarebbero state oggetto di quella imposizione stessa, l’interrogativo da porsi è ‘come’ una liberalità non donativa possa integrare gli estremi di un’operazione economica priva di sostanza economica che realizzi un vantaggio fiscale indebito.
Il che ci induce a fare qualche considerazione puntuale su singole fattispecie concrete, dando per acquisito che le modalità con cui si può porre in essere una liberalità non donativa sono le più diverse(7).

Casistica

A] Si può pensare, esemplificativamente, all’ipotesi manualistica della donazione diretta di azienda a favore di estraneo. Per evitare la imposizione onerosa dovuta all’assenza di una qualche franchigia, si ricorre alla costruzione negoziale complessa risultante dal conferimento dell’azienda in una società magari unipersonale e alla successiva cessione di quote della società conferitaria al mero valore nominale a favore di coloro che avrebbero dovuto risultare gli originari beneficiari della donazione non perfezionata direttamente. In tal caso a fronte dell’apparenza formale della costruzione negoziale complessa posta in essere, si potrebbe pensare che essa risulti inopponibile all’Amministrazione finanziaria laddove si riesca a provare che in realtà si è posta in essere una donazione indiretta dell’azienda, elusiva della maggiore tassazione di quella cui avrebbe dato luogo una donazione diretta. La prova di tale elusività infatti (posta a carico dell’A.F. stessa dal comma 9 dell’art. 10- bis dello Statuto del contribuente) dovrebbe far emergere il vantaggio fiscale indebito, inteso cioè come vantaggio che si ponga in contrasto o in deviazione rispetto alla ‘ratio’ della norma tributaria che prevede l’imposizione della fattispecie concreta. Orbene la ‘minore’ tassazione che discende dall’adozione di una costruzione negoziale come quella qui rappresentata non pare porsi al di ‘fuori’ del sistema impositivo disegnato dal legislatore, ma al contrario risulta con esso compatibile. Ed infatti l’applicazione della imposta in misura fissa al primo segmento della costruzione negoziale in oggetto (il conferimento dell’azienda) dipende dall’interesse che ha l’ordinamento alla sviluppo e conservazione del potenziale imprenditoriale racchiuso nel complesso aziendale conferito; così come l’applicazione della medesima imposta al secondo segmento (per la cessione di quote successiva) risponde all’esigenza di non ricorrere all’imposizione proporzionale per una fattispecie che comporti solo una mera variazione soggettiva, spesso anche priva di particolare rilevanza sul piano della capacità contributiva. Se pertanto il contribuente abbia optato per l’utilizzo dei descritti strumenti giuridici, ciò facendo, ha sì indirettamente ottenuto un vantaggio fiscale (rispetto alla donazione diretta dell’azienda), ma esso non può qualificarsi ‘indebito’, perché è il sistema stesso che prevede la possibilità di fruire di una minore tassazione in considerazione della rilevanza, anche sociale, del bene ‘impresa’ (per il conferimento) e della ridotta importanza, sotto il profilo della capacità contributiva, della variazione soggettiva (per la cessione delle quote). La conferma della fondatezza di tale modalità argomentativa si può desumere dagli stessi più recenti documenti di prassi. E così nella ris. n. 93/E del 17 ottobre 2016, in materia di assegnazione agevolata ai soci e successiva cessione dei beni assegnati a terzi, l’A.F. ha escluso che si potesse argomentare in ordine alla presunta elusività dell’operazione così congegnata, in quanto il vantaggio fiscale derivante dalla ‘fuoriuscita’ dei beni assegnati a condizioni di favore con tassazione agevolata e dalla imponibilità di una plusvalenza afferente alla successiva cessione dei beni solo sulla parte del corrispettivo che eventualmente esubera il valore di assegnazione, non è in contrasto con la ‘ratio’ prevista dalla norma agevolativa di cui alla legge n. 208/2015 (ora prorogata dalla legge di bilancio per il 2017(8)), che è proprio quella di agevolare «la fuoriuscita dalle società di immobili che potenzialmente potrebbero poi essere nuovamente immessi nel mercato, favorendo così la circolazione degli immobili e portando nuova linfa ad un mercato che versa in una situazione piuttosto stagnante»(9). B] Continuando, e sempre esemplificativamente, l’ipotesi più frequente della c.d. intestazione di beni sotto il nome altrui pare del tutto sfuggire ad un possibile sindacato di elusività da parte dell’A.F., e ciò per il semplice motivo per cui esiste già un apposito meccanismo normativo elaborato per attrarre ad imposizione le liberalità non donative finalizzate a quella intestazione e rinvenibile nei ben noti artt. 1 comma 4-bis e 56-bis del T.U. n. 346/90. Perché mai si dovrebbe dedurre in via applicativa la normativa antiabuso a fronte di una intestazione di beni sotto nome altrui quando è l’ordinamento stesso a prevedere i presupposti e le modalità dell’eventuale applicazione dell’imposta? Qui anzi l’ordinamento si disinteressa perfino della presenza o meno di una ‘sostanza economica’ che dovrebbe sottendere all’operazione: essa sarà imponibile solo se e qualora ricorrano le condizioni prefissate. Peraltro la scelta da parte del disponente di effettuare tale intestazione in forma indiretta (attraverso ad es. l’adempimento dell’obbligo altrui e non attraverso la preventiva dazione del danaro, e ciò allo scopo di incidere sul contenuto degli obblighi di imputazione e di collazione afferenti in tal modo al bene intestato piuttosto che al danaro) è fatto giuridico non suscettibile di valutazione alcuna da parte del Fisco e potrebbe rispondere ad una valida ragione extrafiscale non marginale.
C] Ancora: qualora la liberalità non donativa emerga da operazioni societarie [quali potrebbero essere assegnazioni di partecipazioni non proporzionali al conferimento, sottovalutazione volontaria del conferimento di uno dei soci agli effetti della imputazione a capitale, attribuzione ad un socio di utili non proporzionali al conferimento - art. 2263 c.c. per le soc. di persone - o alla quota di partecipazione (diritti particolari nelle Srl o azioni privilegiate nelle SpA), remissione di un debito della società, versamento a fondo perduto, aumento del capitale con prezzo di emissione pari al valore nominale a fronte di un valore patrimoniale più elevato ecc.(10)], la ‘sostanza economica’ di siffatte operazioni risulta essere in re ipsa, per il fatto stesso cioè che esse siano state previste come ‘possibili’ dall’ordinamento. Se infatti per operazioni privi di ‘sostanza economica’, per esplicitazione stessa offertane da legislatore dello Statuto del contribuente all’art. 10-bis, si devono intendere operazioni non coerenti «con il fondamento giuridico del loro insieme» e non conformi «a normali logiche di mercato», appare evidente che le dette operazioni possano essere, al contrario, più che fondate dal punto di vista giuridico-economico, in quanto consentono talora di pervenire a particolari equilibri degli interessi patrimoniali dei soci e a specifici pareggiamenti degli stessi con strumenti diversi da quelli della mera proporzionalità delle prestazioni derivanti dallo ‘status’ di socio (ad esempio qualora si intenda apprezzare la specifica partecipazione di un socio, prescindendo appunto dal rispetto di tale proporzionalità). Anche queste, tra l’altro, potrebbero integrare opportune fattispecie tipiche ove possono ricorrere valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondano a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa (così come l’art. 10-bis espressamente richiede e prevede).
D] Ancora nell’ottica del mondo dell’impresa e della sua rilevanza in quanto bene produttivo di utilità sociale, oltre che con riferimento ad una peculiare causa che è quella della sistemazione del patrimonio del disponente (titolare d’azienda o di quote di partecipazione sociale) in vista della sua futura successione, vanno riguardate tutte le prestazioni che nascono o scaturiscono da un patto di famiglia ai sensi degli artt. 768-bis e ss. c.c. Qui, oltre la fattispecie principale del trasferimento del bene produttivo, di regola si verificano taluni spostamenti di ricchezza patrimoniale o si perfezionano atti ad essi rinunciativi da parte dei legittimari non assegnatari. In generale, se tali spostamenti sono contenuti nell’ammontare della quota di riserva spettante al legittimario non assegnatario, non vi è a dar luogo ad alcuna donazione indiretta: si tratterà di una sorta di ‘modus’, di oneri patrimoniali che conseguono o accedono al trasferimento del bene produttivo, che gravano a carico del legittimario assegnatario con scopo solutorio, adempiendo ad un obbligo legale e che possono essere assolti direttamente dal disponente stesso, anche nella formula dell’adempimento da parte del terzo. Così pure l’atto rinunciativo si ritiene che rientri nella complessiva sistemazione dei rapporti tra i coeredi in vista della futura successione del comune dante causa, avendo previsto peraltro espressamente questa ipotesi l’art. 768-quater comma 2 c.c. Al contrario le assegnazioni che vengono effettuate a favore dei legittimari non assegnatari potrebbero avere valore di donazioni indirette se per ipotesi ‘fuoriescano’ per entità e valore da un ragionevole equilibrio degli interessi patrimoniali in campo rispetto alla successione stessa e come tali risulterebbero imponibili secondo gli ordinari criteri di tassazione, ma di certo non ricorre alcuna elusività; così come potrebbe qualificarsi liberalità indiretta quella effettuata dal disponente adempiendo l’obbligo del beneficiario del bene produttivo in sua vece, ma anche stavolta non si riscontra alcun profilo elusivo in tale attività negoziale, che resta sicuramente opponibile all’Amministrazione finanziaria, senza timori di accertamento alcuno. Non risulta infatti alcuna condotta deviante rispetto alla ‘ratio’ della normativa civilistica e fiscale che regola l’istituto del patto di famiglia, e quindi in radice pare negata la possibilità della produzione di vantaggi fiscali ‘indebiti’.
E] Dubbiosa altresì è l’imputazione alla categoria delle liberalità non donative anche il ‘fatto’ giuridico dell’acquisizione gratuita di un bene da parte di un coniuge in regime di comunione legale in assenza della dichiarazione della provenienza del corrispettivo ai sensi dell’art. 179 lett. f) c.c. da parte del coniuge contraente-acquirente. In tal caso infatti, a prescindere dalla reali intenzioni soggettive del coniuge contraente che non rende la dichiarazione, opera un regime patrimoniale legale universale a tenore del quale gli acquisti dei ‘beni personali’ si pongono in rapporto di eccezione a regola. La circostanza che l’omissione della dichiarazione sulla provenienza del corrispettivo determini la ricaduta nella comunione legale del bene acquistato non è riconducibile ad un fatto ‘privo di sostanza economica’ in quanto, perché ciò si verifichi, è necessario riscontrare, come si è notato innanzi, una incongruenza della singola operazione con il suo fondamento giuridico. Al contrario nella fattispecie ‘de qua’ il meccanismo acquisitivo risponde alla logica del sistema che regola i rapporti dei coniugi soggetti di default al regime legale della comunione dei beni, salvo che gli stessi non optino diversamente; e se l’opzione non viene esercitata, di certo la condotta posta in essere non può essere qualificata per ciò stesso elusiva.
F] Altri strumenti giuridici attraverso i quali attuare una liberalità non donativa potrebbero essere la rinuncia abdicativa, in cui peraltro l’eventuale acquisto di un vantaggio patrimoniale da parte di un terzo è l’effetto indiretto dell’atto abdicativo(11) (pensiamo alla «ipotesi classica della rinuncia all’eredità da parte del coniuge superstite e per effetto della quale i figli vedono implementare i loro diritti successori»(12)); così come l’eventuale remissione di un debito ai sensi dell’art. 1236 c.c. (perfezionata senza alcun accordo con il debitore, in quanto diversamente la donazione sarebbe diretta) o infine la rinunzia ad un diritto reale di godimento(13) o alla comproprietà (che comporta la riespansione del diritto di proprietà già gravato dal diritto parziario o dalla quota di comproprietà oggetto di rinuncia). Orbene in tutte le menzionate ipotesi il vantaggio fiscale che ne deriva (oltre che essere un effetto indiretto, come illustrato) non pare ‘indebito’, nel senso di contrario o in deroga alla ‘ratio’ delle norme fiscali o dei principi dell’ordinamento tributario. A parte il fatto che già l’ordinamento prevede un meccanismo impositivo in sé esauriente, completo e con funzione antielusiva ‘a monte’ (ad esempio in materia di rinunzia a diritti reali, sia nell’ambito dell’imposta di registro quanto dell’imposta di donazione e successione è prevista la equivalenza di siffatto atto a quello con effetto traslativo/costitutivo(14), o per quanto concerne la remissione del debito, nell’imposta di registro se ne prevede la tassazione con aliquota dell’0,50% ai sensi dell’art. 6 della Tariffa parte prima allegata al D.P.R. n. 131/86), è già nel sistema così apprestato dal legislatore tributario che non abbia rilevanza fiscale l’eventuale vantaggio indiretto prodotto a favore di un terzo, che quindi non si pone in contrasto con alcuna norma tributaria. Infatti [1] la tassazione dell’atto dismissivo e puramente abdicativo non comporta già di default la soggezione ad imposta di quel vantaggio stesso e non avrebbe senso invocare l’esistenza di un’operazione ritenuta priva di sostanza economica quando l’ordinamento ha mostrato di volersene disinteressare, prevedendo un sistema impositivo, come si diceva, preordinato e con preventiva funzione antielusiva. [2] A ciò aggiungasi la necessità della ‘essenzialità’ del vantaggio fiscale, che l’A.F. dovrebbe provare per considerare ad essa inopponibile l’atto stipulato e che invece sarebbe arduo far emergere se l’atto dismissivo venga posto in essere (come accade ordinariamente) a fronte del mero disinteresse del rinunciante a serbare la titolarità del diritto dismesso per ragioni che attengono alla sua sfera giuridico-patrimoniale e non necessariamente a quella del terzo avvantaggiato.
[3] Infine è tutto da dimostrare che la riespansione del diritto di proprietà sia di sicuro vantaggio fiscale per il terzo: questi infatti, ad es, in caso di rinuncia all’usufrutto da parte dell’ex-titolare, diventa il nuovo soggetto passivo per il pagamento di imposte di natura fondiaria che prima della rinuncia gravavano a carico del primo.
Quanto fin qui precisato non appare smentito nemmeno dalla conclusioni cui è pervenuta l’A.F. nella diversa fattispecie esaminata nella risoluzione n. 234/E del 24 agosto 2009. In caso di apertura della successione di Tizia a favore delle figlie Caia e Mevia e di decesso di Caia prima della formalizzazione di qualsiasi accettazione, l’A.F. ha ritenuto, come si ricorderà, che l’utilizzo della rinuncia pura e semplice all’eredità relitta da Tizia e fatta da Mevia, a sua volta unica erede anche di Caia, in nome e per conto di quest’ultima, integrerebbe un ‘abuso di diritto’ in quanto fatta «al solo scopo di ottenere un indebito vantaggio fiscale»; essendo evidente che se quella rinuncia fosse ritenuta valida, si assisterebbe anche ai fini fiscali ad un solo trasferimento ‘mortis causa’ diretto tra Tizia e Mevia con risparmio complessivo d’imposta. In tal caso in effetti il congegno negoziale posto in essere è funzionale alla disapplicazione della norma tributaria che richiede l’assolvimento dell’imposta di successione anche da parte del chiamato all’eredità, ancorché non accettante (salvo non abbia rinunziato all’eredità o, non trovandosi nel possesso di beni ereditari, non abbia richiesto la nomina di un curatore dell’eredità giacente ai sensi dell’art. 28 del T.U. n. 346/90), e quindi pare realizzare (sia pure con tutti i dubbi del caso) proprio quell’indebito vantaggio fiscale che comporta la qualificazione in termini di elusività della condotta negoziale tenuta dal contribuente. D’altra parte è pur vero che nella descritta fattispecie non siamo di fronte ad alcuna donazione indiretta posta in essere a favore di chicchessia e che, come è stato esattamente osservato, «la rinuncia all’eredità è atto neutro, che non ha necessità di essere qualificato dal punto di vista giuridico dai sottostanti motivi; l’ipotizzare dunque una esclusiva finalità di risparmio fiscale appare opinabile ed arbitrario»(15).
G) Altra fattispecie negoziale che può integrare una liberalità non donativa è il contratto a favore del terzo (art. 1411 e ss.), ove peraltro, come è stato rilevato da autorevole dottrina, «la ragione dell’attribuzione a favore del terzo non può non essere estranea alla struttura contrattuale»(16). Pertanto la contestazione eventuale dell’utilizzo di questo schema contrattuale per porre in essere un’operazione negoziale liberale a rischio di elusione potrebbe essere sollevata in linea teorica sempreché si riesca a far emergere, in prima istanza, l’elemento esterno al profilo causale dato dal presunto ‘animus donandi’. Laddove infatti emergesse che la finalità perseguita è diversa (ad es. perché lo stipulante attraverso la prestazione al terzo resa dal promittente intende assolvere ad un obbligo già assunto nei confronti del terzo o solo perché l’adozione dello schermo legale del contratto in oggetto consente di snellire taluni formalismi burocratici), non si potrebbe argomentare certo in termini di liberalità indiretta abusiva. D’altra parte la deviazione degli effetti contrattuali a favore del terzo con conseguente rilevanza fiscale della sola prestazione resa dal promittente a suo favore e quindi irrilevanza del diverso rapporto tra promittente e stipulante è essa stessa la causa legale tipica riconosciuta ed ammessa dall’ordinamento che sottende all’istituto ‘de quo’. Ragion per cui non potrebbe essere avanzata una contestazione con riferimento al diverso maggior peso fiscale che una duplicità di vicende negoziali (relative ad una prima prestazione tra il contraente A e il contraente B, e ad una seconda prestazione tra il contraente B e il terzo C) comporti rispetto ad un’unica vicenda negoziale recante un’immediata deviazione degli effetti giuridici del contratto dal contraente A a favore del terzo C (sia pure grazie alla stipulazione convenuta con B), e ciò in quanto l’operazione così congegnata non potrebbe essere qualificata incoerente con suo il fondamento giuridico nel suo insieme. Se infatti si fa ricorso alla figura contrattuale ‘de qua’, ripetesi, prescindendo dai motivi particolari che abbiano indotto promittente e stipulante alla sua concreta adozione(17), lo si fa proprio per valorizzare la premialità del congegno contrattuale in oggetto, idoneo a dare attuazione al principio di economia degli atti giuridici e quindi alla stessa esigenza del sistema normativo tradottasi nelle previsioni di cui agli artt. 1411 c.c. e ss. Inoltre sarebbe proprio quella appena illustrata una modalità concreta con cui, a mente del quarto comma art. 10-bis citato, si realizzerebbe la libertà di scelta del contribuente tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale. Se poi si aggiunge che un’eventuale liberalità indiretta ritenuta esistente tra stipulante e terzo, in ogni caso trova la sua disciplina fiscale nell’ambito del meccanismo di cui all’art. 1 comma 4-bis del T.U. n. 346/90, ne discende in via consequenziale una difficoltà, ancora maggiore, di dedurre nella fattispecie ‘de qua’ argomentazioni di elusività.
Sotto certi profili, analogamente, nell’ipotesi di adempimento del terzo ex art. 1180 c.c., si può dare luogo ad una liberalità non donativa laddove l’adempimento risulti posto in essere con intenzione liberale, salvo a stabilire se la liberalità consista nell’adempimento in sé o nella rinunzia del solvens a ripetere ciò che ha pagato(18). Ma anche qui pare improbabile una contestazione sulla elusività dell’operazione: seppure ne derivi un vantaggio fiscale (come potrebbe essere quello nascente dalla omissione di una donazione diretta tra adempiente e debitore avente ad oggetto la disponibilità finanziaria idonea alla estinzione del diritto del creditore), si tratta di un vantaggio solo indiretto, che non pare in contrasto con alcun principio dell’ordinamento tributario né peraltro si tratta di un’operazione priva di sostanza economica sotto il profilo della sua non conformità a normali logiche di mercato. Talvolta infatti (come accade nella stessa delegazione di pagamento ex art. 1268 c.c.), il pagamento del debito altrui fatto dal terzo a scopo liberale si giustifica con la necessità di evitare un carico patrimoniale insostenibile per il debitore principale, laddove questi si trovi per avventura nella impossibilità di farvi fronte con proprie disponibilità finanziarie o anche con l’opportunità che venga utilizzato questa formalità di adempimento per garantire il creditore stesso, interessato a ricevere il pagamento da soggetto non fallibile e quindi per scongiurare il rischio di una sua revocazione. In ogni caso se il riferimento all’assenza della conformità dell’operazione alle ‘normali logiche di mercato’ è uno dei criteri che consentono di qualificarne la elusività, tali ‘logiche’ vanno intese in senso ampio e conforme alla normale prassi dei rapporti tra i consociati, tenendo in considerazione il fatto che il vantaggio nascente da siffatte operazioni e perseguito dai soggetti ha molto spesso colorazione e contenuto di carattere squisitamente extrafiscale.

Considerazioni conclusive

Da quanto fin qui illustrato, è possibile trarre alcune considerazioni finali in ordine alla operatività dell’abuso del diritto/elusione nelle liberalità non donative.
• Pare molto improbabile che l’amministrazione finanziaria possa contestare l’opponibilità di un congegno negoziale attraverso il quale si ponga in essere una liberalità non donativa idonea a realizzare vantaggi fiscali ‘indebiti’.
Se tali infatti sono solo quelli disapprovati dal sistema in quanto «realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario», come innanzi si è avuto modo di osservare nell’analisi delle singole fattispecie concrete, tale contrasto non si pone laddove la condotta liberale s’innesta in schemi legali tipici o atipici considerati di per sè meritevoli di tutela giuridica e pertanto oggetto di una disciplina, anche fiscale, congruente con siffatta tutela (come accade in particolare nel contratto a favore del terzo, ove anzi il meccanismo attributivo del vantaggio reso al terzo è il fatto qualificante della fattispecie legale, in quanto senza di esso il contratto stipulato tra stipulante e promittente di certo non potrebbe soggiacere alla disciplina delineata negli artt. 1411 e ss., ma solo a quella di un ordinario contratto di compravendita, permuta, locazione ecc.(19)). Se il legislatore ha dimostrato di non volere enfatizzare il peculiare e variegato substrato motivazionale che può sottendere alla scelta dei contraenti di deviare gli effetti della vicenda negoziale a favore di terzi, il vantaggio, per ipotesi anche fiscale, che ne possa derivare pare irrilevante e soprattutto non indebito. E ciò è ancor più vero laddove è il legislatore stesso a concepire come possibile strumento di una liberalità non donativa una figura negoziale tipica, come accade per la costituzione di una rendita vitalizia a favore del terzo che, recita l’art. 1875 c.c., «quantunque importi per questo una liberalità, non richiede le forme previste per la donazione».
• Se, inoltre, come si è osservato, le valide ragioni extrafiscali non marginali (che il comma 3 del cit. art. 10-bis indica come esimente della elusività) sono anche quelle che non solo le imprese o i professionisti, ma anche i privati possono vantare al fine di meglio allocare le proprie risorse finanziarie, distribuendole secondo criteri finalizzati ad attuare una più equa ripartizione delle stesse tra i propri aventi causa (magari a titolo di anticipata successione), ebbene proprio le liberalità, ancorché non donative, possono essere un valido strumento per realizzare quelle ragioni stesse. Di più: il fatto che tali liberalità siano soggette ai medesimi meccanismi di collazione, riduzione e revocazione previsti per le donazioni (art. 809 c.c.), evidenzia che già ex ante il legislatore ha valutato gli unici profili di criticità che da esse possano derivare sul piano civilistico (predisponendo gli opportuni rimedi) e tra quei profili non ha certo ipotizzato la possibile violazione della norma tributaria. Al contrario, proprio allo scopo di evitare un utilizzo elusivo delle liberalità indirette, ne ha già disegnato un sistema circolare e completo di tassazione (ex artt. 1 comma 4-bis, 56-bis e 58 comma quinto del T.U. n. 346/90), dalla loro eventuale rilevanza fiscale (se ‘non’ collegate ad atti traslativi/costitutivi di diritti reali immobiliari o di aziende, incisi con imposta proporzionale di registro o con l’Iva), sino al loro accertamento, nell’ambito di appositi procedimenti tributari e alla loro soggezione a tutte le disposizioni previste per le donazioni, in quanto compatibili, dal titolo III del T.U. stesso(20).
• Infine pare legittimo argomentare anche in ordine alla difficoltà di qualificare le condotte negoziali (o fattuali), pur complesse, che integrino liberalità non donative, come operazioni, in ogni caso, ‘prive di sostanza economica’. Se infatti, in forza di quanto statuisce il comma 2 del medesimo art. 10-bis, sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato, pare indubitabile il fatto che il ricorso a quelle condotte è prevalentemente giustificato proprio dalla premialità, anche finanziaria, scaturente da una riduzione delle attività economico-giuridiche in grado di realizzare la liberalità e che detta premialità è una delle categorie tipiche delle normali ‘logiche di mercato’, oltre che essere rispondente a principi insiti nel nostro sistema giuridico, come quello di economia dei mezzi giuridici cui innanzi si accennava. Del resto è proprio lo Statuto del contribuente (legge n. 212/2000) all’art. 6 terzo comma a far emergere la necessità di adottare forme di semplificazione tributaria, prevedendo che «l’amministrazione finanziaria assume iniziative volte a garantire ... che il contribuente possa adempiere le obbligazioni tributarie con il minor numero di adempimenti e nelle forme meno costose e più agevoli». È pertanto una esigenza già avvertita dal nostra sistema (e non in contrasto con esso) quella di non penalizzare, anzi di favorire condotte che siano in grado di agevolare il contribuente nell’assolvimento delle obbligazioni tributarie e in forme meno costose: quello che le liberalità non donative sarebbero appunto - tra le altre utilità marginali - in grado di realizzare, e ciò nell’esercizio di una legittima facoltà di scelta «tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge» (comma 4 art. 10-bis).


(1) L’art. 69 comma 7 recita: «Le disposizioni antielusive di cui all’articolo 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, si applicano, ad esclusione delle condizioni contenute nel comma 3 del medesimo articolo, anche con riferimento all’imposta sulle successioni e donazioni. Le disposizioni del presente comma e quelle del comma 1, lettere m) e n), si applicano ai fatti accaduti e agli atti comunque formati successivamente alla data del 1° luglio 2000».

(2) V. art. 1, comma 2, D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128.

(3) Come si desume dal comma 12 del cit. art. 10-bis a tenore del quale «In sede di accertamento l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie».

(4) V. MASTROIACOVO, «L’abuso del diritto e elusione in materia tributaria; prime note nella prospettiva notarile», studio tributario CNN n. 151-2015/T.

(5) V. MASTROIACOVO, op. cit., p. 13

(6) Direttiva recante norme contro le pratiche di elusione fiscale che incidono direttamente sul funzionamento del mercato interno; essa all’art. 11 impone agli Stati membri di adottare e pubblicare, entro il 31 dicembre 2018, le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per darvi concreta attuazione.

(7) Ciò è pacificamente ammesso dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione secondo la quale (v. recente sentenza sez. III del 19 febbraio 2016, n. 3263) la donazione indiretta può atteggiarsi nei modi più vari, essendo «caratterizzata dal fine perseguito di realizzare una liberalità, e non già dal mezzo, che può essere il più vario, nei limiti consentiti dall’ordinamento, ivi compresi più negozi tra loro collegati (Cass. n. 3134/2012, conforme a Cass. n. 5333/2004)».

(8) V. art. 1 comma 565 della legge 11 dicembre 2016, n. 232.

(9) Analogamente si legge nella ris. n. 101/E del 3 novembre 2016 che non si può ritenere elusiva un’operazione di scissione di una società con assegnazione degli immobili (non utilizzati più in via strumentale ma solo concessi in locazione a terzi) a favore della società beneficiaria, per far sì che questa poi possa trasformarsi in una società semplice e quindi valersi della normativa fiscale agevolata prevista dalla citate legge n. 208/2015; anche stavolta si tratterebbe di un’operazione ‘in linea’ con la ‘ratio’ della normativa di favore e quindi il vantaggio fiscale non sarebbe ‘indebito’.

(10) Ma anche conferimenti di cospicui complessi volontariamente imputati solo parzialmente a capitale e per l’eccedenza a riserve (di cui vadano a beneficiare indirettamente gli altri soci), cessioni di azienda senza computazione del valore di avviamento, c.d. trasformazione di impresa familiare in società mediante conferimento dell’azienda del titolare e di crediti per collaborazione familiare artificiosamente gonfiati ecc.

(11) A. TORRENTE, La donazione, Milano 2006, p. 50.

(12) Secondo G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, Milano, 1983, tomo primo, p. 218 la rinuncia all’eredità non integra una donazione indiretta in quanto il legislatore (art. 519 e ss. c.c.) intende prescindere dalla volontà di donare, pe attenersi solo alla qualifica di rinunzia data al negozio; secondo parte della dottrina (G. IACCARINO, «La rinuncia al diritto di (com)proprietà nella prassi notarile», in Notariato, 2016, 6, p. 578 e ss.) la rinuncia all’eredità costituisce donazione indiretta solo se effettuata con spirito liberale e se tale circostanza viene espressamente enunciata dal dichiarante in atto, in quanto in tal caso «da un lato l’atto ha entrambi i requisiti che caratterizzano le liberalità quali l’animus donandi e il depauperamento inteso come perdita della posizione giuridica di chiamato e quindi perdita della possibilità di arricchirsi della corrispondente quota ereditaria e, dall’altro, il passaggio dell’animus donandi dalla sfera dei motivi a quella della causa in virtù della espressa dichiarazione del rinunciante in tal senso».

(13) V Cass. 30 dicembre 1997 n. 13117 (per il cui commento si rinvia a R. TORDIGLIONE, «Rinunzia all’usufrutto e donazione indiretta», in Notariato, 1998, 5, p. 407 e ss.): la sentenza afferma la possibilità che anche una rinunzia all’usufrutto, se ispirata da ‘animus donandi’, è suscettibile di integrare una donazione indiretta a favore del nudo proprietario;

(14) E anche l’A.F. in una documenti di prassi (ris. n. 25/E del 16 febbraio 2007) ha argomentato per l’assimilazione sul piano fiscale della rinuncia abdicativa al diritto di usufrutto ad un atto avente efficacia traslativa sostenendo che «Al riguardo, appare determinante la circostanza che con l’atto di rinuncia si produce un vantaggio in capo ad uno specifico soggetto e che tra l’atto di rinuncia e l’arricchimento del beneficiario sussiste un nesso di causalità. Nel caso in esame, anche in mancanza di un palese accordo negoziale o di un’esplicita menzione in atto, l’effetto che deriva dalla rinunzia consiste nella ricostituzione della piena proprietà dell’immobile, già gravato dal diritto di usufrutto, con conseguente arricchimento del patrimonio del nudo proprietario». In questo senso si è pronunciata anche la giurisprudenza di legittimità; nella sentenza n. 16495 del 2005 della Corte di Cassazione si legge che «... il titolare si priva del suo diritto indipendentemente dalla circostanza che la rinuncia assuma la forma dell’abbandono o quella dell’indicazione del successivo titolare: infatti è sempre un altro soggetto ad acquistare la titolarità del diritto rinunciato, sia che tale acquisto avvenga immediatamente (rinuncia traslativa), sia che esso abbia luogo successivamente (rinuncia abdicativa)». In modo ancora più esplicito, gli stessi giudici, con sentenza n. 24512 del 2005, hanno sottolineato che «... non vi sarebbe alcun logico motivo per assoggettare ad imposta la cessione di usufrutto di cui all’art. 980 del codice civile e non la rinuncia negoziale al diritto stesso, che arreca al nudo proprietario un arricchimento identico a quello conseguito da chi riceve l’usufrutto».

(15) V. Segnalazione Novità riportata in CNN Notizie n. 165 del 14 settembre 2009 (Est. S. Cannizzaro - S. Ghinassi); v. anche G.D. PUTORTÌ, «Abuso del diritto e imposte indirette non armonizzate. Casi e questioni di interesse notarile», in Atti del Seminario organizzato dalla Fondazione italiana del Notariato tenutosi a Reggio Calabria 25 Settembre 2010, Genova 29 Gennaio 2011, Verona 2 Aprile 2011 (Supplemento telematico al n. 3/2011), secondo il quale, nel caso di specie esaminato dalla citata Risoluzione, a fronte di una delazione unica a favore del medesimo soggetto destinatario della stessa non ha senso parlare di duplicità dell’imposta (a carico del primo chiamato deceduto senza accettare l’eredità a lui devoluta e del secondo chiamato trasmissario della delazione ai sensi dell’art. 479 c.c.), stante l’orientamento unanime espresso in dottrina nel sostenere l’unicità della delazione ereditaria per il chiamato all’eredità che divenga destinatario, ad ulteriore titolo, della delazione alla stessa eredità.

(16) A. TORRENTE, op. cit., p. 65.

(17) Per Cass. civ., sez. lav., 2 settembre 1996 1996, n. 8027, lo schema formale del contratto a favore del terzo «è tale da astrarre completamente dagli eventuali rapporti (interni) tra stipulante e terzo (cd. rapporto di provvista)».

(18) Come ritiene A. TORRENTE, op. cit., p. 72; ma in contrario G. CAPOZZI, op. cit., ritiene che se esiste l’animus donandi, manca il diritto alla ripetizione in colui che dona, poco importa se in via diretta o indiretta.

(19) Ciò non è contraddetto dal fatto che il contratto a favore del terzo, come rilevato in dottrina (M.C. DIENER, Il contratto in generale, Milano, 2002, p. 684), è riguardato dall’opinione dottrinaria prevalente come un ordinario tipo di contratto munito di clausola accessoria che fa deviare gli effetti a favore del terzo: tale clausola infatti, pur accessoria nel senso sopra detto, ha un indubbio valenza qualificativa della fattispecie di cui agli artt. 1411 c.c. e ss.

(20) Infatti il quinto comma del detto art. 58 del T.U. n. 346/90 stabilisce l’applicabilità delle disposizioni di cui al titolo III (Applicazione dell’imposta alle donazioni), in quanto compatibili, anche agli di liberalità tra vivi diversi dalla donazione.

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